L’invenzione del tempo libero è storia nota. Semplicemente: si comincia con la costruzione dell’orario lavorativo, si definisce qual è il tempo della produzione del valore e quello che rimane si chiama tempo libero. Degradato a resto, senza valore perché non messo a produzione. Così, il tempo libero diventa una zona temporale dove importano due cose: la prima è l’uso che se ne fa di questo tempo, privo dei limiti della produzione; l’altra è preoccuparsi che questo tempo non venga conquistato dall’orario di lavoro. Insomma, a tutti piace l’idea di essere dopolavoristi, meglio ancora se si ha tempo per fare il proprio.
Se parliamo di “dopolavoro” è perché il dopolavoro ha una storia piuttosto lunga, di istituzioni e associazionismo, che trova il suo apice organizzativo proprio nei pressi delle stazioni ferroviarie. Partiamo da lontano, da un secolo fa: dagli anni Venti, da quel periodo della prima modernità che richiedeva l’ingresso di un ritmo incalzante, del transito svelto e di un mito della velocità che dallo sferragliare dei treni sbuffava le sue pretese anche alla vita, con il transito incessante delle locomotive rinvigorite dal sogno dell’immediatezza. Si cominciava ad accelerare. Sulle tratte, nell’economia, nella cultura, i miti delle metropoli cominciavano a sostenersi con importanza negli immaginari nazionali, e il lavoro prendeva le stesse velocità dei suoi mezzi.
Sarà per questo che a fronte del logorio del lavoro, nella seconda decade del Novecento nacque il Dopolavoro sul modello dell’associazionismo delle società di muto soccorso, più legate all’operaismo. Pensato come insieme delle attività ricreative al termine di una giornata sfiancante, come spazio e momento di socialità, la storia prosegue e s’infila nei meandri del fascismo, nelle colonie estive, e approda alla svelta nel lavorio delle ferrovie.
Organizzare il tempo libero è un modo di dire strambo. È libero, mica organizzato.
Abbiamo sbrogliato in fretta la storia, perché la domanda è proprio sul “dopolavoro”: perché dopolavoro e non tempo libero? La cosa strana e stramba è che il Dopolavoro è l’organizzazione del tempo libero. E organizzare il tempo libero è già strano. In fondo è libero, e per essere organizzato dovrebbe invece essere scandito, strutturato, definito in funzione delle attività che si affibbiano al tempo libero, che allora libero non è. Soprattutto quando nel XXI secolo ogni istante del tempo da “dopolavoro”, il tempo libero, viene fagocitato con gusto dagli strascichi del lavoro, tra consegne, rifiniture, presentazioni, progettazioni, aperitivi e così via finché ogni tempo – escluso il sonno, per ora, ma abbiamo reference che dicono il contrario – possa rientrare felicemente nel magico reame produttivo del capitalismo. Insomma, volendo possiamo attingere a fonti storiche e filosofiche che ci parlano di cos’è l’ozio (ave al Diritto all’Ozio di Paul Lafargue, genero di Marx), del pregio del tempo nel rifiuto del lavoro di cui l’arte è sempre stata l’alfiere (una letta a Maurizio Lazzarato per il volumetto Marcel Duchamp e il rifiuto del lavoro, ma anche al In praise of laziness di Mladen Stilinovich), fino alla “piena automazione”. Il fatto è che la questione del tempo libero è spinosa perché è spesso posta nei termini di una ricreazione, di un intervallo, e noi vogliamo piuttosto uno stile di vita.
Circoli culturali, di lettura e confronto, di filosofia della domenica, come se fosse una scuola della terza età o dell’età di mezzo.
Ma insomma, non vogliamo dilungarci troppo. Servirebbe più un longform in cui si analizzi, come già tanti hanno fatto, i presupposti sui quali organizziamo e pensiamo il tempo libero. Per questo il Dopolavoro – come l’Arci – è una specie di istituzione del tempo libero, dove si decide che cos’è e cosa si fa. Niente diritto all’ozio, ma tante tante attività. Fatto questo volto pindarico, ciò che è stato il Dopolavoro Ferroviario ha le sue suggestioni. D’altronde, pensiamo che ci si sia sempre chiesti che fine facciano gli operatori ferroviari nei tempi morti del lavoro. Nelle pause pranzo, per esempio. O nei momenti morti tra un treno e l’altro. Sarà perché pure la definizione di “Dopolavoro Ferroviario” ha un sapore nostalgico, ma è facile immaginarsi un intervallo di partite a carte, a scopone scientifico con bicierin di rosso o i bianchi sporchi della vecchia guardia, oppure i circoli culturali, di lettura e confronto, di filosofia della domenica, come se fosse una scuola della terza età, o dell’età di mezzo. C’è del bello nel pensare questi intervalli di tempo come momenti di socialità, nel pensare lo spazio del Dopolavoro come il riflesso di una casa, di un’osteria, di una libreria. Ed effettivamente, gli spazi del Dopolavoro di Centrale non sono così diversi dalle abitazioni. Ci sono saloni e androni, bagni e docce, ma con un bancone da bar e un sapor di seppia nostalgico negli occhi.
Ora, il Dopolavoro di Milano Centrale è in disuso come Dopolavoro da parecchio tempo. Quegli intervalli tra un treno e l’altro, tra un biglietto e un viaggio, sono forse stati occupati da tutta la serie di attività e spazi che nel corso degli ultimi anni hanno fatto della Stazione un luogo di transito, non solo nel senso più proprio dell’andirivieni dei pendolari e dei lavoratori, ma anche rispetto al viavai del pubblico. Se Feltrinelli e McDonalds sono in fondo dei must have delle grandi e medie stazioni da almeno una quindicina d’anni, il resto delle attività, dai negozi di moda fast retail, ai franchising del food più o meno in voga del momento, rendono le stazioni luoghi in cui ci si può soffermare sempre meno. Il Dopolavoro si svolge altrove o forse proprio non si svolge più, testimoniando in parte che l’idea di tempo libero è stata fagocitata da altri ritmi lavorativi, di cui tutti più o meno siamo a conoscenza.
Oggi il Dopolavoro è uno spazio enorme che rimbalza tra fruitori di varia natura.
Se vi chiedete che cos’è oggi il Dopolavoro di Centrale, la risposta è proprio come la immaginate: uno spazio enorme e continuamente rimbalzato da utenti di varia natura. Bisogna ricordare, per esempio, che qualche anno fa, a fronte della repulsione e del buon gusto che le città e i suoi luoghi-vetrina assumono col tempo, lo spazio del Dopolavoro venne affidato al Progetto Arca. Era il 2015, e l’arrivo di profughi era alle stelle. Arca si occupava di accoglienza, e riuscì a convertire l’ex Dopolavoro in un hub con posti letto, mensa, docce e ambulatori. Forse ricordate la Stazione in quegli anni, quando negli androni gelati d’inverno si assembravano per necessità famiglie, madri ad allattare bambini, ragazzi a fumare sigarette, qualcuno che pregava sul marmo, mentre i pendolari continuavano il loro solito andirivieni. D’altronde non c’erano altri spazi. Piano piano la stazione si è impermeabilizzati alle notti, e nel sottopasso Mortirolo apriva Arca, che lavorava sulle emergenze dei senza fissa dimora, con mense e unità di strada.
Ora lo spazio è chiuso, e aspetterà di diventare qualcos’altro. Ma nel frattempo il Dopolavoro torna ad abitare un po’ nell’immaginario collettivo. Vi basti pensare che quella che conosciamo oggi come la Balera dell’Ortica era un vecchio Dopolavoro, che in parte conserva quegli aspetti del divertimento che un buon uso del tempo libero vuole. E intanto, anche a Corvetto – altro quartiere che cova un po’ il futuro della città – apre il nuovo Dopolavoro. C’è poco da fare. Siamo dopolavoristi.