Ogni isola che si rispetti ha almeno qualche albero, un rigagnolo d’acqua dolce, delle specie animali che possano tenervi compagnia se proprio il resto non vi basta o fornirvi qualcosa di succulento da mettere sotto i denti, e fondamentale è una qualche risorsa per cominciare a imbastire il sogno dell’abitare, della prossimità, quell’esser colti nel liricismo sfumato dai toni del romantico, quello che vede nelle albe e nei tramonti il medesimo e il diverso, la novità e l’identico, insomma, che trova nel folto groviglio della natura le ragioni per godere dell’istante unico della vita per poi capitalizzare il tutto in una bella immagine pubblicitaria e perché no, con una bella impronta eteronormata, un po’ come il Robinson di Tournier nel suo Venerdì e il Limbo del Pacifico, un piccolo capolavoro che riprende Defoe là dove gli asini cascavano a capofitto: nel bel mezzo della retorica del buon selvaggio e del civilizzato, con tutti i vizi a corollario. Che poi un tale retorica è quella che un po’ ha fatto la storia conflittuale tra natura e cultura, tra giardino e foresta, da una parte l’ordine, lo spazio finito, e dall’altro il caos, l’infinito. Non per niente l’isola del Robinson di Tournier si chiama Speranza. E alla fine [Spoiler] Robinson riesce a trovarcelo l’infinito, e in effetti da un po’ fuori di matto, finirà a scoparsi i prati – momenti magici e ovviamente fecondi. Insomma, questa distinzione è all’incirca la stessa che si può trovare anche tra oasi e deserto, per esempio. Quindi, che cos’è un’oasi? Se vi fate questa domanda tra voi e voi la prima cosa che vi si materializza in testa è puntualmente il solito classicone: due palme e uno stagno in una distesa di sabbia, la salvezza di fronte all’arsura, la familiarità del piccolo spazio contro l’inospitalità di un orizzonte infinito, il buco colmo d’acqua e il Robinson che si fa prendere dalla libido pansessuale. Ed è effettivamente così, avete immaginato bene. Da una parte dovete ringraziare le chilometriche file di pellicole dei cinepanettoni italiani intrisi di colonialismo facilone per avervi infilato in testa l’immagine delle oasi così come sono, dall’altra partire dal presupposto che un’oasi è un piccolo oggetto del desiderio.
Sì, perché si gode nelle oasi. Lo sanno tutti, lo sapete voi e lo sappiamo noi. Con la differenza che una volta si cercavano e oggi si costruiscono. Come i deserti, in fondo. Si costruiscono con tutti i problemi del caso poi, basta rivolgere un pensiero alle green cities pensate ex-novo, alla bellezza di vivere in un posto che, diciamocelo, col cazzo che te lo potrai mai permettere, ma un po’ lo si desidera, fa gola, lo si sogna. Per esempio, ricordiamo tutti come si lodavano i cieli tersi e puliti, l’aria trasparente e leggera, l’assenza di traffico dell’anno scorso, che è quella cosa lì che ti prende dolcemente la pancia, che ti rendi conto che in fondo il verde non ti turba, ma proprio per un cazzo, che il cielo senza cappa giallastra alla fine è bello, ha anche il suo fascino trovarlo tra i palazzi e non sulle cime di un ghiacciaio in procinto di diventare una pozzanghera, e ti viene voglia di passeggiare, di fare sport all’aperto, ma non è una questione di “naturale”, e che vuol dire poi, “naturale”, è ambiguo, lo sappiamo, ma insomma, dicevamo che è bello perché quello spazio edenico, l’oasi, il giardino, si trova solitamente negli spazi periferici, lontano dai torracchioni bianciardiani, e come se lo stupore non si bastasse mai, aggiungiamo che i nostri occhi sono biologicamente settati per cogliere un’infinità di sfumature di verde, verde Speranza, che ha pure un bel grip biologico, oltre a essere cartolina e green-appeal del capitale.
È un’idea di verde: il verde selvatico che si fa strada tra i palazzi, tra i sollazzi e le lussurie boschive.
Ma torniamo a noi, al sodo, al luogo, al quartiere, insomma, sottocasa. Dov’è l’oasi sotto casa? Potremmo anche pensare una rubrica. E qui lo diciamo e qui lo neghiamo, perché sono ben pochi i luoghi in città a potersi dire oasi – in primis per le cancellate, che a scavalcarle di scomponi il malleolo peroneale –, pensateci: a NoLo hanno evidenti problemi di verde pubblico, a Isola anche, certo, direte voi, Porta Venezia con parco Montanelli e poi Sempione che copre Cairoli ecc., ma sui Navigli, mannaggia, che è dove passa l’acqua per davvero, dov’è? Sotterrata con i Navigli? Ebbene, ci siete vicini. Perché l’oasi lì c’è, ed è nata da una fattoria sieroterapica – guarda un po’ eh! – che se chiedi te la raccontano bucolica, sapete: fieno, stalle, erba da pascolo, mangiatoie, ma sorvolano sempre sul fatto che piantavano un ago nella carotide e vediamo cosa succede, ecco. Tipo La Fattoria degli Animali ma dello Zio Tom. Insomma, parliamo di Parco Segantini, che al di là di tutte le storie che vi possiamo raccontare per introdurlo è davvero un’oasi urbana, costruita e voluta, la potremo descrivere inizialmente come un cuneo, una natura incuneata che s’infila quasi nel mezzo dei Navigli, un cuneo verde che costeggia quatto quatto l’antica roggia Bonaforti e s’insinua, non solo come parco ma come idea, e sì, è un’idea di verde: il verde selvatico che si fa strada tra i palazzi, tra i sollazzi e le lussurie boschive, è la voglia che scaturisce dalla domanda sacrosanta che pressappoco recita: «com’è che c’è acqua da tutte le parti ma si fa fatica a trovare un cazzo di albero», ed ecco, ecco la soluzione, l’oasi boschiva che è stata aperta al Parco Segantini, eccolo che Spezza i Grigi col Cuneo Verde, ed ecco a voi che troviamo il pretesto per citare El Lissitzky e la Rivoluzione Rossa in abiti totalmente diversi, così, perché no, ve la lanciamo a mano basse.
Anche perché il Segantini ha una storia di lotta di quartiere, di organizzazione dal basso, di un’idea di fondo di come bisognasse vivere il quartiere e di che cosa fosse l’idea di quartiere. Come dirvelo ancora, dal Pavese in su, i Navigli, sono sempre stati uno spazio adeguato alla lotta, bisognoso, proprio per quello che vi succedeva in continuazione. Pensate che, quando il Sieroterapico finì – per i profani quegli stabilimenti ora sono Naba – tutto quello spazio da fattoria venne lasciato a marcire. Una wasteland in mezzo alla città, di fianco all’acqua, paradossale. Marte ma con un fiume nel mezzo. Una discarica, ci dicono. Da lì nascono le condizioni per richiamare all’attenzione l’importanza di un parco, e organizza, lotta, unisci, in vent’anni viene vinto il bando per il parco da Michel Desvigne, un grande paesaggista, che presenta il progetto, viene controllato dall’associazione del Segantini che gli dice qualcosa come «bello, bellissimo, sì, ma noi? Il quartiere? Eh, Michel, non va bene così neh» e glielo rimettono a posto. Il quartiere rimette a posto il progetto di un noto paesaggista francese. Rileggetela ancora questa frase. Il quartiere rimette a posto il progetto di un noto paesaggista francese.
Si impara a coltivare, a cogliere, ad annusare. Annusare, c’è un orto-giardino costruito sui principi biodinamici che ha un ecosistema a sé.
Per chi ha studiato progettazione e quella bestia concettuale che è metaprogetto, aka: il progetto sul progetto, che sia architettura, design, arte, quell’idea di progettazione diffusa, compartecipata, è una soglia tanto imprescindibile quanto dibattuta. È il classico distinguo tra teoria e pratica, a cui solitamente manca la soluzione terza della prassi, e anche sui Navigli come a Nolo vediamo Gramsci tra le nuvole sopra l’acqua. Se oggi andate al Segantini, scoprirete che l’oasi è abitata. Dalle specie di volatili e ittiche, da qualche mammifero che fugge dai cani, c’è pure una casa sull’albero, costruita dalla gente per i bimbi della foresta. E poi ci sono gli orti, che assieme alla wilderness sono gli spazi che davvero fanno il quartiere. Si impara a coltivare, a cogliere, ad annusare. Annusare, c’è un orto-giardino costruito sui principi biodinamici che ha un ecosistema a sé.
Insomma, se siete in città e volete cercare un’oasi, tendenzialmente si guarda fuori. Al Parco Sud, al Parco Nord, al Lodigiano, al Lago di Como, come dire, si volge sempre lo sguardo lontano, fuori dai confini della città, all’esogodimento rurale. Eppure, dove c’è acqua ci sarà un’oasi, diciamo noi, pure in città. E badate, la cosa che cercate fuori è il selvatico dell’oasi, quella roba lì che si dice che in città non esiste più. Il cinguettio eccetera eccetera. Ma vi sbagliate, ve lo diciamo noi. Basta che camminate un po’ sui Navigli, alla ricerca del godimento blando del naturalismo, che come Robinson andate a cercare in mezzo alle gambe dei Navigli, tra il Pavese e il Grande, ma promettendoci che eviterete di scavare piccoli buchi nella terra del parco, insomma, in mezzo alle gambe dei Navigli troverete l’oasi che non c’era.