Difficile immaginare Roma senza il suo Club, quello che per venticinque anni di fila, ogni settimana, ha chiamato migliaia di persone a raccolta sotto il suo impianto. Difficile anche pensare il clubbing di Roma senza il Goa, perché solo qui e in altri pochissimi posti la ricerca dei dischi, i vinili, il chiamare i propri dj preferiti, il portare per primi un nuovo artista, l’essere parte di un circuito internazionale, di un movimento e di una storia, erano tutte cose a cui si teneva e che trovavano pieno senso e compimento. Un’oasi in un deserto in cui il clubbing è spesso ridotto a moodboard maldestri e di scarsa fantasia spiattellati sui social di turno, dove la musica è tra le cose meno importanti.
Che il Covid avrebbe inevitabilmente lasciato segni profondi nel modo di vivere la musica, il ballo e il divertimento lo si sapeva sin dall’inizio, ma al peggio non si è mai preparati, così come non lo siamo stati di fronte la scomparsa di Claudio Coccoluto solo pochi mesi fa, lui che proprio al Goa aveva dato tantissimo della sua carriera. Non si è mai preparati neanche all’ultimo disco, quello in cui si condenseranno venticinque anni di serate: c’è da immaginare che chi lo suonerà avrà un bel nodo in gola, mentre l’artista che lo ha prodotto potrà dire di appartenere a un pezzo di storia della città.
Salutarsi senza un ultima festa non sarebbe stato giusto e una sola festa non sarebbe stata sufficiente per abbracciare tutti: per questo non ci sarà un final party ma due final week che culmineranno con l’After Tea – uno dei tanti marchi di fabbrica – nel giorno di Halloween. Non sarà un addio definitivo però, ma un arrivederci, perché il progetto Goa continuerà in nuove forme e in nuovi spazi, dove speriamo di ritrovare quel club capace di far fare a centinaia di persone l’alba anche di giovedì, ascoltando e ballando artisti come James Holden o Theo Parrish. Quel club a cui non serviva dire niente se non chi e quando. Quel Club.