Intercettando la necessità di una riflessione dopo un periodo di crescita gioiosa e costante – seppur difforme e con qualche zona d’ombra – della scena dell’arte urbana in Italia, quest’anno il festival Altrove, in programma dal 7 all’8 agosto a Catanzaro, ha cambiato pelle trasformandosi da momento di produzione di nuove opere a momento di dialogo e pensiero collettivo, tra talk e tavole rotonde. Così, abbiamo deciso di coinvolgere quattro tra i tanti artisti, curatori e ricercatori invitati – Simone Pallotta, Vittorio Parisi, il collettivo Sbagliato ed Edoardo Tresoldi – e a loro abbiamo rivolto cinque domande sullo stato attuale e, soprattutto, sul futuro dell’arte urbana. Ecco le loro risposte.
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IN QUESTI ANNI ABBIAMO VISTO L’ARTE URBANA PERLOPIÙ SUI MURI ED È AI MURI CHE È ASSOCIATA NELL’IMMAGINARIO COLLETTIVO. SARÀ “MUROCENTRICA” ANCHE IN FUTURO?
SIMONE PALLOTTA: L’arte è sempre legata a un contesto, che sia umano, sociale o “locale”. L’arte urbana e tutte le pratiche artistiche pubbliche trovano ovviamente nello spazio urbano il loro campo d’azione, ma sono gli artisti a pensarla e produrla. Il muro, come superficie, è quindi il luogo naturale di creazione per chi, lavorando outdoor, produce pittura. In futuro si continuerà sicuramente ad agire sui muri ma, come già oggi, gli artisti alterneranno progetti e mostre alla produzione urbana. Gli artisti urbani sono già oggi trasversali, così come molti artisti da galleria hanno trovato sul muro un nuovo terreno di sperimentazione. I confini non sono così definiti.
VITTORIO PARISI: Tutta la pittura è “murocentrica”, nel senso che anche un quadro appeso ad una parete funziona come uno squarcio – «Una finestra aperta», direbbe Alberti – su quella stessa parete. Dalle pitture rupestri in poi, il muro, dispositivo di difesa, esclusione, etc., ha dato un contributo essenziale alla nascita della pittura. Questa ha però sempre cercato di “annullarlo”: accadeva con gli affreschi, coi quadri che ricoprivano interamente le pareti dei “Salon”, accade oggi nei white cube, dove il quadro fluttua in uno spazio (falsamente) neutro. I graffiti e la street art si distinguono per aver sovvertito questo principio, intrattenendo un rapporto dialettico con il muro, senza occultarne la funzione ordinaria. Rapporto che si estende poi al luogo in cui il muro e l’opera interagiscono. Più che dei muri, l’arte urbana è un’arte dei luoghi, e in particolare di quei luoghi dove la possibilità stessa dell’arte e della sua fruizione sembrano a priori escluse. Oggi è questa vocazione a essere a rischio: quando, per esempio, si dice di voler sostituire “muri colorati” a “muri grigi”, è sottinteso che il muro in quanto tale debba scomparire. E spesso assieme al muro finisce per “scomparire” anche il luogo.
SBAGLIATO: Negli ultimi 20 anni abbiamo assistito a un incremento delle opere murali, all’interno e fuori dai centri cittadini. I muri sono superfici perfette dove poter interagire ed effettuare degli interventi capaci di un forte impatto visivo e comunicativo. Dal 2010, in Italia, si è assistito a un vero e proprio boom di questo linguaggio, tanto che qualcuno ha perfino parlato di “gigantismo” simbolico. Negli ultimi due anni il fenomeno ha visto un leggero calo, ma non si tratta di un fatto negativo, perché in molti casi si mirava più a decorare, dimenticando le finalità originarie e autentiche degli interventi nei diversi aspetti urbanistici, sociali e politici.
EDOARDO TRESOLDI: Il muro è stato il supporto che ha innescato la scintilla per una generazione: è stato il punto di partenza per la stagione della street. Quello che si deve raccontare adesso è la maturazione di molti artisti che hanno lavorato su muro e stanno sviluppando la propria ricerca attorno al concetto di spazio, in qualsiasi forma esso si presenti: un muro, un’intera architettura o un intero luogo.
L’ARTE URBANA È STATA CONCEPITA E PERCEPITA COME PUBBLICA E GRATUITA. CONTINUERÀ AD ESSERE TALE, BASANDOSI MAGARI SU FORME DI MECENATISMO ISTITUZIONALE O PRIVATO?
SIMONE PALLOTTA: L’arte urbana prima di essere libera e gratuita è stata illegale, prodotta cioè senza fini commerciali e decisamente in contrasto con le regole del decoro pubblico. In un secondo momento è stata sostenuta da realtà e professionisti indipendenti che, cercando fondi pubblici e privati, hanno tentato in vari modi di strutturare un sistema che potesse mediare le componenti più “ribelli” entro un inquadramento progettuale e organizzativo più solido e continuativo, così da risultare convincente e spesso tranquillizzante per le istituzioni. In conclusione: se non ci sono supporti pubblici e privati è difficile produrre opere pubbliche se non con modalità autogestite o, appunto, illegali. Se gli artisti non sono sostenuti sarà difficile che continuino a dedicarsi a opere che richiedono sforzo e interazione con lo spazio urbano e dovranno rientrare nell’alveo del sistema dell’arte per continuare a produrre.
VITTORIO PARISI: Prima che intervenga il mecenatismo istituzionale o privato, prima di festival, curatori, etc., ci sono gli artisti e soltanto loro. L’arte urbana nasce con una dimensione autonoma e ludica che, inevitabilmente, col tempo è andata affievolendosi. Questo non è necessariamente un male: ogni artista desidera (apertamente o segretamente) di essere riconosciuto in quanto tale, avere un seguito e, possibilmente, anche un mercato. Il problema sorge quando si pensa che quelle dimensione autonoma e ludica non sia più possibile, che l’arte urbana sia solo quella dei festival o dei progetti autorizzati e prodotti da soggetti pubblici o privati. Invece c’è ancora tanto lavoro autogestito – si pensi a Blu e Cyop & Kaf -, così come ci sono ancora tanti artisti che continuano ad alternare un’attività autonoma a quella istituzionale. E, per fortuna, c’è sempre il writing illegale.
SBAGLIATO: L’arte urbana, per come la intendiamo, dovrebbe rimanere gratuita, alla portata di tutti. Tuttavia è importante creare le condizioni affinché l’artista possa continuare la sua ricerca, anche attraverso il sostegno di finanziamenti, pubblici o privati, perché si tratta di vere e proprie opere d’arte cui vanno riconosciute l’importanza e la dignità.
EDOARDO TRESOLDI: Tutto è possibile, anche delle forme di esposizione che non saranno più gratuite. Quello dell’arte urbana è un mondo che ancora deve strutturare una propria economia, mentre, ad esempio, siamo già abituati a pagare un biglietto per un concerto o una performance musicale di due o tre ore. Finché ci saranno disponibilità e finanziamenti da parte di enti pubblici e mecenati si potrà continuare così, altrimenti sarà necessario sviluppare altri progetti e altre economie affinché gli artisti possano sostenere la propria ricerca e i propri lavori, essendo le opere materiali e quindi con dei costi. Dal mio punto di vista, è l’opera che comanda tutto.
UN ALTRO ASSE DA TENERE IN CONSIDERAZIONE È QUELLO DEL TEMPO. NEL FUTURO LA CONSERVAZIONE DIVENTERÀ UN VALORE O TEMPO E NATURA SARANNO LIBERI DI SEGUIRE IL PROPRIO CORSO? SI DEVE INIZIARE A RAGIONARE INTORNO ALL’IDEA DI “PATRIMONIO”?
VITTORIO PARISI: In alcuni casi mi sembra che la conservazione sia già diventata un valore. È comprensibile, fa parte dell’approccio di noi occidentali alle cose che stimiamo importanti: tendiamo a volerle preservare. Mi piace pensare però che i graffiti e l’arte urbana persistano nella loro vocazione effimera e “anti-patrimoniale”: tanto nel loro rapporto conflittuale con l’architettura preesistente, quanto nella loro indisposizione a essere protetti. Non ne faccio una questione morale, ma estetica: un’opera d’arte urbana preservata – poco importa se in situ, sotto una lastra di vetro o in un museo -, finisce per perdere quella carica di conflitto che consente il suo funzionamento estetico, trasformandosi in elemento decorativo o feticcio.
SIMONE PALLOTTA: Siamo già in ritardo. Molte delle centinaia di opere prodotte nel corso degli ultimi dieci anni cominciano ad avere problemi di mantenimento e la maggior parte dei progetti non hanno previsto percorsi di manutenzione, ma lavorato sull’estemporaneità degli interventi. A questo si somma l’indifferenza al tema della conservazione da parte di tutte le figure coinvolte, artisti compresi – molte volte con una consapevole volontà di “temporaneità” e non per disinteresse. La visione a breve termine, l’assenza di regolamentazione e di fondi, stanno rendendo normale la naturale sparizione delle opere, se non contiamo i tentativi disperati di restauratori che lavorano a casi isolati senza un’organicità, perlomeno nazionale. Riguardo al patrimonio credo quindi che oggi dovremmo cominciare perlomeno ad occuparci di quello immateriale (documentazione fotografica e archiviazione ragionata) per poi tentare di arrivare a uno standard di gestione e tutela che parta dell’idea che ogni artista ha riguardo la vita delle proprie opere pubbliche.
SBAGLIATO: Questa è una domanda importante e a cui è difficile rispondere. Nel nostro caso la maggior parte dei nostri lavori ha avuto finora una natura effimera, quindi non duratura nel tempo. Questa caratteristica fa parte del nostro linguaggio e ancora dobbiamo riflettere e lavorare sull’eventuale avvio di processi di conservazione dei nostri lavori. A nostro parere, chi dovrà decidere se mantenere e conservare un’opera sarà la comunità ospitante.
EDOARDO TRESOLDI: Bisogna fare un ragionamento ampio perché, anche a causa dell’irruzione del virtuale, il tempo sta cambiando, così come la forma e la vita delle cose. Il vero patrimonio è nella ricerca dell’artista o di una comunità culturale. Non bisogna rimanere ancorati a un format di conservazione, tutela e fruizione. Personalmente sto portando avanti un percorso legato alla temporaneità, per raccontare anche la morte dell’oggetto. D’altra parte, è il nocciolo stesso dell’esperienza dell’arte urbana a essere legato all’effimero. Ciò che bisogna costruire è una struttura di tutela del percorso culturale e artistico partendo dai concetti: è inutile cercare di tenere in vita delle cose che sono nate per morire. La nostra è una società che tende sempre a cristallizzare, ma è molto più importante saper tutelare il pensiero di un’opera. Pensiamo ai dipinti di Leonardo da Vinci: ne saranno rimasti una quindicina, ma quello che conta è la sua ricerca pittorica, che è stata rivoluzionaria.
MOLTE VOLTE L’ARTE URBANA È STATA COINVOLTA IN PROGETTI DI RIQUALIFICAZIONE CHE, ALLE VOLTE, SI È TRASFORMATA IN OCCASIONE DI SPECULAZIONE E GENTRIFICAZIONE A DANNO DELLE FASCE PIÙ POVERE. SI TRATTA DI UN DESTINO INELUTTABILE? COME SI PUÒ CREARE UN CIRCOLO VIRTUOSO TRA ESTETICA, DECORO URBANO E TESSUTO SOCIALE?
SIMONE PALLOTTA: Se il progetto viene seriamente costruito con le comunità il rischio diminuisce. Per fare questo, il coordinamento con istituzioni e/o realtà locali deve essere parte fondante di qualsiasi progetto. Il circolo virtuoso si crea laddove gli obiettivi dei progetti sono molto chiari e condivisi da subito, strutturati pensando alle finalità ultime e non solo alla comunicabilità immediata degli stessi. Ovviamente gli artisti devono sempre decidere se essere parte di questo tipo di progettualità, che comporta molte responsabilità in più rispetto a un approccio più diretto e immediato. Modalità che troppo spesso si manifesta con interventi estetici non partecipativi.
VITTORIO PARISI: Il decoro urbano non potrà mai far parte della scala di valori di un artista che ha iniziato illegalmente in strada: la sua attività ha origine proprio nel conflitto con l’ideologia del decoro e i suoi promotori. E la gentrificazione di aree urbane marginali è un effetto diretto e voluto di questa mistificazione ideologica, della quale i festival sono stati spesso partecipi. Prima ho citato Cyop & Kaf: mi sembra che i loro interventi su Napoli e Taranto, autonomi e prolungati nel tempo, siano la sola forma possibile di interazione tra arte e tessuto sociale. La domanda è: un festival oggi può fare lo stesso? Complicato, perché un festival il più delle volte è un’azione top-down, quasi mai bottom-up. Un festival però può abdicare alla pretesa di riqualificare, di abbellire, e proporsi invece come occasione di riflessioni e sperimentazioni nuove sull’arte e sui luoghi.
SBAGLIATO: Il circolo virtuoso si crea assegnando i progetti a persone competenti in diversi ruoli, creando equipe di architetti, urbanisti, curatori esperti e artisti capaci di leggere lo spazio in modo adeguato. La maggior parte delle volte ci si è affidati alla buona volontà di giovani che hanno cercato di portare, in maniera disinteressata, nuovi messaggi nel proprio centro abitato. Senza la mobilitazione di queste competenze è facile che non si creino le premesse per una vera riqualificazione, ma, piuttosto, per lavori meramente decorativi, privi di significato.
EDOARDO TRESOLDI: Si tratta certamente di una dinamica reale: ci sono state diverse speculazioni da parte di personaggi che hanno sfruttato questo fenomeno. È fondamentale che si sviluppino dei progetti che sappiano valorizzare i luoghi, ma siano interconnessi con le identità delle comunità. Bisogna fare un lavoro che magari non è neanche strettamente legato all’opera, vale a dire riuscire a costruite un sistema di racconto, di cultura di quella che è l’arte nello spazio pubblico. C’è bisogno di consapevolezza, altrimenti c’è il rischio che per riqualificazione si intenda semplicemente buttare del colore su un muro. E qui si ritorna alla questione dell’economia, a quello che un ente pubblico vuole fare rispetto al discorso di educazione culturale. Bisogna lavorare molto nel costruire un ponte tra società e arte pubblica, come ad esempio fa arte Arte Sella, una rassegna il cui lavoro è fortemente legato al territorio e che infatti dura da 20 anni
ESISTE UNA VIA ITALIANA ALL’ARTE URBANA, SE NON ALTRO PER COME ARCHITETTURA E URBANIZZAZIONE SI SONO SVILUPPATE NEL NOSTRO PAESE, FACENDO DA DENOMINATORE COMUNE? SE SÌ, QUALI SONO I SUOI TRATTI DISTINTIVI? SE NO, QUALI FORME DOVREBBE E POTREBBE ASSUMERE?
SIMONE PALLOTTA: Considerando l’abbandono delle nostre periferie e i drammi urbanistici consumati negli ultimi quarant’anni in Italia, l’arte potrebbe essere uno degli strumenti di ripensamento di queste aree, ma non può e non deve agire da sola, ma in tandem con azioni più complesse di rigenerazione. In questo momento storico non vedo “vie italiane”, ma approcci globali che possono e devono parlarsi per creare strategie specifiche per situazione territoriali che sembrano ripetersi ai confini delle città di tutto il mondo. Saranno gli artisti, i curatori e i producer a dover lavorare per stabilire standard progettuali capaci di leggere le differenze territoriali e strutturare progetti profondi, a lungo termine e con budget solidi. Se così non fosse, gli artisti urbani dovranno decidere se tornare all’attività illegale o tentare l’inserimento nei canali ufficiali, con buona pace della tanto millantata riqualificazione.
VITTORIO PARISI: Una via italiana all’arte urbana esiste e penso sia tra le più interessanti in Europa. Naturalmente a fare la differenza sono sempre e solo gli artisti, nel senso che questa via italiana esiste da prima che studiosi, curatori, critici iniziassero a rifletterci. Da un punto di vista pratico, ma anche, e soprattutto, estetico, penso abbia influito molto quel paesaggio antropocenico fatto di abusivismo edilizio, di vecchie strutture industriali dismesse, di ville o caseggiati abbandonati, che si estende lungo tutta la Penisola. Questo paesaggio di risulta, generato da un’urbanizzazione spregiudicata, è stato essenziale tanto all’astrattismo mistico di 108 quanto al muralismo di Blu, all’ambientalismo di Andreco ,così come all’immaginario folk di Dem, giusto per citarne alcuni.
SBAGLIATO: Anche questa è una domanda complessa. Non si può parlare di una scuola italiana
riconoscibile e con caratteristiche peculiari. Tuttavia, questa mancanza di autonomia non è cruciale ai nostri fini. Sappiamo di doverci preparare e concentrare sulla qualità degli interventi. Sarebbe importante che le istituzioni sostengano con questi criteri il lavoro proposto dagli artisti che vivono e lavorano qui, come accade in Francia, in Germania e in tutto il resto dell’Europa, dando una opportunità alla crescita culturale del nostro Paese. In fondo è questo il motivo principale del nostro impegno nelle opere murali.
EDOARDO TRESOLDI: L’arte urbana si è sviluppata in moltissimi paesi: è stata un vero e proprio fenomeno globale. Dopo un boom iniziale derivante dalla cultura dei graffiti, poi sono nate delle specificità territoriali, con artisti che hanno iniziato relazionarsi al loro retaggio culturale e storico. Chi fa astrattismo in Italia, ad esempio, non ha lo stesso bagaglio di canadesi e australiani. Poi abbiamo anche un’eredità relativa a come sono fatte le nostre città e i centri storici. Ora bisognerà prestare attenzione a quello che faranno le nuove generazioni, che sono fortemente legate alla contaminazione culturale e alla virtualità, e sicuramente andranno a modificare i riferimenti e l’idea di “italianità”. Ci sono tutta una serie di movimenti che stanno riscrivendo la cultura contemporanea e sarà interessante osservarli.