«Nell’autunno 1949 avremmo dovuto tenere la mostra di sculture in giardino, ma poiché Viani (Alberto ndr) aveva portato due opere in gesso le dovemmo esporre in casa. Così spesso ci ritrovammo la gente in camera da letto, tanto che dovemmo recintare la mostra con dei cordoni. In quel periodo avevo un ospite in casa, Philip Lasalle, il quale si dimenticava spesso che c’era una mostra in svolgimento e più di una volta scese tranquillamente in giardino in mezzo ai visitatori con addosso solo il pigiama».
Questo simpatico aneddoto, raccontato da Peggy Guggenheim nell’autobiografia intitolata Una vita per l’arte, non è mai stato tanto attuale. Proprio in questi inesauribili mesi di lockdown, che ci ha visto bloccati in casa, a chi non è capitato che durante un meeting su zoom non passasse davanti alla videocamera la propria madre lamentandosi del fatto che il lievito fosse introvabile. La nostra privacy è stata invasa dei nostri stessi affetti e ci siamo scontrati con nuove difficoltà e abbiamo goduto di piccoli piaceri dell’ambiente domestico a cui mai avremmo pensato. Abbiamo vissuto un rapporto simbiotico con la nostra abitazione e trovare il nostro spazio, nel luogo in cui torniamo ogni sera dopo una giornata stressante da lavoro, si è rivelata un’impresa. Per la prima volta abbiamo preso coscienza delle mura domestiche e avuto tutto il tempo di riflettere e magari rivoluzionare gli spazi funzionalmente alla nostra privacy, alla convivenza e anche a una nostra logica estetica.
Prendersi cura della propria casa significa abitare e convivere.
Peggy Guggenheim, pionieristica intellettuale newyorkese, mecenate e collezionista d’arte, oggi sicuramente vestirebbe i panni di una carismatica art advisor, in merito pare non abbia avuto dubbi, e nel 1949 si stabilisce a Venezia. E qui la sua passione per l’arte (e la sua collezione) trovano definitivamente una casa: acquista palazzo Venier dei Leoni sul Canal Grande, dove trasferisce le 326 opere d’arte della sua raccolta.
Peggy ama Venezia, è il luogo dove ha sempre desiderato vivere, ha impiegato quasi tre anni, da quel fatidico incontro al ristorante “Angelo” a San Marco con Emilio Vedova e Santomaso, per cercare la casa adatta per la sua collezione e un grande giardino per i suoi cani.
Questo è probabilmente il solo palazzo a Venezia che potesse adattarsi al suo museo, proprio così l’idea di Peggy era quella di creare una collezione storica che tenesse conto di tutti i movimenti e soprattutto di quelli non realisti del XX secolo a cominciare dal cubismo nel 1910.
«Tenevo molto ad avere un museo personale. Trovare quadri che rappresentino al meglio un certo pittore, una certa tendenza di una certa epoca e di una certa scuola è sempre stata la mia passione. Era molto facile allora acquistare quadri, era l’inizio della guerra e tutti si accingevano a fuggire, a vendere e a nascondere i loro quadri. Mi ero imposta una regola, cioè di non comprare più di un quadro al giorno. Non ho mai comprato quadri per me stessa, ho sempre comprato con l’unico scopo di creare questo museo che era la mio grande ideale e la mia ambizione».
Peggy porta una ventata d’aria fresca al provinciale panorama artistico-culturale della città lagunare, e molti artisti sperano proprio che Venezia possa diventare un nuovo centro dinamico per l’arte contemporanea, alla stregua di Londra, Parigi e New York.
Quella donna dagli eccentrici orecchini e occhiali a farfalla è conosciuta da tutti a Venezia e si trova sempre al centro dell’attenzione, dogaressa di quel vortice di incontri ed eventi nella sua casa sempre illuminata la notte, da dove provenivano musiche e canti. Eppure la sua premura di aprire, per tre pomeriggi a settimana, le porte del suo palazzo al pubblico viene accolta timidamente e sono proprio i veneziani a deluderla, pochi sfruttano l’occasione per visitare la sua collezione e mostrano disinteresse.
Dopo la grande pubblicità internazionale che avrebbe avvicinato, negli anni Settanta, l’arte contemporanea a un vasto pubblico, questa collezione è diventata un’attrazione turistica di notevole importanza.
Nei giorni di visita una gran folla di gente, soprattutto giovani, si stipa nelle sale e nei corridoi, superando ogni aspettativa. In certi giorni si contano più di mille visitatori.
Sono trascorsi ben 86 giorni dalla chiusura, ora si ripARTE.
Il 2 giugno, la Peggy Guggenheim Collection ha aperto i cancelli di Palazzo Venier dei Leoni e mi piace associare quei fortunati 400 visitatori, che in poco più di 48 ore dalla comunicazione sono riusciti ad accaparrarsi l’ingresso, a delle furie invase da un’indomabile pulsione, per cui non riescono a contenere l’emozione proprio come L’Angelo della cittadella di Marino Marini.
La Collezione torna così ad essere luogo di incontro, riflessione, apprendimento e dialogo. Mai quanto durante questa parziale ripresa abbiamo bisogno di bellezza, d’ispirazione e di respirare arte e cultura.
Godiamo di un privilegio unico: poter ancora ammirare e visitare l’intera collezione proprio nel luogo dove Peggy ha concentrato tutta la sua dedizione, Palazzo Venier dei Leoni.
Non scordiamo, infatti che si è corso il rischio di trovare l’intera raccolta in una qualsiasi sala della Tate Gallery di Londra, a causa del rifiuto da parte del Comune di Venezia di riceverla in dono, e di certo non potremmo vivere la stessa emozione nel ricordare questa lungimirante donna passeggiare con suoi adorati cagnetti all’ombra dei secolari alberi del suo giardino o compiaciuta ad osservare quelle lunghe file di studenti e turisti che animavano finalmente il suo museo.
Nel corso del mese di giugno, il museo sarà aperto nei fine settimana, il sabato e la domenica, dalle ore 10 alle 18. Si potrà accedere con ingressi a fasce orarie, si consiglia la prenotazione online, attiva sul sito del museo.