Scrivere testi che parlano di quotidianità con dentro un po’ di poesia, ma senza cedere cronicamente al trick del nonsense. Avere un orecchio per il passato, ma senza sembrare vintage. Fare un disco di canzoni all’italiana, poi metterci dentro i Sonic Youth imbevuti di una vaga psichedelia sixties e chiuderlo con un bozzetto elettronico che pare library music. Avere una formazione jazz, esperienze di successo nel “giro alternativo” con due gruppi – i Vadoinmessico, oggi diventati Cairobi – ma continuare a mantenere un basso profilo. Fare il cantautore, ed essere originale. In tutto questo non ci sarebbe niente di strano, se non fosse che nel 2017 in Italia tra cloni di Calcutta che spuntano come funghi, rigurgiti da Festivalbar, contaminazioni più – ma soprattutto meno – riuscite tra rap e “canzone” e inspiegabili fenomeni indie che contiamo implodano con la stessa velocità con cui sono esplosi, trovare giovani autori di cui si riesca ad ascoltare il disco fino alla fine (avendo pure voglia di rispingere play!) e che reggano il palco senza sembrare una band del liceo è diventata impresa ardua.
Giorgio Poi è un esempio tanto raro quanto riuscito di italianità che ce l’ha fatta: a smetterla di guardarsi sempre allo specchio, a mantenere la propria identità ma pure a contaminarsi con suoni che superano il concetto di “indie” per risultare vagamente esotici, a fare della malinconia una sensazione non puramente retromaniaca. Il suo disco d’esordio sulla inarrestabile Bomba Dischi è uscito a inizio anno, si intitola Fa Niente, ha ricevuto i meritati consensi e dopo un primo giro di date live sta tornando sui palchi italiani con un tour partito da Milano che andrà avanti fino a inverno inoltrato (culminando, per ora, con una data il 20 marzo al Fabrique insieme ai Phoenix, che pare lo abbiano scelto personalmente come apertura).
Nato a Novara, Giorgio ha vissuto molti anni a Roma: in occasione della sua tappa capitolina al Monk, gli abbiamo chiesto di raccontarci la sua “Roma” attraverso cinque brani e cinque luoghi della città a cui è affezionato. Dalla Zambia dei Witch a Paolo Conte, ecco cosa ci ha raccontato.
«Ho vissuto a Roma da quando avevo otto anni a quando ne avevo venti. Quello è un momento della vita un po’ particolare, in cui anche chi abita in una grande città ha buone probabilità di frequentarne solo una piccola porzione, verosimilmente quella che include la propria scuola e la propria casa, perimetro che quasi certamente ospiterà anche i compagni e gli amici del brufoloso. In quegli anni quindi non ho visto granché della città, che rimane per me un luogo vagamente misterioso. Poi finito il liceo sono andato a vivere all’estero, e ci sono rimasto undici anni. Però in questo arco di tempo sono tornato periodicamente a Roma, sempre in vacanza, con nessun impegno preciso e un sacco di tempo libero, che ho investito spesso in passeggiate solitarie per la città».
Paolo Conte – La Ricostruzione Del Mocambo
Metterei questa canzone al bar all’angolo di Piazza Melozzo Da Forlì, piazza che mi piace tantissimo nel quartiere in cui sono cresciuto. Ci si può sedere fuori, insieme agli anziani della zona.
J.J. Cale – Magnolia
È una canzone che ascoltavo sempre nel primo periodo in cui ero andato via. Me l’aveva messa il mio amico Bacca in una “compilazione” che mi aveva fatto prima che partissi. La metterei a Piazza Vittorio, dove abita lui.
Animal Collective – Bees
In realtà subito prima di andare a vivere a Londra ho fatto un anno al conservatorio de L’Aquila. In quel periodo scoprivo gli Animal Collective, uno dei miei gruppi preferiti. Ascoltavo soprattutto un disco che si chiama Feels, me lo mettevo nelle cuffie quando andavo a L’Aquila col pullman. Quindi questa la metto sul Piazzale della Stazione Tiburtina, da cui partivo.
Witch – Let’s Get Together
Un pezzo che ho ascoltato tantissimo quest’anno, soprattutto verso febbraio/marzo, quando ero tornato in Italia e stavo temporaneamente dai miei a Roma. Lo piazzerei a Salita Del Grillo, dove a volte mi piace andare di notte con la macchina prima di tornare a casa. Lì c’è un terrazzo di palazzo del Grillo che affaccia sui Mercati Traianei, illuminati dalla luna. Sulla stessa strada c’è una vecchia installazione d’arte che si chiama Polmone Pulsante. Si schiaccia un bottone (appunto, un pulsante) e si accendono delle luci in questa specie di cantina, dove dei robot iniziano a muoversi, si accende la radio, strani oggetti prendono vita. Dura qualche secondo, poi si spegne tutto.
Alton Ellis – Black Man’s World
Questa la ascolto in questi giorni, non l’ho mai ascoltata a Roma, la metto al Monk, dove suonerò venerdì. Era un posto che avevo frequentato in adolescenza, quando si chiamava La Palma. Mi piaceva allora e mi piace adesso.