Una casa editrice indipendente che, viste dimensioni e influenza, si fa fatica a considerare ancora come tale. 66thand2nd è stata concepita a New York da due italiani e si è poi materializzata a Roma, stabilendosi nel Quartiere MACRO. Un progetto riconoscibilissimo grazie alla costruzione di un’identità forte, divisa tra due anime e supportata da un lavoro di comunicazione molto curato. Ci siamo fatti raccontare direttamente da Isabella Ferretti, fondatrice ed editrice di 66th, il presente e il futuro della sua creatura, parlando anche di scrittura italiana e dell’humus del quartiere.
“Abbiamo cercato di affermare un progetto, una linea editoriale, cercando di far gravitare verso di noi scrittori che volessero farne parte.”
Mi racconti com’è nata la casa editrice?
66thand2nd è stata fondata da me e Tommaso Cenci, siamo anche compagni nella vita. L’idea ci venne negli Stati Uniti, dove ci trovavamo per lavoro e dove avevamo già individuato quelli che sarebbero diventati i due nuclei tematici principali: la letteratura sportiva e quella che io chiamo di “melting pot”. Proprio negli Usa abbiamo scoperto come la letteratura sportiva fosse un genere popolare e prestigioso in tutto il mercato anglofono, anche in Inghilterra o in Australia quindi.
Per quanto riguarda quella di “melting pot”?
Prima di arrivare negli Stati Uniti ho vissuto a Londra per motivi di studio e mentre ero lì ho fatto un’esperienza particolare. Non mi sentivo nella popolazione di maggioranza, ero più tollerata che benvenuta. Questo mi ha avvicinato a un certo tipo di letteratura rispetto alla quale ero rimasta molto indietro. Un libro illuminante è stato “Denti bianchi” di Zadie Smith. Mi ha affascinato molto l’idea di una scrittrice afro-inglese. Negli Stati Uniti poi, questo tipo di diversità, di carica multiculturale, esplodeva ancora di più. Quindi sono stata letteralmente travolta, anche perché in Italia arrivava solo la letteratura wasp, autori come Franzen.
Torniamo un secondo allo sport.
È veramente parte integrante della vita americana. Esiste la “baseball economy”: gli impianti sportivi e le attività sportive sono pilastri economici delle città, soprattutto fuori dal circuito delle grandi metropoli come New York. Ci sembrava che in Italia fosse tutto appiattito sul calcio. Una volta tornati abbiamo studiato il mercato intuendo che quelle nicchie sarebbero state responsive. Così abbiamo fondato la casa editrice nel 2008 e il primo libro lo abbiamo lanciato nel 2009, proprio sul baseball.
Avete un’identità forte anche grazie ai progetti grafici, coerenti e iconici. Come ci siete arrivati?
La prima cosa che abbiamo fatto è stata cercare qualcuno che potesse essere un’ispirazione. Ci piaceva tantissimo il lavoro di Guido Scarabottolo per Guanda. Mi procurai il suo telefono e feci quella che si chiama una “cold call”, una chiamata senza nessun preavviso. Mi presentai e spiegai il progetto, gli chiesi qualche consiglio e lui accettò di incontrarmi a Milano. Fu molto disponibile e generoso. Mi diede due nomi di due grafiche, cosa che mi colpì. Una delle due era di Roma, Silvana Amato. Avere l’art director nella stessa città, soprattutto all’inizio, può essere importante e in più lei non aveva lavorato assiduamente per case editrici, il che me la faceva percepire più libera, aperta. Quando andai a trovarla a casa non mi accolse immediatamente perché era al telefono, quindi ebbi la possibilità di guardarmi intorno da sola. L’avrei presa anche senza parlarci perché quello che avevo visto mi era piaciuto molto. E infatti ci siamo trovate e abbiamo iniziato a collaborare, per dieci anni.
E oggi?
La casa editrice ha cambiato fisionomia, in maniera molto naturale. Abbiamo avuto una crescita graduale ma costante, con un pubblico sempre più grande. Non solo abbiamo iniziato a produrre più libri, ma ci siamo anche ampliati come visione e volevamo che la grafica riflettesse questi mutamenti. Così abbiamo cominciato a collaborare con un grafico molto conosciuto nel mondo editoriale, che si chiama Francesco Sanesi, e siamo con lui da tre anni ormai. Il suo lavoro non è stato facile: si è dovuto inserire in un solco definito, innovando senza tradire. Secondo me è stato bravissimo.
66th è nata con una dichiarata esterofilia, ma negli ultimi anni avete pubblicato sempre più autori italiani e romani. C’è qualcosa che li accomuna?
Mi fa molto piacere la domanda sulla scrittura italiana, non ci viene mai fatta, quando invece penso che questo sia stato uno dei cambiamenti più palpabili nella nostra linea editoriale. Abbiamo iniziato con fiction e non fiction straniera perché all’epoca, lato sport, gli autori italiani erano vittima di un pregiudizio molto forte. Era come se la letteratura sportiva non esistesse: solo libri di sport, che è di diverso. Sembrava che di sport potessero scrivere non gli scrittori, ma solo i cronisti, come se ci fossero penne di primo e secondo livello. Per quanto riguarda la seconda anima, invece, io l’ho chiamata di “melting pot”, ma in Italia la si è apostrofata come post-coloniale, letteratura migrante, di integrazione. Sinceramente non mi ritrovo in nessuna di queste definizioni, le trovo riduttive. Io voglio fare riferimento a tutta quella letteratura che ha origine da luoghi “altri”, lontani. Ho citato la Smith: quando sono tornata in Italia non c’erano degli equivalenti italiani da pubblicare e non ci sono tutt’ora, perché queste cose richiedono tanto tempo. Noi abbiamo cercato di affermare un progetto, una linea editoriale, facendo gravitare verso di noi scrittori che volessero farne parte.
Più facile sicuramente partire dallo sport.
È stato un approdo più naturale perché abbiamo potuto lavorare con giornalisti che sono riconosciuti come firme di “Seria A”, come Marco Pastonesi o Giorgio Terruzzi. Cito questi autori perché si sono messi in discussione loro per primi – i libri glieli abbiamo proposti noi, con l’idea di farli rischiare e non spersonalizzare – e ci hanno permesso di diventare un riferimento.
Per quanto riguarda la nuova generazione e la rinascita della scrittura sportiva, soprattutto online?
Grazie alla legittimità acquisita con queste pubblicazioni è stato possibile iniziare a fare scouting. Il primo è stato Lorenzo Iervolino, con il suo libro d’esordio su Socrates, “Un giorno triste così felice”, e poi “Trentacinque secondi ancora” su Tommie Smith e John Carlos. Due libri in cui l’autore compare nella narrazione e che hanno fatto scuola. Un altro è stato Daniele Manusia. A lui proposi un libro su Zidane, che per varie vicissitudini alla fine è diventato quello su De Rossi. C’è poi Fabrizio Gabrielli, che abbiamo fatto uscire dalla sua comfort zone sudamericana proponendogli di scrivere su Cristiano Ronaldo: non era affatto facile, ma il risultato è stato ottimo. Insomma, alla fine ciò che accomuna tutti è che sono proprio degli scrittori molto bravi, punto. Scrivono benissimo, sono giovani, ma hanno una loro cifra riconoscibile che si apprezzerà sempre più nel tempo. Inoltre, si sono tutti messi in discussione, hanno affinato e messo il loro talento narrativo al servizio di storie anche fuori dal loro seminato. Ci tengo anche a citare Alessandro Gazoia, editor che abbiamo preso proprio per sviluppare questo aspetto: ha capito perfettamente dove la casa editrice voleva andare. Negli ultimi tre anni a mio avviso abbiamo creato un parco di libri e autori invidiabile. Lo dico soprattutto per parlare bene degli autori stessi e di Alessandro.
Come siete finiti invece a piazza Fiume?
Per cominciare, è una zona che a poca distanza ospita diverse case editrici indipendenti romane, quindi è un quartiere che in qualche modo ha un’idea di letteratura. Ad esempio, c’è Fandango dalle parti di Viale Gorizia. C’è la libreria Minerva a Piazza Fiume, un luogo iconico. Così come Arion, che ha fatto partire una libreria dalle parti di Viale Somalia o la Mondadori (franchising) gestita da quella libraia bravissima che è Ilaria Milana. Poi siamo molto vicini a San Lorenzo, dove ci sono Giufà e Tomo, due librerie per noi fondamentali e di riferimento. Abbiamo anche tentato di collaborare con il MACRO in passato, perché quello che ci fa più piacere è l’idea di popolare il quartiere. C’è un tessuto particolare, ci piacerebbe organizzare maggiori attività, ma questo è un problema generale di Roma. Noi che siamo i “content provider” non abbiamo un dialogo aperto con le istituzioni, non perché non vogliamo, ma perché è difficilissimo avercelo. Speriamo che ci sia presto una maggiore collaborazione e di poter avere una presenza in zona percepibile, oltre alla sede.