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Dischi per immergersi dentro se stessi: Valerio Bulla

Un'intervista per raccontare un album irregolare - e per questo prezioso - nato da un'intensa necessità di guardarsi a ogni livello di profondità

Scritto da Nicola Gerundino il 22 novembre 2022

Luogo di nascita

Roma

Luogo di residenza

Roma

Attività

Grafico, Musicista

Chiunque ha bazzicato la musica realizzata in Italia negli ultimi quindici anni, si è imbattuto per forza di cose nel lavoro di Valerio Bulla: come musicista (basso negli Ancien Régime e ne I Cani), come produttore e anche come art director e grafico: se si dovessero mettere assieme tutte le copertine che ha ideato ne uscirebbe fuori una retrospettiva quasi di livello museale. Lo scorso ottobre è uscito il suo primo album solista (e omonimo) per Bomba: un disco “spiazzante” per le orecchie abituate a navigare nel mare sonoro di cui sopra, che raccoglie undici brani eseguiti principalmente al piano, otto dei quali hanno come titolo il nome di una persona e tre il nome dell’autore stesso. Abbiamo chiesto a Valerio di parlarcene in questa intervista, che si è rivelata un’interessante e sincera discussione sulla dimensione oscura del lavoro creativo e su quella che è l’essenza ultima dell’espressione artistica: la sublimazione dei propri moti interiori, spesso inquieti e tormentati. Perché non sempre i numeri fanno luce sul giusto cammino.

 

 

Per questa intervista ho provato a procedere per tracce, con domande che sono uscite parallelamente all'ascolto dell'album. "Valerio #1" mi ha fatto subito pensare a “Blonde” di Frank Ocean e alle voci tra un brano e l'altro adagiate su tappeti musicali che riprendono uno stesso tema principale. C'è qualcosa o semplice coincidenza? Anche tu, come me, ti svegli ogni santo giorno sperando che quel debosciato faccia uscire un altro capolavoro?

“Blonde” è un disco che amo, posso dire serenamente che è uno dei dischi che ho più ascoltato in vita mia. Sicuramente mi avrà influenzato, così come qualsiasi cosa amo ha in qualche modo un’ascendenza, anche sotterranea, sulla mia quotidianità. Tuttavia, nel caso specifico dei temi a mio nome, l’idea era di farne uno iniziale, uno centrale e uno finale su tre tonalità diverse per accomodare l’ascolto delle tracce vicine. Forse, più che a “Blonde” ho pensato a un’operazione simile alle promenades delle suite. Volevo un tema “mio”, che ricorresse e scandisse a livello cronologico la mia giornata-tipo: mattina, pomeriggio e sera. Quanto a un nuovo album di Frank Ocean, una parte di me se lo augura, una parte meno razionale e più viscerale quasi spera che non faccia uscire più nulla e tutto resti immutato.

Di chi sono quelle voci e perché le hai inserite?

Negli ultimi anni ho capito che ho mortificato una parte importante della mia vita, il cosiddetto “tempo libero”, per la mia crescita professionale. Un po’ per colpa mia, un po’ per colpa degli altri, del poco rispetto che a volte hanno manifestato verso il mio tempo – tipo chiedermi il venerdì sera una consegna per il lunedì, che comporta ovviamente lavorarci nel weekend. Mi sono però reso conto che il vero problema è a monte: facendo lavori “creativi” – passami il termine turpe – mi son sempre ritenuto una sorta di privilegiato. La grafica e la musica mi piacciono da sempre. Negli anni, diventando effettivamente art director e musicista, ho sempre pensato di dover in qualche modo onorare questo privilegio, a posteriori mortificando cose più importanti. È vero che se fai quello che ami non lavorerai un giorno in vita tua, ma è vero anche il suo esatto opposto: fa quello che ami e lavorerai sempre. Proprio perché a volte non percepisci quello che fai come un lavoro propriamente detto, un lavoro “normale”. Negli anni mi sono ritrovato un po’ in questo tourbillon. Gli audio di “Valerio #1” li ho ricevuti in due mattine e sono tutti dei “come va?” che mi esortano in modo passivo-aggressivo a consegnare file; quelli di “Valerio #2” li ho ricevuti verso pomeriggio-sera e sono inviti di persone care che ho dovuto declinare per lavorare; gli audio di “Valerio #3” invece sono estratti da una conversazione che ho avuto quest’anno con degli zii a cui sono molto legato. Sono particolarmente affezionato a quel dialogo: ho parlato con loro del mio lavoro e di quanto inghiottisse la mia quotidianità e per me è stata una sorta di seduta terapeutica. Ho condiviso gran parte dei miei problemi sul rapporto tra vita vera e professionale, su questa sorta di spirito di sacrificio cristiano che in un certo senso ci viene propugnato, e su come loro, in pensione da vent’anni, avessero vissuto problematiche simili. Le parti di conversazione più oscure, più “nichiliste”, simboleggiano i pensieri che mi accarezzano quando sono da solo a casa la notte.

Arrivati a "Giulia", è chiara la tua scelta di realizzare un album fatto di solo suite brevi per solo piano. Inevitabile chiederti il perché di questa scelta, sia stilistica che strumentale.

La scelta del piano è maturata negli anni, inizialmente avevo in testa solo dei temi che volevo in qualche modo formalizzare. Mi è sembrato che il pianoforte fosse il modo più “sincero” per trasferire alcune melodie senza corromperne l’eventuale efficacia attraverso una produzione.

Il pianoforte è il tuo strumento? Simboleggia qualcosa?

Sicuramente il pianoforte non è considerabile come il “mio” strumento. Io nasco bassista degli Ancien Régime e de I Cani, suono la chitarra, il basso e in generale gli strumenti acustici nelle produzioni di Sick Luke. Il pianoforte è stato un mezzo per mettermi a nudo, per riportare delle melodie in modo che non fossero fraintendibili. Ripetevo spesso: «Se questo tema mi gira in versione piano solo, mi girerà in ogni modo».

I nomi che danno i titoli ai brani invece a chi appartengono? Introducendo il disco hai detto che sono più ispirazioni che dediche.

I temi sono stati abbozzati nell’ultimo decennio e solo negli ultimi tre anni li ho registrati insieme a Riccardo Studer. Quasi tutti sono nati in giornate casuali, tornando a casa e mettendomi al piano, pensando che l’ultima persona incontrata fosse quella che in qualche modo stesse ispirando la scrittura del tema. Non è certo una “classifica” delle persone a me più vicine, ecco. Alcuni nomi sono più immediatamente riconducibili alla mia vita – Fulvia è mia madre, Guido mio padre, Irene mia sorella – altri meno. Di ogni pezzo potrei parlare letteralmente per ore proprio per quanto, in fase di composizione, il lato musicale e quello emotivo siano stati vicini.

Sempre presentando il disco, hai detto che probabilmente sarà l'ultimo. Alla lunga la dimensione compositiva o dello studio ti “pesa” se concentrata tutta su di te ?

Nel mio caso – e sembra una frase da chi si sopravvaluta come grande Artista ma non lo è assolutamente – devo dire che questo disco è stata una delle cose migliori che potessi fare; in primis verso me stesso. La mia vita, a causa dei lavori che faccio, è inevitabilmente molto dedicata agli altri. In questo caso ho affrontato un sacco di problemi personali, dall’elaborazione del lutto di mio padre (evento di ormai sette anni fa), a sensi di colpa verso persone che ho ferito e mille altre sensazioni profonde con cui volevo più o meno fare conti. Devo dire che quando abbiamo battezzato i master finali ho pensato qualcosa come «Ok, ora sono a posto». Quando mi chiedono come sta andando il disco non so neanche cosa rispondere. Bene; nel senso che esiste e mi ha reso migliore. Se poi devo pensare ai numeri, agli streaming, alla SIAE è un pensiero (forse diabolico) a cui posso abbandonarmi in relazione ad altri progetti a cui lavoro. L’iter compositivo è stato molto intenso, quello della registrazione non lo definirei faticoso, anzi: lavorarci solo con un’altra persona, e senza una timetable imposta, mi ha fatto sentire molto al sicuro.

 

Da quanto tempo avevi in mente di realizzare un album? Lo hai sempre immaginato così come è uscito?

Inizialmente avevo pensato di realizzarlo senza farlo uscire: volevo metterlo in un hard disk di cui avrei comunicato la posizione solo in un testamento. Poi ho pensato che potesse sì racchiudere la mia vita, ma solo fino a ora, e che forse potesse parlare a qualcuno, anche non per forza a chi mi conosce. Una volta uscito, anche solo per alcuni feedback che ho ricevuto, ho pensato di aver fatto bene a non tenerlo per me. Anzi, forse era proprio giusto farlo uscire e farlo uscire proprio quest’anno – o perlomeno non postumo! – proprio per i benefici che ne ho tratto emotivamente.

Ancora una domanda che nasce dalle tue parole. Hai detto che hai dovuto togliere più note di quante ce ne fossero. Com'erano in principio i brani e come mai la necessità di questa riduzione?

Lavorando con Riccardo Studer – pianista diplomato al conservatorio che mi ha aiutato in tutte le fasi del disco, dalla composizione all’esecuzione al mix e master – ho capito che nessuno più di lui mi avrebbe dato una mano a raggiungere il mio obiettivo. Venendo da una formazione classica, Riccardo mi ha aiutato a evitare elementi che indisponessero il “suo” mondo musicale: insomma, quando ho temuto che sembrasse volessi fare Satie o Chopin in versione scema, mi ha aiutato a cambiare qualche accordo, a togliere qualche nota e a evitare che si creasse un effetto musica classica in versione “vorrei ma non posso” o che sembrassi Giovanni Allevi. Con il rispetto dovuto a tutte le persone citate, semplicemente non era quello il mio obiettivo. Più che fare un disco minimal-piano, volevo arrivare a ridurre le melodie all’osso: non volevo un risultato finale minimale ma proprio essenziale, che arrivasse all’essenza dei temi musicali.

Una domanda sulla copertina devo fartela di rito. Ci hai lavorato tu o, proprio perché si tratta di un tuo album, hai lasciato il compito ad altri?

Dal punto di vista umano è stato molto difficile per me. Visto il mio lavoro di art director, sono abituato a dirigere gli altri sui set. In questo caso ero da tutte e due le parti della camera e questa cosa mi ha comportato uno stress non indifferente. Sicuramente mi è stato d’aiuto lavorarci con un team di collaboratori vicini e fidati. Ho imparato a truccarmi da solo in modo da poter eventualmente replicare il make-up, ho noleggiato un casale a un’ora da Roma per fare tutto in un giorno – vale a dire copertina e visual per YouTube e Spotify. C’è stato un grande lavoro organizzativo dietro, proprio per fare tutto in otto ore. Mi sarebbe piaciuto affidare la grafica a qualcun altro ma, vista la natura del disco, così personale, non potevo non curarne anche il lato estetico. Sarebbe come essere sinceri al 90%, e per me o lo si è o non lo si è. I riferimenti della copertina sono un fotogramma di Barry Lyndon e lo “Stańczyk” di Jan Matejko, non credo di averlo mai detto.

In generale come elabori l'idea di una copertina? Parti dalla musica, dal musicista, dalle immagini che nascono nella tua mente dall'ascolto?

Non c’è un vero e proprio paradigma di lavoro. Spesso mi trovo a lavorare con musicisti che già conosco personalmente, quindi l’iter cambia sempre in base a chi ho davanti. In linea di massima, ragionando da zero su una copertina, ti direi che seguo idealmente questo ordine gerarchico: a che genere musicale si può ricondurre – se un disco è metal sai già che devi scartare alcune idee, per esempio – cosa caratterizza l’artista rispetto agli altri, come suona il disco. Per prima cosa tendo a chiedere all’artista cosa non vuole, ragionando più per antagonismo. A volte è più facile definirsi per contrasto o per confronto – “ciò che non siamo, ciò che non vogliamo”, per dirla alla Montale.

Tra i tuoi tanti lavori grafici ne hai uno preferito e uno che invece proprio non ti hai mai convinto e vorresti cancellare?

Potrei dirti molti progetti cui sono particolarmente legato, per i più disparati motivi, ma dovrei aprire una parentesi infinita e probabilmente questa risposta risulterebbe più lunga dell’intervista stessa. Per non eludere del tutto la domanda, direi a livello umano “Aurora” de I Cani, “X2” di Sick Luke e la cover del mio disco. Sul cancellare alcuni lavori, probabilmente ti direi nessuno. Sicuramente non mi piace quando mi sento ridotto a “esecutore”, quando mi viene già detto cosa fare e qualunque reinterpretazione dell’idea originaria viene smussata gradualmente fino a ridurmi a “strumento” per ottenere il risultato voluto dal committente. Non saprei dirti quale lavoro possa esemplificare questo discorso: probabilmente li ho tutti freudianamente cancellati, appunto.

Di quale disco ti sarebbe piaciuto realizzare la copertina?

Mhmm… Rispetto a dischi già esistenti, non saprei. Sto cercando di pensare ad album di cui mi piace il contenuto ma non la copertina, però, forse per affezione, non me ne vengono in mente al momento. Proiettandoci nell’ipotetico e sempre rispondendo molto a sentimento, mi piacerebbe fare qualcosa di qualche band scandinava (tipo The Radio Dept., Shout Out Louds), di r’n’b o di musica classica.

La copertina più bella di sempre? E, ovviamente, quella più brutta?

Sulla più bella mi è sempre molto complicato rispondere, probabilmente perché non credo che la copertina “bella” sia per forza quella più aggraziata o avvenente per l’occhio, quanto quella che meglio “presenta” il discorso musicale contenuto in un disco. Alla fine il lavoro del grafico musicale è una sorta di processo sinestesico: il compito è quello di tradurre in favore della vista un input acustico. Se un disco suona “strano” in una qualsiasi direzione, è giusto che la copertina più che “bella” sia, appunto, “strana”. Questo influisce moltissimo sui miei giudizi. Se prendiamo ad esempio il già citato “Blonde”, credo che, al di là della foto bellissima, si possa dire che la copertina è molto calzante rispetto a ciò che il disco ha al suo interno: Frank Ocean è presentissimo e al contempo si cela – come fa anche nella sua comunicazione e nella vita – e si mette a nudo, fisicamente in copertina, metaforicamente nell’album. Per quanto riguarda la cover più brutta, con tutto il rispetto per gli attori coinvolti, ricordo che mi colpì molto un greatest hits di Celentano del 2013, dal già discutibile titolo di “…Adriano”. Ricordo una pantera, una sua foto spixelata, dei testi sulla tracklist in giallo su un rosa, vivace a monitor ma impossibile da stampare se non a pantone. Mi colpì per quanto sembrasse un bootleg anni Novanta, una cosa che, più che “brutta”, sembrava non realizzata da un professionista.

Tornando all'album, immagino che in pochi si aspettassero un disco così. Nel panorama musicale italiano c'è spazio per dischi come questo secondo te, oppure ormai tutti si aspettano qualcosa che sia più pop e orecchiabile, qualcosa che "funzioni", passami il termine?

A livello numerico, nel panorama musicale di oggi non c’è naturalmente spazio per dischi come questo. Ma è giusto così e infatti non ho mai pensato questo disco potesse “andare”, lo dico senza alcuna frustrazione. Facendo una cosa così tanto “per me”, quasi terapeutica, sapevo già che non poteva andare da nessuna parte, ma solo parlare a chi avrebbe avuto la pazienza di ascoltarla e capirne alcuni tratti. Se avessi voluto fare un disco pop lo avrei fatto, ma non volevo farlo. Anzi, non avrei saputo farlo perché non sarebbe stato sincero. La parte di me più “pop” la sfogo su altre produzioni. In quel caso ragiono più in termini di “Ok, stiamo facendo una cosa pop, meglio togliere queste lungaggini per renderla più comprensibile”, e pensieri simili. Sono quasi sport differenti, ma, allo stesso tempo, penso che la prima forma di ottusità sia precludersi delle vie e preferirne altre a causa di preconcetti.

 

Ci sono state reazioni che ti hanno fatto particolarmente piacere o comunque ti hanno colpito?

Il giorno dell’uscita del disco lo ricordo quasi con dolore. Ho ricevuto molti messaggi di persone emozionate – talune fino alla commozione – di amici che si sono “aperti” con me, fino a ragazzi, anche giovanissimi, che non conoscevo – e che probabilmente mi seguono sui social per le collaborazioni con Luke. Mi è sembrato come se volessero dirmi quanto fossero “con me”, quanto stessimo tutti vivendo uno stesso dramma. Mi hanno fatto capire quanto dolore avessi dentro – di cui, a questo punto, ero conoscenza solo parzialmente – e come inevitabilmente fosse finito nel disco per osmosi. Dopo quelle reazioni ho sorriso ripensando alla mia idea che il disco non dovesse essere propriamente triste, ma più “malinconico”. Per sdrammatizzare un po’, ormai capisco che l’album non è piaciuto quando mi commentano solo la scelta espressiva, tipo l’amico che dice: «’Mazza, solo pianoforte!», che è un po’ l’equivalente del «Bella la fotografia» detto all’amico regista che ti fa vedere un corto che ti fa cagare. Ma, appunto, ne sorrido, figuriamoci.

Ti piace la direzione in cui sta andando la musica in Italia? Sia da un punto di vista di scrittura e produzione, che da un punto di vista di offerta e fruizione?

Mah, sento molta gente lamentarsi dell’andazzo, della standardizzazione della musica odierna, e tutti discorsi similari che, come tutte le cose che vengono dette migliaia di volte, si svuotano un po’ di contenuto. Personalmente, ma qui parlo come grafico, noto anche io sulla mia pelle una tendenza caleidoscopica al dover fare uscire mille progetti: è un continuo di nuove uscite e, anche dal punto di vista estetico, non si fa in tempo a partorire un’idea che già te ne viene richiesta un’altra. Probabilmente è un discorso banale, ma esistono ancora dei processi “fordisti” che inevitabilmente fanno sì che la quantità vada a discapito della qualità. D’altra parte ho sempre odiato atteggiamenti come quelli degli amici dei miei genitori che, non capendo la musica di allora, mi dicevano «Io mi sono fermato al progressive», o cose simili. Precludersi qualcosa per stare in una comfort zone è legittimo, ma non mi appartiene molto. Essendo curioso per indole, finché mi andrà cercherò di stare un po’ appresso alle cose: magari non apprezzandole al 100%, ma provando comunque a capirne le dinamiche. Va anche detto che, oggi come non mai, se non vuoi ascoltare una cosa puoi benissimo non farlo; molti tormentoni estivi degli ultimi anni io non li ho mai ascoltati. Non ascolto le radio, non guardo la tv, non entro nei negozi per fare shopping, non mi capita proprio di sentire “il pezzo dell’estate” dall’inizio alla fine, a meno che non sia io a volerlo fare. Va benissimo che esistano discorsi musicali anche faceti, che parlino a persone meno attente alle dimensioni più “nobili”: è (quasi) sempre stato così. L’idea che si debbano in qualche modo educare musicalmente le persone, nella composizione o nella fruizione, mi sembra una velleità che ha sempre fallito – al di là della presunzione che è alla base di questo pensiero. Quindi, in generale, non colpevolizzerei il pubblico, le radio, né i sistemi come Spotify e la sua logica delle playlist. Quando ero più giovane andava musica altrettanto discutibile a livello di grandi numeri e i canali erano ancora più ristretti (MTV, etc.). Per trovare i dischi indipendenti facevo una fatica bestiale. Oggi se vuoi sentire cose “minoritarie” puoi farlo serenamente con un click. Anche nel pop c’è molta più ricerca degli anni Novanta per esempio: mi sembrerebbe paradossale dire che un disco dei Backstreet Boys sia superiore a livello qualitativo a un disco di TheWeeknd – che pure fa numeri assurdi.

Il disco è uscito per Bomba, realtà alla quale sei legato. Immagino sia stato naturale e in un certo senso inevitabile che un album così personale rimanesse “in famiglia”.

Per anni nessuno, al di là di Riccardo Studer, ha saputo nulla dell’album, e i pochissimi che gradualmente ne sono venuti a conoscenza non lo avevano comunque ascoltato. Quest’estate ne ho parlato con Davide Caucci di Bomba – uno dei miei migliori amici, a prescindere dalla collaborazione lavorativa – chiedendogli qualche consiglio su come pubblicarlo. Senza averlo ancora ascoltato, ma per la fiducia e la stima che ci lega, mi ha detto che ci avrebbero pensato loro a distribuirlo. Ma è stato tutto molto naturale, con i ragazzi di Bomba ci sentiamo quasi quotidianamente, e così sarebbe anche se non avessero distribuito il disco.