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Glen Lasio

GATE44 un'anima contemporanea e storica in una grande stamperia d'arte di Cimiano

quartiere Turro

Scritto da Annika Pettini il 26 aprile 2022
Aggiornato il 27 aprile 2022

Glen Lasio, ritratto

Non c’è mai un modo semplice di raccontare una vita. Si può provare a scorgerne dei dettagli e lasciare che da essi nasca la voglia di andare più a fondo o anche solo accanto. Qui abbiamo scelto di raccontarvi GATE44, una grande  tipografia e stamperia d’arte a Ciminiano aperta dall’artista e stampatore Glen Lasio, per portare avanti un trascorso di conoscenze, saperi e affinità artistiche che, appunto, è un insieme densissimo di storie. Le tecniche di stampa sono processi artigianali estremamente sensibili, ti mettono difronte alla possibilità di dare forme a un pensiero, a una sensazione, e la strada è lunga e intensa. Quindi avere accanto le persone giuste per farlo, che sanno indirizzarvi e seguirvi, è fondamentale. Vi racconto Glen, o i dettagli di lui che ha scelto per noi.

«Sono tornato a casa in pace, volevo lasciare una traccia che era la mia, che anche se non vale nulla è valida tanto quanto.»

 

Iniziamo dalla fine: da Gate44. Hai uno spazio molto speciale a Milano che ibrida tecniche di stampa e traduzioni artistiche. Ce ne parleresti? Dove si trova e cosa e chi c’è dentro.

Siamo in via Treviso 21, in zona Cimiano, in una traversa di via Padova e dentro ci siamo io, Glen Lasio, Nicolas Muratore – professione però stampatore – fissi, più due collaboratrici: Giulia e Francesca, rispettivamente in qualità di rilegatrice (anche se è una stampatrice ma qui fa la parte di rilegatori e cartotecnica) e Francesca, che si occupa di siti web e codici.

Pensiamo a Gate44 come a un centro di produzione di cultura visiva, nel senso che ci occupiamo di immagini e della loro riproduzione e proliferazione in un determinato contesto storico sociale. È un termine recente, è da 15 anni che si inserisce negli ambienti di ricerca – non ha a che vedere con la storia delle immagini ma con il loro contesto. Ovvero che prevede una forte interazione tra le tecniche di realizzazione e l’essere umano stesso.

Ci occupiamo di stampa d’arte e grafica editoriale, che parte dalle nostre esperienze tecniche, anche se io nasco come artista e questo si sviluppa e si espande in vari modi. Realizziamo carta da parati, progetti d’arte, packaging…il fil rouge è che cerchiamo la modalità di esecuzione e il luogo più adatto per ciascuna immagine.

Come funziona il progetto nelle sue forme di scambio, accoglienza e produzione?

La stamperia d’arte per sua natura nasce come luogo di incontro dove lo stampatore è un artigiano al servizio dell’artista. Io ho passato molto tempo da giovane nello studio di Giorgio Upiglio e l’ho sempre trovato di grande fascino: gente che si riunisce con diversi background e insieme danno vita a un artefatto compartecipato, che parla diversi linguaggi e declinazioni di essi.

La natura stessa dell’attività ha questa inclinazione, quindi non facciamo selezione e accogliamo artisti dall’estero che possono stare qui a lavorare.

Altra cosa: io ho sempre visto un grande nesso tra la stampa e internet. Nessuna delle due prevede il concetto di scarsità ma solo quelli di ricchezza e abbondanza perché la matrice, come il digitale, non ha fine. Così anche il concetto di comunità e la possibilità di mettere in contatto un gran numero di persone.

Io sono mezzo americano, ho vissuto un po’ di qua e un po’ di là, ho viaggiato molto. Quindi il modo di costruire la propria identità l’ho trovato fondamentale nel mio modo di crescere e ho portato il mondo da me senza problemi.

Ho un’affezione speciale per i materiali, li trovo seducenti. Ci parli delle macchine e dei diversi elementi che concorrono nei diversi tipi di stampa?

I processi, i materiali, le tecnologie risalgono prevalentemente  ad un periodo che va da Gutenberg al primo 900 – da fine 1400 al 1920 circa –  si parla quindi di stampa calcografica – incisione tramite acidi di lastre di rame e zinco su cui è stato eseguito un disegno con diverse tecniche: acquatinta (polvere di bitume per disegni in scala di grigio con toni continui) l’acquaforte per disegni a linee, la cera molle, l’ acido diretto, poi c’è la maniera a sale, la maniera  a lavanda…), di stampa litografica (storicamente su pietra ma noi usiamo lastre sensibilizzate di alluminio) e stampa serigrafica.

Poi abbiamo le macchine: il torchio calcografico arriva poco dopo Gutenberg e nei secoli si è evoluto, ma in sostanza il concetto è che stampi a rilievo: c’è una parte più alta e una più bassa che accoglie l’inchiostro – quindi bianco e nero. Più le linee sono vicine più abbiamo l’illusione ottica del nero, più sono distanziate, più andiamo verso il grigio chiaro.

Abbiamo introdotto alcuni materiali nuovi aggiornando così i processi. Ad esempio il fotopolimero, che viene dall’industria pesante contemporanea, ed è un materiale introdotto in ambito artistico per la sua capacità espressiva (viene lavorato con la luce UV dal positivo di una pellicola e viene inciso con acqua e non acido).

Poi abbiamo il tirabozze che veniva usato per fare poster tipografici, le affissioni pubbliche, dal 1800. Veniva usato come l’indesign di oggi: facevi la prova di impaginato e se veniva bene spostavi la composizione su una macchina automatica o semi automatica e andavi in produzione. Su questa si possono stampare litografie in offset, caratteri mobili in legno, linoleum e xilografie.

Abbiamo un paio di macchine serigrafiche, siamo già verso il 1900 come periodo, una per grandi formati e una semiautomatica che stampa fino al 70×100 cm.

Poi una cordonatrice, un’occhiellatrice e un paio di stampanti per il digitale.

Usiamo principalmente inchiostri a base olio su carta 100% cotone. Sono tutti materiali naturali a cui abbiamo chiaramente affiancato materiali e processi moderni, perché la preoccupazione principale non è di tipo museale ma produttiva: vogliamo stampare le migliori immagini possibili.

Per quanto riguarda i materiali che vengono usati è bello perché se li osservi a fondo capisci la loro storia, da dove vengono, perché sono stati scelti per la loro funzione, quanto tempo è stato impiegato per farli; ogni materiale si porta dietro le fasi della lavorazione ovvero le ambizioni e le abitudini di un popolo. La gente si da da fare per fare cose e la materia risponde, parla individuando un modo di pensare.

E le macchine sono materiali all’ennesima potenza: sono l’estensione delle ambizioni dell’uomo, dell’affanno per il dettaglio, a me piacciano quelle che fanno una sola cosa e solo quella e se non gliela fai fare è davvero solo un ammasso di ferro. È filosofia empirica.

Le macchine si sviluppano in un arco temporale e quindi hanno anche l’espressione di un linguaggio storico, sono create per ottenere un gusto grafico preciso. Non si scampa, se hai una cultura visiva sono immediatamente riconoscibili e ogni macchina ha una portata espressiva tutta sua.

Quindi riuscire a portare gli artisti a comunicare al meglio le loro immagini mi fa impazzire, è come trovare un abito giusto per la cerimonia giusta. È splendido.

Al di là di me credo ci sia un ritorno a questo tipo di piacere, al dettaglio, non solo per la carta stampata, ma la gente ha inconsapevolmente comprato roba anonima e standardizzata per lungo tempo e poi se ne sono accorti tutti insieme. Cose prive di storia che hanno innescato la voglia di identità. E quindi un ritorno a tutto questo.

Gate44 è vicino a Turro, come sei arrivato in questa zona? Cosa e chi c’è intorno a te?

Sono nato a Milano e sono stato qui fino ai 16 anni, a 19 me ne sono andato definitivamente convinto che non sarei mai più tornato. Era l’inizio degli anni 2000 e Milano a quei tempi finiva con la circonvallazione. Nel 2017, quando sono tornato, ho trovato una città molto molto diversa, soprattutto grazie a immigrazioni interne in Italia che hanno reso Milano un po’ un centro, un punto di riferimento lavorativo e non solo, che ha attirato anche l’immigrazione dall’estero. Diciamo che rispetto al resto del paese è l’unico posto in cui succedono cose. 

È stata una città minuscola che ha iniziato a espandersi e ogni cosa è diventata preziosa, di grande valore. Ho scelto Ciminiano (che quando è stato costruito questo capannone nel 1952 era comune di Greco, non di Milano) perché a livello urbanistico è fantastico, una zona di piccole industrie connesse ad un aspetto residenziale con grandi parchi e la Martesana, in ottica di sviluppo futuro è difficile che ci sia qualcosa di meglio. Ci sono due linee di metro e in 20 minuti sei in Duomo, in 5 minuti esci e sei sulle tangenziali, hai un parco bellissimo e da un punto di vista di persone c’è ancora molta Milano storica: la Milano operaia, quella dell’artigianato, misto a immigrazione estera e questo crea un ambiente molto interessante e un piano di servizi perfetti per lavorare e produrre.

Ora il passo del gambero: negli anni non sei sempre stato a Milano e anche il tuo nome ci suggerisce radici ibride. Ci parli un pochino di te?

Sono mezzo americano per mamma, che a sua volta è mezza scozzese – il mio nome è scozzese, Glen, valle (come i vari whisky), 1/4 sarda e un 1/4 bergamasca (che si divide a sua volta in mezza slava). Dopo i sedici anni vado e vengo dagli Stati Uniti e a 19 anni finisco a Savannah, Georgia, con una borsa di studio per l’accademia d’arte ma mi rendo conto che ecco, forse studiare arte e Savannah, nel profondo sud conservatore dell’America, non è un’ottima idea.

Per vari motivi mi trasferisco a Chicago, dove mi fermo per 9 anni. Lì ho iniziato a fare l’artista, avevo una galleria con la quale organizzavo anche delle residenze in dialogo con la stamperia di Giorgio Upiglio a Milano. Fin da ragazzo infatti ero andato a bottega da lui e ho sempre avuto questa connessione. Quindi da Chicago mandavo a Milano artisti per produrre dei lavori e poi tornavano in America e facevano la mostra in galleria.

Quello è stato l’inizio di un piccolo piede che tornava in Italia ogni tanto, ma sempre con l’idea che non sarei mai tornato per restare.

Ho viaggiato molto tra Sudamerica, Messico e Buenos Aires e quando sono tornato a Chicago mi fanno capire che la traiettoria per gli artisti è sempre verso New York. Avevo amici lì, una sorella, e quindi mi trasferisco NY ma in pochi mesi capisco che non è sostenibile. Ti ammazzi come cameriere per una stanza a Brooklyn e un angolo di studio, per finire a non avere tempo di andarci perché devi lavorare troppo per mantenerlo. Stavo tornando a Chicago, quando decido di passare da Milano per l’estate e qui ho incontrato Monia Pavone, la storica stampatrice di Upiglio.

Decidiamo di rilevare la sua stamperia ma non troviamo una balance con la famiglia e apriamo l’alternativa: Gate44.

Come sei arrivato a quello che oggi è il tuo mondo lavorativo e creativo?

Ho soddisfatto la mia sete di curiosità e mi sono liberato dalla ribellione.

Mentre ero in viaggio in Sud America ho conosciuto questo ragazzo che era in viaggio da 27 anni e non si era mai fermato. Ci sono rimasto insieme una settimana a parlare: in quel viaggio stavo maturando l’idea che non c’era altro da esperire che non fosse la curiosità e la libertà. Dopo una settimana con Jayme, si chiama così, mi ero trovato d’accordo su tutto della sua filosofia esistenziale, ma la conclusione aveva a che fare con il senso della vita. Per lui, nel momento in cui non c’è senso, non si fa nulla. Lui galleggia per la vita e per il tempo – senza la necessità di lasciare un segno. Lì mi sono liberato della ribellione e ho capito che per me invece il senso sta nel fare qualcosa, qualunque cosa: il cazzo che vuoi è sacrosanto e perseguibile. Senza dualismo e giudizio ma per scelta. Mi sono sentito libero nell’assenza di senso. Lì ho sentito il bisogno di tornare in studio a fare cose.

Ero stufo di portare piatti al tavolo e ho capito che qui potevo costruire qualcosa. Sono tornato a casa in pace, volevo lasciare una traccia che era la mia, che anche se non vale nulla è valida tanto quanto.

Sei anche e soprattutto un artista che ha deciso di accogliere altri artisti. Come mai?

Per essere artista devi farlo ma anche non necessariamente. L’arte l’ho sempre vista come un processo di scoperta e avvicinamento alla verità attraverso un canale altro.

Se è arte il suo contenuto non è il soggetto, ma si avvicina alla verità attraverso canali diversi, come quello spirituale e intellettuale. L’arte ti insegna a vivere in termini di processi, che sono anche l’unica vera realtà in cui ti puoi identificare.

Fare arte è poi tutto un altro paio di maniche. 

“Non ho avuto bisogno di ripetermi” – l’artista vero non deve fare per essere. Farlo come dovrebbe essere fatto oggi in questo momento non mi interessa. Ed è per questo che la mia “carriera” da artista non è una preoccupazione. Continuo a fare cose ma non in modo sistematico. Mi muovo attraverso diversi media. C’è una responsabilità sociale che mi porta a stare nel processo e a buttare gran parte di esso – perché mi guadagno i soldi con la stamperia e questo mi lascia libero.

Però gli artisti ti piacciano…

Si ma tanti e per pochissimo tempo. Per il resto sono noiosi.

Sviluppi e direzioni futuri?

Lavoriamo molto con ragazzi giovani di 20-25 anni che ci chiedono anche continuamente lavoro…Mi rendo conto che per mettere in piedi una realtà del genere, essere autonomi, ed affermare il proprio valore non bastano talento e voglia di lavorare. Mi spaventa l’idea che tutta la loro creatività, energia ed originalità si pieghi e dissipi sotto la forza della pressione sociale ed economica prima che raggiungano i trent’anni. Sarebbe uno spreco, mi irritano gli sprechi. Il primo gallerista con cui ho lavorato mi disse una volta: “Glen, il segreto per un artista è arrivare ai quarant’anni, se arrivi a quaranta metà del lavoro è fatto perché gli altri avranno già mollato, si saranno già arresi”. Ecco il progetto futuro è far si che a nessuno venga in mente di mollare. Come? Creando una scuola di cultura visuale “applicata” in cui ritorna centrale la figura del mentore mentre il professore scivola in secondo piano, progetto e pianificazione diventano l’impalcatura concettuale del curriculum, in cui l’ultimo anno è interamente centrato all’ingresso nel mondo del lavoro creativo. 

Uno non può metterci 7/10 anni a capire come e dove mettere in pratica le proprie conoscenze e capacità, perché nel frattempo dimagrisce e si scoraggia. Ai ragazzi non serve qualcuno che dica loro come si dipinge o come usa Illustrator, gli serve sapere che senso ha dipingere. Se ti è chiaro quello non ti arrendi.