Spesso ci si immagina il processo creativo come un’attività a compartimenti stagni, che difficilmente esce dal proprio circuito fatto di persone, amicizie, luoghi, eventi, addetti ai lavori, pensieri. La storia di Industria Indipendente – aka Erika Z.Galli e Martina Ruggeri – racconta invece di come la creatività si possa e si debba costantemente alimentare, nutrendola con tutto ciò che una città può offrire, orizzontalmente e trasversalmente: reti, spazi condivisi, comunicazioni, collaborazioni, fino al clubbing. Dopo anni di spettacoli – e riconoscimenti – in questo 2019 ci sarà il debutto per il Romaeuropa Festival con lo spettacolo “Lullaby – Tragedia Aerobica” (dal 18 al 20 ottobre al Mattatoio). Ci siamo fatti raccontare tutto in questa intervista
Partiamo dal vostro primo incontro: come e quando vi siete conosciute?
A un concerto di Capodanno a Roma. Era il 2003.
Avete collaborato su altri progetti o vi siete subito dedicate alle produzioni a nome Industria Indipendente?
Industria Indipendente eravamo noi e tutto quello che facevamo, senza pensare che fossero progetti: fotografie, quadri, video. E tanta scrittura.
C'è una storia dietro il nome che avete scelto?
Erika aveva fatto un quadro scritto in braille e aveva riportato questa scritta tradotta in tedesco. Due parole trovate vicine nel vocabolario: simili, ma dai significati contrastanti. Da lì il nostro nome.
Roma è stata la cornice del vostro incontro. Che città è stata per voi in quel periodo?
Erano i primi anni del 2000 ed eravamo appena ventenni. Alternavamo il nostro interesse per il teatro alle serate nei club più underground. Abbiamo conosciuto il Fanfulla, gli appuntamenti di Phag Off, l’Angelo Mai, il Rialto Sant’Ambrogio, il Forte Prenestino, il Brancaleone. Ci siamo avvicinate ai movimenti queer: incontri, sguardi, vicinanze che hanno segnato le nostre scelte e che ci hanno posizionato politicamente. Nello stesso tempo ci siamo formate teatralmente come spettatrici. Santasangre e Muta Imago erano due tra le compagnie romane che seguivamo con passione. Oggi abbiamo la fortuna di condividere con loro il nostro percorso: con Roberta Zanardo e Luca Brinchi collaboriamo su vari progetti e insieme ai Muta Imago facciamo parte di “Oceano Indiano”, un progetto di residenza del Teatro India.
Arriviamo così al vostro debutto: "Crepacuore".
“Crepacuore” nasce dall’incontro con l’attrice Diletta Acquaviva. È un monologo che ha l’impronta della sua terra d’origine, del suo dialetto e della sua fisicità. Avevamo partecipato a una delle edizioni di MarteLive ed essendo state premiate nella nostra categoria ci venne data la possibilità di portare lo spettacolo in diversi luoghi e di confrontarci con il pubblico. Eravamo alle prime esperienze e il ricordo di quegli anni e di quel momento specifico, prima e dopo la messa in scena, è quello di un lancio verso qualcosa di non definito: non ci importava dove saremo finite o come sarebbe andata, avevamo solo voglia di fare. E questo non è mai cambiato. “Crepacuore”, però, non è stato il nostro primo approccio con il palco e con il pubblico. Contemporaneamente alla creazione dei primi lavori ci esibivamo con gruppi di performer all’interno delle serate di Amigdala, che ci hanno permesso di lavorare in luoghi assolutamente non convenzionali dal punto di vista teatrale e in relazione a un pubblico non sempre pronto alle nostre incursioni. Sono stati anni che hanno segnato la nostra creazione, il modo in cui ci rivolgiamo a chi ci guarda, il desiderio di inclusione verso il fuori, l’uscita di scena senza applausi, lo strappo tra chi sta a guardare e chi è guardato. Quegli anni, quelle esperienze fuori dal palco, ci hanno avvicinate a una ricerca che tende a essere orizzontale, dove drammaturgia è musica, parole, gesti, sguardi, video, luci, condivisione tra dentro e fuori.
Mi piacerebbe avere un breve racconto anche degli spettacoli che sono seguiti a "Crepacuore", a partire da "È tutta colpa delle madri".
“È tutta colpa delle madri” è nato per il Teatro Valle Occupato. Lo spettacolo in sé e per sé è stato un’esperienza non compiuta, ma ha comunque esercitato una forza incredibile su di noi. Era il nostro primo lavoro dopo “Crepacuore”, nonché la prima volta che salivamo su un palco – soprattutto su un palco come quello del Valle – tentando di rappresentare una formula drammaturgica aperta. Col senno di poi possiamo dire che non eravamo ancora pronte: avere due sold out fu qualcosa di totalmente inaspettato. D’altra parte, però, senza quel momento così impetuoso probabilmente non sarebbe nato “Supernova”, testo con il quale abbiamo vinto il Premio Hystrio per le scritture di scena, e quindi, dopo due anni di lavoro con cinque performer eccezionali, non sarebbe nato “I ragazzi del cavalcavia”. “È tutta colpa delle madri” quindi rappresenta il nostro momento più importante, quello che si è rivelato decisivo e grazie al quale ci permettiamo sempre e ancora di rischiare, di andare oltre le nostre possibilità, di cambiare forma e pensiero. Poi è arrivato “Ho tanti affanni in petto”, che è stato il segno di quanto la drammaturgia per noi sia e debba essere modulabile rispetto alla storia che vogliamo raccontare. Lo spettacolo, finalista al Premio Scenario, sull’impronta dell’Iliade si snodava attraverso anagrammi e giochi di parole, filastrocche, cori, metrica, rapsodia. “Lucifer” è stato il seguente ed è nato dall’incontro con Piergiuseppe Di Tanno. Qui la parola si è fatta slang e la drammaturgia suonava i bpm della techno di Lady Maru. “Lucifer” è stato un lavoro difficile, sia fisicamente che mentalmente. Avevamo voglia di rappresentare una sfida, anzi, la sfida: l’essere umano solo, un essere destinato a essere al centro, pur contro la sua voglia, ma per sua natura. Rileggendolo a distanza di qualche tempo è molto presente il discorso dell’Antropocene e della sua deriva distruttiva, assolutamente non salvifica. Lucifer è dentro ognun* di noi.
Arriviamo così a Lullaby, lo spettacolo che presenterete per l'edizione 2019 del Romaeuropa.
Questo lavoro nasce da un punto interrogativo, quello che ci assaliva cercando di immaginarci nel futuro. Come abiteremo lo spazio quando invecchieremo? Cosa ne sarà del nostro diritto di parola? Cosa del nostro diritto di apparire? Cosa della nostra identità? Come ci saremo comportati con gli altri? Saremo rimasti a guardare? “Lullaby” nasce quindi dalla curiosità nei confronti di un’immagine di noi e del nostro vivere che ancora non esiste, in un futuro che vogliamo provare a intuire. Quello che abbiamo creato è quindi una sorta di laboratorio, in cui porre le condizioni di uno stare – che ha molti punti di contatto con quello che viviamo noi in prima persona, ma che, in qualche modo, rappresenta solo una delle sue possibili conseguenze – e verificare dove questo ci potrebbe condurre.
Perché "Tragedia Aerobica"?
Perché implica uno sforzo, un dispendio, un rischio e forse anche una perdita. Ciò che si consuma dentro “Lullaby” è un principio astratto, anzi, una possibilità che nasce da un’urgenza: quella di riuscire, forse per la prima volta, ad uscire da sé, prendendosi cura di qualcosa che porta il nostro segno, ma che non coincide esattamente con noi stessi, perché nato collettivamente. I quattro personaggi che si muovono sulla scena hanno caratteri e storie differenti, ma si trovano a condividere uno spazio, un tempo, un sentire e una visione, e sulla base di questo cercano faticosamente di creare un legame così forte da condurli naturalmente verso un’azione: di liberazione, di ribellione, di autodeterminazione. In un certo senso, è una tragedia opposta a quella di “Lucifer”, e che in qualche modo gli risponde: se lì si consumava un dramma della solitudine, condizione forzata, performativa e claustrofobica dell’essere umano, “Lullaby” prova a immaginare una diversa soluzione, quella in cui siamo costretti a reimparare a stare insieme – tra noi appartenenti alla stessa specie, oltre che con le altre e tutto il resto. Solo che anche questa implica una fatica, ma è forse l’unica possibilità di resistenza e di sopravvivenza. È quindi lì la tragedia aerobica: nella fatica che tutto ciò comporta e che forse non siamo così abituati a far nostra.
Com'è stato lavorare con attori di una generazione diversa dalla vostra?
Ogni età poi porta le sue questioni, si tratta solo di ricomprenderle nel quadro di una relazione, di un incontro, come succede in generale tra le persone. “Lullaby” vive prima di tutto nella verità della distanza generazionale tra noi e i/le performer che sono in scena. È ambientato esattamente 40 anni dopo il nostro presente, interpretato da attrici e attori che hanno tra i 30 e i 40 anni più di noi, e ogni volta che avanziamo avanza anche lo spettacolo con noi. Ci siamo immerse in un tempo e in uno spazio con un gruppo di persone con cui condividiamo il presente e la tensione verso un futuro, ma con un diverso passato. Con i performer Ermanno De Biagi, Marco Cavicchioli, Emanuela Villagrossi e Francesca Mazza, condividiamo il tempo, i pensieri, gli sguardi sul mondo e su di noi, su quello che siamo e quello che vorremmo essere. Il nostro è un dare e prendere che si riformula continuamente, ristabilendo nuove regole, passaggi…
Come ve lo immaginate davvero il futuro?
Il futuro di “Lullaby” ci piace definirlo “futuro archeologico”, perché per certi versi è un’immagine che parla più del presente in cui viene tratteggiata che davvero del futuro che immaginiamo. Nella situazione in cui ci sentiamo di essere, l’immaginazione è una pratica politica fondamentale, soprattutto perché ci permette di ridefinire le regole del nostro presente, di rivederle e adeguarle costantemente ai nostri desideri, al nostro pensiero: ci permette di monitorare ogni volta lo stato di ciò che stiamo facendo alla luce di ciò che vogliamo e crediamo. Non ci interessa tanto immaginare il futuro per proiettarci in un altrove, quanto prefigurare un luogo in cui ci piacerebbe trovarci un domani: una pratica che porta già in sé un’azione, una responsabilità, un esserci e un fare.
Forse la domanda esatta di questi tempi è se ci arriveremo nel futuro o ci estingueremo prima...
«Da quando siamo diventati 12 miliardi ogni discorso sull’estinzione… Ma hai ragione, sì, potremmo sparire tutti in un colpo solo: tipo un disastro di una volta, uno di quelli che vengono dal cielo e BAM!», dice uno dei personaggi di “Lullaby”.
Nell'ipotesi positiva di un futuro senza avvenimenti catastrofici, ci ritroveremo in ospizio ad ascoltare e ricordare Aphex Twin?
Ma i nostri nonni e i nostri genitori ascoltano Aphex Twin! A parte gli scherzi, ogni generazione invecchia coerentemente con ciò che è stata, e ogni nuova generazione sembra indecente, idiota, incomprensibile, superficiale per quella precedente. Non crediamo di essere immuni da questa dinamica, ci interessa però costruire ponti e alleanze tra tutte queste identità. In ogni caso sì, saremo forse un po’ imbolsite e meno elastiche, ma non crediamo che smetteremo mai completamente di andare a ballare. E balliamo adesso con i nostri performer!
Il tema del ballo mi permette di allargare l'intervista ad alcune attività "fuori palco" che vi riguardano da vicino. In particolare "Merende".
“Merende” è il nostro villaggio, la nostra casa, una comunità in continua espansione dove tutt* sono inclus* e nessun* è lasciat* fuori. È un dispositivo nomade che vive grazie al contributo di tutt* quell* che desiderano offrire qualcosa. Siamo sempre di più a voler mettere a disposizione quello che sappiamo o che abbiamo voglia di fare: dentro “Merende” si è liber* di stare, non stare, ballare, sedersi, bere, dormire, baciarsi, lasciarsi massaggiare, tatuarsi, travestirsi, farsi predire il futuro. Di essere chi si ha voglia di essere. A “Merende” c’è musica ovunque, non ci sono generi, né regole se non quella di togliersi le scarpe. È un’azione apparentemente banale, ma che non sempre viene accettata. La scelta di stare tutt* scalz* ci induce ad abbattere quel limite di riservatezza al quale siamo abituat* ogni giorno, ci permette di riconnetterci con quella dimensione di intimità e di rilassatezza nella quale siamo solamente nelle nostre case e ci consente di percepire il luogo come condiviso insieme ad altr*. Ogni mese, da un anno, ci ritroviamo tutt* nella riserva naturale dell’Angelo Mai, un luogo, un’oasi queer da proteggere e di cui prenderci cura. “Merende” non è una serata, non è una performance, né uno spettacolo: è uno spazio-tempo, una possibilità di ricreare insieme, stando insieme, facendoci comunità, superorganismo.
A Roma si sta instaurando una certa prossimità tra una scena clubbing off e il teatro, penso al legame forte tra Short Theatre e Tropicantesimo (o Shawala Fest) e, appunto, alla'esperienza di Merende. Che sta succedendo e come vedete questo rimescolamento delle carte?
In realtà non sta succedendo nulla, eppure sta succedendo tutto. Gli ultimi tempi sono stati molto complicati per la nostra città che, nonostante i limiti, ha il pregio di continuare a essere sempre un serbatoio di resistenza, in cui idee, scene e situazioni trovano una loro modalità vitale di esistere anche se nel sommerso, nel piccolo, nel quasi-illegale. In questi anni in cui molte cose sono cambiate, tanto a livello politico e amministrativo che culturale, in cui molti spazi sono venuti a mancare e dove spesso si ha una sensazione di impossibilità quasi paralizzante, crediamo che sia emersa una caratteristica fondamentale di Roma: il suo saper dare valore alle relazioni tra le persone. Quelli che tu citi sono tutti luoghi, materiali o meno, che emergono in qualche modo da uno stesso humus, allo stesso tempo elettrizzante e familiare, costruito a partire dagli interessi, dalle attitudini e curiosità di chi vi si trova all’interno, che ha saputo mantenere aperta la propria porta, ha saputo mettersi in ascolto e scegliere di tessere reti solide, proprio perché basate sui legami. Quello che sta succedendo ora è semplicemente che tutto questo sta vivendo una fase di visibilità, perché si sono create – o meglio, sono state create – le condizioni perché la bellezza e la vitalità che la città ha in sé possano esprimersi di nuovo con forza.
Che segnale è stato per voi l'aver affidato la direzione del Teatro India a Francesca Corona? L'India potrebbe diventare IL laboratorio romano per l'arte, essendo in grado di accogliere la sperimentazione, ma con le spalle grosse dell'istituzionalità?
A Roma siamo abituati alle difficoltà, alle crisi, all’impossibilità. Abbiamo però ancora negli occhi e sulla pelle quanto avvenuto il 21 settembre per i 20 anni del Teatro India: una vera festa, anche nel senso della ritualità, in cui la proposta artistica, la partecipazione del pubblico e l’atmosfera che si respirava ci hanno restituito la sensazione che qualcosa di importante, ma anche naturale, sia avvenuto. Ci sembra che in questo momento stia emergendo quanto in questi anni ha vissuto in un’ombra fatta un po’ di mood sornione, un po’ di frustrazione, in un processo gioioso di condivisione in cui finalmente il confine che divide l’istituzione dalla cosiddetta scena indipendente può non confondersi, ma essere attraversato.
Dopo "Lullaby" a cosa lavorerete?
Da un anno a questa parte abbiamo trasformato il nostro processo creativo e tutte le sue espressioni in un’idea di neverending project, affinché ogni creazione possa legarsi con l’altra ed essere aperta a un dialogo con il tempo e con altri individui, nel tentativo di generare processi di condivisione artistica e comunitaria; nel desiderio di moltiplicare significati, processi e alleanze. Continueremo a lavorare ad “Attika”, con Annamaria Ajmone, un progetto aperto e nomade che prende le mosse da un reciproco interesse verso pratiche interpretative che riflettono intorno ai paesaggi, alla loro esplicita e implicita natura e alla loro performatività; poi “Merende”; “Dunno”, un film a episodi; e una nuova drammaturgia che proprio in queste ultime settimane sta prendendo vita.
Contenuto pubblicato su ZeroRoma - 2019-10-16