Dai primi passi nell’attività di famiglia, fino ai più prestigiosi riconoscimenti come il titolo di miglior bartender d’Italia 2015 alla Diageo Reserve World Class: dopo una carriera nei ristoranti e hotel high profile di Italia e Svizzera, Francesco Cione con il suo bagaglio di professionalità approda a Milano dove lo potete trovare dietro al bancone dell’Octavius Bar. In questa intervista ci spiega come è nata la sua passione, qual è stato il primo drink che ha preparato e altre curiosità sulla sua vita professionale.
Zero – Come e perché hai iniziato a lavorare al bancone?
Francesco Cione – La mia famiglia ha inaugurato e gestisce dal 1980 l’ormai storico Dallas Bar a Verbania, sulla sponda piemontese del lago Maggiore, dove sono letteralmente cresciuto. Che il mio indirizzo di residenza fosse poi il medesimo, essendo l’appartamento di famiglia sito al piano superiore dello stabile del bar, non è stata evidentemente una mera coincidenza. Nascere e crescere in un bar dove, diligentemente, si vive come se tutto e tutti intorno a te siano parte della tua quotidianità, non può che proiettarti propositivamente verso una mirata visione del futuro.
Chi è stato il tuo maestro?
La mia famiglia mi ha trasmesso la profonda dedizione al lavoro, con un chiaro riferimento all’importanza che lo stesso ha per il proprio benessere, non vivendolo con sudditanza ma con piacevole interesse. Poi gli anni e le esperienze mi hanno permesso di incrociare uomini, prima ancora che professionisti, di grande carisma e acuta visione. Ilvano Santini, barman senza tempo, lucido e abile conoscitore di materia e di modi, nella loro più definita accezione. Carmine Lamorte, che mi ha insegnato a guardare al passato come tesoro per un consapevole futuro.
Qual è il primo drink che hai preparato? Com’era?
Il drink “della casa” o “di casa mia”, quando ero ragazzino, si chiamava “Houla Houla”; e proprio per la sua preparazione mi venne data la prima opportunità. E il segreto stava nell’aggiungerci, oltre al curaçao, la stessa quantità di Orange Stock, uno di quei liquori oggi dimenticati ma che all’epoca (primi anni 90) era presente di prepotenza nel display delle bottiglie di un bar che si rispettasse come tale. Solo molti anni più tardi scoprii che quel drink ha una storia legata alla cultura Tiki e al nome di Ray Buhen, bartender della scuola di Don Beach. Ma per me invece rimaneva genuinamente una ricetta “di famiglia”.
Che cos’è per te il drink?
È un momento. Un’esperienza che si offre al proprio ospite. La tecnica crea l’equilibrio, le sensazioni, l’unicità del ricordo.
C’è uno strumento di cui non puoi fare a meno dietro al bancone?
Mi piace il mixing glass. Per convenzione si pensa che lo strumento principe del barman sia lo shaker. Il mixing glass esprime un’eleganza estrema, innata. Come sosteneva Franca Sozzani, editor-in-chief di Vogue Italia, “l’eleganza è un atteggiamento, si può imparare a essere vestiti bene, ma non necessariamente si impara a essere eleganti. Ci si muove in un certo modo, ci si siede in un certo modo. Le mani, il viso hanno un atteggiamento elegante nelle movenze”.
Qual è il tuo cocktail preferito?
Quello che piace al mio ospite. In realtà, i cocktail preparati a regola d’arte sono tutti buoni, quindi quale soddisfazione più grande può esserci se non quella di dare piacere, piuttosto che riceverlo, trattandosi di ospitalità? Frequento i bar quando mi è possibile e di solito chiedo un Americano, non richiede troppo impegno e mette a proprio agio il bartender che deve prepararlo. Non amo mettere in difficoltà chi fa, o prova a fare, il mio stesso lavoro.
Definisci il tuo stile e la tua personalità.
Le mie radici sono nella storia dei cocktail, dei suoi uomini, degli uomini che me l’hanno raccontata e, in parte, fatta rivivere. L’evoluzione è un processo di lenta e graduale trasformazione. La velocità delle tendenze contemporanee rende le stesse effimere, si dimenticano facilmente, non lasciano traccia. Ho focalizzato le mie attenzioni sul concetto di ospitalità; partendo dalla riflessione che un tempo si avevano a disposizione molte meno bottiglie, mi sono reso conto che ci si concentrava sul cliente, cosa che non fa quasi più il bartender contemporaneo, se non come detto prima, sciorinando un’ospitalità che materialmente non c’è. Il mio stile non vuole stupire con ingredienti improbabili e singolari abbinamenti. Propongo ricette apparentemente semplici, ma contemporaneamente molto complesse. Cocktail che hanno una storia quasi sempre cucita su misura del cliente, a seconda di cosa lo stesso si aspetta. Non mi piace l’esasperazione delle nozioni tecniche, mi piace raccontare le storie che ci sono nei miei cocktail e nelle bottiglie che lo compongono. Mi piace guardare
il cliente negli occhi, salutarlo e ringraziarlo.
Com’è la linea dell’Octavius?
Ci piacere raccontare storie, ci piace farci chiamare lovetender.
Quando e come sei arrivato a lavorare all’Octavius?
Rientrato da Monaco, a metà 2014, ho avuto modo di poter valutare diverse opportunità. Quella di Replay è stata incredibile.
Bevi tutti i giorni? Cosa significa per te bere responsabilmente?
#iononbevomolto. Assaggio spesso, imparo molto.
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Professionista affermato, filosofo e psicologo, viveur e gigolò. Non sono nulla di tutto ciò.