Una mostra del Museo di Fotografia Contemporanea (MU.FO.CO.) su Moira Ricci inaugura a settembre la stagione dello Spazio Oberdan. Moira è un’artista che lavora moltissimo sulla memoria e sulla manipolazione di un immaginario fortissimo e personale. Le sue opere raccontano storie, leggende, ricordi ambientati soprattutto nei territori della Maremma, luogo primario della sua vita. Con la fotografia, il video e con ogni altro mezzo Moira gioca con la metamorfosi come un alchimista: da corpo alle immagini di bambine-cinghiali, uomini-sasso, trasforma una mietitrebbia in astronave, o l’assenza in presenza. Pur avendo vissuto a Milano, a New York e in mille altri posti, Moira non ha mai voluto scegliere un luogo fisso in cui stare, né in città né in campagna, e passa il tempo a spostarsi.
ZERO – Milano ti fa bene? Riesci a stare qua per periodi prolungati?
Moira Ricci – Delle volte mi fa bene e delle volte mi fa male, dipende da come sto io.
Ci sono dei periodi in cui ci vengo spesso e dei periodi meno, ma difficilmente resto più di una settimana da 5 anni a questa parte. Questo invece dipende dal lavoro.
A che età ci sei arrivata la prima volta?
Sono arrivata a Milano a 19 anni, nel 1996, ma dal 2009 ho lasciato la casa perché lavoravo più spesso in altre città. Da allora quando vengo sono sempre ospite da amici.
Ho la residenza in Maremma, come sempre, ma non sto molto neanche lì. Ho lo studio a Rimini, ma credo che il posto in cui passo più tempo sia la mia auto che mi porta da una città all’altra.
Dove abiti? Hai abitato sempre nella stessa zona?
A Milano ho cambiato molte volte casa, forse 7-8 in tutto, e sono affezionata a tutte le zone in cui ho vissuto. Quella che ho amato di più è l’area intorno ai Magazzini Generali: ci ho vissuto nel 1997-98 con altri 5 miei compagni di scuola. Con loro sono ancora in contatto, siamo come fratelli. Un’altra che mi ricordo sempre volentieri è via Lazzaro Palazzi. Oltre a essere una zona bellissima, ho vissuto dal 1999 al 2001 lì in casa con una signora di 56 anni e un signore di 77, erano veramente stupendi e non erano una coppia. Mi hanno insegnato tanto sulla convivenza e sulla diversità. Ho sempre avuto fortuna nel trovare coinquilini che mi hanno dato qualcosa, tranne il primo anno che comunque ricordo come un bellissimo. Era il primo impatto con una città ed è stato come un Luna Park.
Poi oltre alle case ci sono i posti a cui sono molto legata, come la Scala (dove facevo la bagarina); i Magazzini Generali (dove il mercoledì sera vendevo le mutande su cui disegnavo i personaggi dei cartoni animati); gli Obej Obej; il mercato di Senigallia; il Conchetta e tutti quei posti che non ci sono più: il Tunnel; il Garigliano; lo Squat-t; il Pergola; il Rolling Stone (dove facevo la guardarobiera); ecc. Sono di indole nostalgica, come si capisce dai lavori che ho fatto in passato, e dunque un po’ di male lo sento sempre a veder cambiare Milano. Le opere che esponi in questa mostra sono le più recenti, ma raccolgono il lavoro di anni: ci racconti cosa c’è e com’è nato?
In questa mostra ci sono due lavori: uno del 2009, Da buio a buio e uno del 2014, Dove il cielo è più vicino. Sono stati scelti proprio questi due perché parlano della terra e del mondo contadino. Da buio a buio è nato dall’esigenza di elaborare e raccontare alcune storie che ho sempre sentito da piccola. Storie molto particolari, che mi facevano un po’ paura e a cui la gente credeva. Ci ho messo tre anni frugando nelle biblioteche, negli archivi privati e nell’Archivio delle tradizioni popolari della Maremma. Cercavo più documenti possibile per le quattro storie di cui volevo parlare: la bambina cinghiale, il Lupomannaro, l’Uomosasso e i gemellini.Dove il cielo è più vicino invece è del 2014 è un lavoro composto da tre pezzi. C’è un video in cui si cerca di simulare il simbolo del Diavolo mietitore, una leggenda di fine 600 ai tempi delle rivoluzioni dei contadini in Europa. In mostra ci sono anche 8 ritratti di poderi, che negli anni 50 venivano assegnati dall’Ente Maremma alle famiglie numerose che lavoravano per la bonifica della zona, ma che adesso hanno perso il loro significato iniziale, essendo ormai trasformate in case-vacanza. Poi c’è un video di quasi un’ora in cui io e altri 32 (alcuni famigliari e vicini) trasformiamo una mietitrebbia in astronave.Sembra che anche qui prevalga la perdita di senso, l’abbandono. Nella tua elaborazione, la metamorfosi di questi luoghi contiene una potenziale rigenerazione? Le persone, le case, gli oggetti presenti possono trovare un’organizzazione nuova e imprevista?
Io ho fatto questo lavoro con uno stato d’animo molto confuso e contraddittorio. Come molti della mia generazione, ho abbandonato il podere uscendo così dalla tradizione famigliare. Adesso che sono spesso a casa, mi accorgo di non essere capace di mantenere un terreno fertile e dunque di tenere vivo un podere. Ormai ce ne sono rimasti pochi di contadini che sanno coltivare la terra, i poderi sono stati venduti a persone che ci vengono solo in vacanza.
Con il mio lavoro non voglio polemizzare, non posso proprio io che me ne sono andata, ma piuttosto ritraggo una situazione che conosco bene e reagisco con quello che so fare.Come si è evoluto nel tempo il tuo lavoro dal punto di vista delle tecniche?
Cerco sempre la tecnica più adatta per far sì che emerga al meglio l’esigenza che mi spinge a fare il lavoro. Ogni progetto mi porta a migliorare nella tecnica che ho deciso di usare, di solito faccio tutto da sola e perciò mi obbligo a imparare.
Per la trebbia-astronave ho scelto di fare il video, che in realtà è un time-lapse e dunque si tratta di foto, perché per me era importante far vedere innanzitutto la trasformazione dalla trebbia all’astronave con tutto quello che succedeva in mezzo. In che altro modo potevo fare per non perdermi quei momenti d’interazione spontanea tra le persone che hanno collaborato alla costruzione? Sono partita senza sapere cosa sarebbe successo e se sarei riuscita a ottenere qualcosa alla fine. Ho proposto a mio padre di fare un’astronave, lui ha disegnato su una lavagna in modo elementare come la voleva e da lì l’abbiamo costruita a braccio in 37 giorni. In questo caso quello che mi sono costretta a imparare è stato molto; una tecnica tra le tante è stata la saldatura.
A quanto pare i tuoi lavori hanno sempre un nucleo narrativo fortissimo, generato immancabilmente dalla tua storia personale. Esiste una parte urbana di questa storia, oltre a quella più arcaica, che ti interessa raccontare?
Ho fatto un lavoro nel 2003 intitolato Custodia domestica da cui emerge il mio disagio a vivere in città.
Me lo ricordo. La casa rimpicciolita era un interno di campagna. Fuori degli osservatori giganti. Ma quel tipo di disagio urbano, ora che hai attraversato tante città, dura ancora?
Il disagio urbano lo provo sempre per qualche giorno in una qualsiasi città, o in luoghi affollati subito dopo un lungo periodo passato in Maremma. Mi sento come un animale, ma mi adeguo velocemente ormai.
Ti piace Landolfi? e conosci La macchina degli abbracci di Temple Grandin?
No, non conosco nessuno dei due, ma dopo la tua domanda sono andata a fare una ricerca su internet. Li leggerò.
E invece esistono altri racconti, romanzi, che senti affini, oppure l’intero corpo della tua opera è sprigionato da sensazioni e memorie puramente personali, extraletterarie?
Senz’altro la Trilogia della città di K di Agota Kristof (per farti degli esempi), molti dei romanzi di Kobo Abe, di Jack London, i saggi di Roland Barthes e molti altri libri e film hanno incanalato e influenzato il mio pensiero.
Tu fotografi e documenti a volte il lavoro di altri artisti. Fra tutti ce n’è qualcuno che abbia un impatto forte sul tuo pensiero?
Si ovviamente. E non solo quello che fotografo, ma molto di quello che vedo. Ad esempio di Joan Jonas mi colpisce il modo di operare come una strega: rende tutto quello che tocca magico e molto forte
Oltre al lavoro artistico tu fai anche dei lavori più professionali? Se si ci racconti come sono e se ti piacciono?
Faccio molti lavori professionali. Quelli che preferisco sono quelli in cui mi si dà la possibilità di documentare altri artisti che mi piacciono. Mi piacciono anche i matrimoni, che fotografo dal 2000. Scopro ogni volta tante cose sull’umanità.
Parlami dei matrimoni.
Con i matrimoni è iniziato per caso. Un mio amico voleva regalare un album informale a una coppia che si sposava a Palermo e ha chiamato me. Da lì non ho mai smesso: mi sono capitati anche 8 album in un anno come nessuno. Di solito vengo richiamata dagli invitati che vedono l’album degli sposi.
Non mantengo uno stile preciso; cerco piuttosto di adattarmi ai desideri degli sposi, anche se a volte non li capisco perfettamente. Non me ne frega niente del risultato, sono loro che si fanno il loro album guidandomi nella scelta delle foto e nella quantità. Come ti ho detto, a me interessa l’aspetto antropologico del matrimonio.
Dove vai a bere a Milano? E soprattutto, tu che balli come una pazza, dove vai a ballare? E con chi?
Non ho dei posti fissi per andare a bere e a ballare. Seguo Palm Wine quando sono su a Milano, perché è un mio grande amico e mi piace la musica che mette.
Che cosa non puoi perderti assolutamente quando sei qua in città? (in senso culturale ma anche qualsiasi altro senso)
Le mostre che mi interessano, i film che non passano nelle città più piccole, i pochi concerti che riesco a beccare, gli amici che amo.
Moira Ricci
9/10/2015
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