Ci siamo immaginati la città come un unico, grande ristorante. Di quartiere in quartiere abbiamo mappato alcune attività resistenti che vogliamo supportare, selezionando – simbolicamente – un piatto o un drink a locale. Il bar dove hai rimorchiato quella sera, la trattoria dove hai fatto il bis di mondeghili, il locale fighetto che non hai mai smesso di fotografare. Sono qui, ancora a infornare, impiattare o shakerare, si spostano in motorino o in bici e suonano il campanello di casa tua. Il menu del tuo quartiere è un gioco da scorrere, una fotografia semiseria del lato gastronomico della porzione di città in cui viviamo.
Di polli infuocati, padelle centenarie, cucine anti atomiche e insegne illegibili. Nell’olimpo gastrospaziale di tutto ciò che è buono – innanzitutto – gordo, fanatico, unto, succoso, godurioso c’è sicuramente Sarpi. O meglio chiamarla Chinatown, quel lembo di Milano che parla una doppia lingua, che ti consegna il menu in cinese, che fa delivery prima del delivery e che non ti giudica se succhi il brodo. Qui, come nel gioco delle scatole cinesi, mondi diversi si intersecano: li scoprirete solo con un atto di coraggio, o meglio di fede. E se per voi lo spettacolo freak di zampe di galline mozzate, becchi appesi, acquari con bestie insolite è troppo, basta sapere che troverete anche una cucina più moderata, non per questo banale o venduta al soldo dell’Occidente. Ultima cosa, Sarpi ci piace anche perché affianco al Lamian troviamo la nduja calabrese, il vino raffinato dell’azienda dell’Otrepo‘, il cocktail meta fighetto. Questione di scatole cinesi. Come questo menù.