In Italia non è possibile parlare di rave senza finire immancabilmente nell’ambito delle discussione sullo “sballo”, sull’occupazione abusiva, sulla sporcizia e i danni subiti da privati. Così, lo slittamento del discorso politico sul tema di “sicurezza pubblica” con il consueto Witchtek a Modena e con tutte le ambiguità e cecità del caso in quest’abominevole decreto – evento simile a quello accaduto per i “blocchi stradali” in governo Salvini – rischia di far sprofondare il dibattito altrove, dimenticandosi le cose importanti e seppellendone altre – come il fatto che è proprio ai rave che una reale “cultura positiva” delle droghe trova dialogo e ascolto, dai modi d’uso alla coscienza del consumo.
Per partire con i piedi di piombo e restando sui rave, parliamo in sostanza un free party, ovvero di raduni semi-spontanei in luoghi abbandonati, periferici o dismessi, dai campi alle cascine d’estate ai capannoni e alle fabbriche rovinose d’inverno, con musica techno a battito duro e installazioni di vario titolo. C’è poi un portato di sperimentazione musicale, che è oltremodo importante e che ha fatto la storia. Ma assieme e accanto c’è anche un portato politico, propriamente di controcultura, che muoveva assieme centinaia di migliaia di persone, mescolando l’immaginario nomade e i suoi echi nella filosofia francese, il cyberpunk e gli hacker fino all’importantissimo immaginario “pirata” con i suoi fortissimi echi nei testi di Hakim Bey e nell’invenzione delle TAZ – Temporary Autonomous Zone –, con una possente dose di critica all’urbanismo e ben serrata nella scelta degli spazi e nell’uso dei ruderi, nonché, ovviamente, un movimento centrale nelle richieste antiproibizioniste. Detto questo, c’è il bisogno di raccontarle un po‘.
L’atto illegale richiedeva sì una coscienza di ciò che si stava facendo, e per quella ragione richiedeva una certa educazione politica.
C’è una storia importante a Roma, dove la scena rave anticipò l’arrivo nel 1997 degli Spiral Tribe, momento riconosciuto dai più come “fondativo” del movimento in Italia. In quegli anni si insisteva sul metodo: l’atto illegale richiedeva sì una coscienza di ciò che si stava facendo, e per quella ragione richiedeva una certa educazione politica. Ragion per cui a Roma si mescolarono elementi hacker e cyberpunk, vennero prodotte zine storiche come “Torazine” o “Peti Nudi”, seguendo i vettori delle TAZ di Hakim Bey, andando a “liberare” gli spazi delle periferie, finendo per produrre una strana città che agli inizi degli anni Novanta aveva più vita ai margini che al centro.
C’è una storia altrettanto importante a Bologna, con la Street Rave Parade Antiproibizionista, che arriva dal laboratorio cyborg dei Mutoidi nel 1997, con camion esuberanti, draghi metallici sputafuoco e massicci soundsystem che rivendicano la depenalizzazione dell’uso delle sostanze psicoattive. Parliamo di decine di migliaia di partecipanti, un evento che legò tra loro movimenti di vario titolo, lotte e spazi occupati.
C’è poi una storia più opaca che di disloca nella pianura padana, tra i capannoni e le fabbriche dismesse e va fino all’appennino, in luoghi che si via via si perdono perché “vivi” soltanto per qualche giorno, difficile da tracciare – se non andandosi a leggere Pablito El Drito con Rave in Italy e Vanni Santoni con il suo Muro di casse, due tra i pochi libri nostrani a cercare di tirare le fila di una storia di controcultura.
Insomma, il movimento rave s’è prestato e ha fondato a tutti gli effetti scene, immaginari, suoni e ricerche che hanno echi possenti ancora oggi. Nell’estetica e nella politica, in una certa idea di “illegalità” ma anche nei processi “molecolari” con cui un movimento d’ascendenza politica e avversaria può andare a costituirsi sotto dei principi estetici e comunitari. Certo, è innegabile poi che i rave abbiano nel tempo perso un po’ quella formazione sovversiva che inizialmente il movimento aveva. Quella rottura con il passato, a livello estetico e politico, la sperimentazione di suoni che è sfociata in dischi e generi, un’idea di società che si dava come antagonista allo stato attuale delle cose. Eppure rimangono decenni oltremodo importanti, oltremodo educativi per le modalità di fare cultura.
In quanto è successo, e nel dibattito che ci aspetta nelle prossime settimane rispetto al farsi legge di questo decreto, c’è a tutti gli effetti il proseguimento dell’incomprensione tra generazioni da un lato, il misconoscimento di un movimento culturale che ha in Italia trent’anni di storia e quell’idea di “sicurezza” che minaccia di andare a precludere e punire pressoché qualunque tipo di manifestazione “analoga” – dal momento in cui si occupa suolo. Sono i corpi e la libertà del dissenso a essere contingentati, a perdere terreno. E il fatto, poi, è che se non si ha spazio finisce che non si fa nemmeno cultura.