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Davide Cabassi

Ha debuttato a tredici anni con l'Orchestra Sinfonica della RAI di Milano e oggi è un pianista noto in tutto il mondo. In vista del doppio appuntamento che lo vedrà protagonista nella stagione de I Pomeriggi Musicali, abbiamo parlato con Davide Cabassi del suo percorso, del progetto La Primavera di Baggio e di come portare la musica classica e contemporanea al 'grande pubblico'.

Geschrieben von Anna Girardi il 31 Januar 2017
Aggiornato il 13 Februar 2017

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Milanese, bambino prodigio, alla soglia dei quarant’anni Davide Cabassi si conferma un grande musicista. Conosciuto in tutto il mondo, ha un’agenda ricca di concerti, progetti e attività. In questa stagione de I Pomeriggi Musicali ci sarà modo di ascoltarlo due volte, il 2 e 4 febbraio con il primo concerto per pianoforte, tromba e archi di Sǒstakovič e il 26 marzo per “Le domeniche dei Pomeriggi” con una mattinata dedicata a Schubert. Ecco cosa ci racconta.

ZERO: Tre aggettivi per descriverti?
DAVIDE CABASSI: Da sempre un po’ visionario. Cerco di creare cose che non c’erano prima, come ad esempio la Primavera di Baggio. Carismatico, perché mi piace coinvolgere le persone, e stanco. Nato stanco.

Tutti ti introducono dicendo che sei un bambino prodigio, hai debuttato a 13 anni con l’Orchestra della Rai. Cosa ti ha spinto ad avvicinarti al pianoforte?
Ricordo che avevo una vicina che suonava il pianoforte e mi piaceva molto. Poi è stato merito dei miei genitori che sono degli appassionati. In più ero un bambino piuttosto scatenato e i miei genitori, disperati, volevano trovare un modo per incanalare tutte le mie energie. In seguito sono stato anche un bambino molto malato e quindi quando ero a casa da scuola passavo le mie giornate a suonare, non potevo fare altro.

Non hai mai avuto dubbi o curiosità di scoprire altro?
Ho iniziato subito a fare seriamente quello e praticamente non ho avuto scelta, non so fare nient’altro. Penso sia comune tra chi inizia molto presto. C’è stato un momento, verso la prima adolescenza, in cui mi sarei visto a 360 gradi in qualsiasi altra cosa. Avrei voluto fare il critico d’arte, il giornalista, il calciatore – sono un’interista sfegatato! – però il canale della musica era talmente avviato che non ho mai pensato seriamente di svincolarmi.

Hai iniziato fin da giovane a girare suonando. Sei stato tanto all’estero, eppure sei sempre tornato qui. Cosa ti lega a Milano?
È una scelta, voglio vivere qui. Per un lungo periodo ho vissuto negli Stati Uniti, ci sono state tante opportunità per trasferirmi all’estero ma sono molto legato a Milano e all’Italia che è un paese che offre di tutto per storia, cultura, paesaggi, cibo. A Milano sono nato e cresciuto – in particolare nella zona ovest – ed è una città che funziona, aperta all’Europa, che offre tantissimo. Non riesco a immaginare la mia vita lontana da qui, non mi vedo felice.

Tua moglie, Tatiana Larionova, pianista, viene dalla Russia. Piace anche a lei Milano?
Mi sono sposato con una donna conosciuta in America nata in Russa e che non vivrebbe in nessun’altra città che non sia Milano. Si è innamorata perché le ricorda Mosca: in entrambe c’è il fascino di una bellezza nascosta, da scoprire. Ci sono città come Parigi, Roma, Barcellona in cui la bellezza è in primo piano sempre, ma dopo un po’ mi stancano. Mosca, New York, Milano, sono città diverse, in cui la bellezza è da scovare.
Con mia moglie, quindi, Milano è stata una scelta molto condivisa.

Con tua moglie è nato il progetto della Primavera di Baggio. Ce ne vuoi parlare?
Tatiana ed io abbiamo deciso di trasferirci a Baggio perché lei aveva trovato lavoro lì in una piccola scuola di quartiere. Io sono cresciuto più in centro, ma piano piano mi sono innamorato di quel piccolo borgo, vicino al Parco delle Cave che è una specie di miracolo. Baggio è proprio un luogo a sé, distaccato dalla città: ha la caratteristica di essere collegato a Milano da Via Forze Armate che è una specie di cordone ombelicale con una caserma in mezzo, che funge da spartiacque tra due mondi. Ancora oggi i ragazzi di Baggio dicono: «sabato andiamo a Milano» per cui andare in Conservatorio o alla Scala a sentire dei concerti è psicologicamente un luogo dello spirito molto lontano. Abbiamo deciso di portarglieli noi.

Con un gran successo, mi sembra.
I primi anni abbiamo suonato noi, poi in quartiere l’iniziativa ha avuto successo e tutte le associazioni di zona si sono riunite intorno al nostro appuntamento: per cui, ad esempio, oggi prima dei concerti ci sono gli aperitivi sul sagrato in cui ci si ritrova, si chiacchiera. La piccola stagione è diventata un’occasione di festa e condivisione.

Riuscite a destreggiarvi tra organizzazione, impegni dei musicisti, permessi?
Ho tanti amici che sono venuti a suonare volentieri come Enrico Intra, Cristina Zavalloni, Ingrid Fliter, Carlo Goldstein, Anton Dressler per cui si è creato un bel giro. Quest’anno, per la prima volta, inauguriamo la stagione con un pezzo per orchestra scritto apposta per noi da Delucchi, per cui è diventato anche un centro di mini produzione. E poi suonano tantissimi ragazzi, è davvero una festa generalizzata. L’aspetto organizzativo non è facilissimo, ma è bello portare avanti questi progetti. Inoltre adesso abbiamo un po’ di interfaccia col comune perché Filippo del Corno si è innamorato di questo progetto, gli ultimi anni è venuto sempre al concerto inaugurale e tra l’altro ha scoperto Baggio, la Chiesa Vecchia, che custodisce il famoso organo di Baggio, per cui ci dà una mano.

Hai studiato al Conservatorio di Milano. Quali sono stati i docenti o le persone che ti hanno trasmesso di più?
Credo di essere un miracolato perché qui a Milano ho avuto la migliore educazione possibile: da un lato con Edda Ponti, insegnante di pianoforte, preparatrice atletica straordinaria; dall’altro, ero a contatto con tutte le interferenze più artistiche possibili e immaginabili, avendo fatto composizione con Irlando Danieli, personaggio lunare e straordinario. Ho avuto quindi la quadratura della scuola più pragmatica e il mondo costantemente proiettato al sogno di Irlando. Ad esempio, ho iniziato composizione che avevo solo 11 anni e Irlando, per farmi appassionare, mi parlava del pianeta dei compositori, il pianeta Piripacchio. Il mio primo pezzo l’ho scritto pensando a quel pianeta.

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Ti ha consigliato qualcuno nella scelta degli insegnanti?
Facevo teoria e solfeggio con la Demetz – chiunque abbia studiato in Conservatorio la conosce. Non posso fare altro che ringraziarla perché abitava di fianco a casa nostra ed è grazie a lei che ho iniziato tutto. Mi ha conosciuto e mi ha portato subito dalla Ponti, poi da Irlando Danieli. Finito questo percorso sono andato a studiare in paradiso, sul lago di Como alla International Piano Foundation di Cadenabbia, che in quegli anni era praticamente un’utopia – infatti è finita molto in fretta. Ho studiato con Naborè, Schnabel, Fleisher, Bashkirov, con la Tureck ho affrontato tutto il repertorio barocco, ho conosciuto Argerich, Perahia, Weissenberg e molti altri.

E cosa cerchi di trasmettere ai tuoi studenti?
Mi viene da dire che ho avuto la fortuna di prendere una scatola piena di semi – che mi sono stati passati dai miei “genitori musicali” – e ora di consegnarla ai miei studenti. È una cosa molto bella. Adesso ho una classe di ragazzi straordinari, a Piacenza, ma devo dire che ho sempre avuto belle classi. Come allievi, ad esempio, si è preparato con me Luca Buratto che adesso ha vinto Honens. Fanno tutti delle cose speciali: Delucchi è una persona fantastica, Alberto Chines altrettanto, tra l’altro adesso ha aperto un festival a Ustica! Penso che insegnare la musica sia bello e importante, ma anche insegnare ad avere un progetto, a seguire una follia come quella di Alberto a Ustica. Baggio è da dilettanti a confronto, anche solo far arrivare un pianoforte a Ustica mi sembra un’impresa!

Il leitmotiv di questi ultimi anni è che la musica non interessa più. Cosa ne pensi?
Penso che il sistema siamo noi: continuare a lamentarsi che il sistema non funziona è una scusa per essere passivi. Che il panorama generale non sia più quello di prima è un dato di fatto, continuare a lamentarsi, però, è poco sensato. Sono le modalità che sono cambiate: è cambiato il rapporto con l’autorità, con i genitori, con la scuola, ed è cambiata la velocità dell’ascolto, adesso siamo rapidissimi, c’è Spotify, Youtube… Rispettando il linguaggio che usiamo, senza stravolgerlo, c’è un modo per continuare: il messaggio comunicato da questo linguaggio – un po’ diverso dagli altri – è un messaggio universale, arriva sempre. Dobbiamo farlo noi, lo devono fare i giovani!

A Baggio suoniamo tantissima musica contemporanea, tante produzioni nostre, non facciamo percorsi semplicissimi, però sono molto variegati: li spieghiamo e la gente è entusiasta

Secondo te in che modo?
Si è proposto di suonare in jeans per avvicinare il pubblico. Si pensa che Allievi aiuti la musica classica. Non è vero. Questi sono palliativi e modi per sveicolare. L’unico modo per portare avanti la musica è essere persone ricche di cultura, di umanità, di spirito e per fare questo è necessario un lavoro enorme, su se stessi, sul proprio gruppo, sugli altri… Costantemente. Quando però si ha qualcosa da dare, la gente diventa come un campo di girasoli, ti segue. Noi a Baggio non facciamo nulla di particolare, eppure c’è un gran riscontro. All’interno di un programma variamo molto, eseguiamo pezzi per pianoforte, pianoforte a quattro mani, cantanti, quartetti. Suoniamo tantissima musica contemporanea, tante produzioni nostre. Non facciamo percorsi semplicissimi, però sono molto variegati, li spieghiamo e la gente è entusiasta. Conosco tanti abitanti del quartiere che senza avere conoscenze musicali si sono avvicinati a questo mondo e hanno comprato dischi. Sono piccoli semi, però a poco a poco si può creare un sistema diverso.

Hai parlato dei programmi della stagione di Baggio che sono molto vari e sfaccettati. Tu stesso lo sei e il tuo repertorio è vastissimo. È una scelta? C’è un compositore che senti più affine?
La mia carriera è stata un po’ peculiare: ho avuto un inizio molto rapido e poi un’evoluzione diesel rispetto ad altri. Ho la fortuna di poter dire che ogni anno ho aggiunto qualcosa, è una lievitazione molto lenta però costante. Non ho quindi avuto modo di settorializzarmi, il repertorio mi interessa tutto e sto attentissimo alla produzione di oggi. Se esce un pezzo nuovo mi preoccupo di studiarlo o di farlo studiare ai ragazzi. Di compositori che amo ce ne sono tanti. Ultimamente, visto tutto il lavoro che sto facendo sulle sonate di Beethoven, mi viene da indicare lui come figura più affine.

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Com’è il tuo rapporto con i Pomeriggi?
Coi Pomeriggi ho fatto tanto. Devo dire che mi sento sempre a casa quando suono nelle orchestre milanesi: ho tanti amici in Scala, alla Verdi, ai Pomeriggi, appunto. Ad esempio nell’orchestra dei Pomeriggi suona Igor Riva che era il mio violinista di quando ero ragazzino. Poi adesso c’è Maurizio Salerno, anche lui un figlio del Conservatorio, ci conosciamo da sempre e abbiamo un bellissimo rapporto. Mi sento in una dimensione quasi protetta per cui posso sperimentare tante prime volte, cosa che fuori faccio meno. In questa stagione, ad esempio, suono per la prima volta il Concerto per pianoforte, tromba e archi n. 1 in do minore di Sǒstakovič, che avevo studiato da ragazzo ma non ho mai avuto l’occasione di suonarlo.

È molto eclettico anche questo pezzo, ricco di citazioni, che passa da momenti ironici a quelli più seri…
Sǒstakovič è tra i compositori che più amo, un po’ per la mia storia – il concerto che ho suonato per la Rai era il secondo di Sǒstakovič – un po’ per una caratteristica che in questo concerto è particolarmente evidente, ovvero il rapporto quasi prometeico con la materia. Mi spiego: questo nasce come pezzo per tromba con pianoforte concertante. Non funzionava, allora Sǒstakovič ha iniziato a modificarlo, ha tolto i fiati, ha lasciato solamente gli archi e tutto questo lavoro si percepisce. Inoltre la forma è tutta particolare: se il primo movimento è ancora riconoscibile, dalla fantasia, che è una specie di introduzione al quarto movimento, è totalmente squilibrato, c’è un lungo pezzo per tromba, poi per pianoforte solo, infine i due strumenti si trovano dopo una cadenza totalmente sopra le righe. È un brano che ha momenti iper divertenti, quando ancora Sǒstakovič era giovane e aveva buon umore, momenti con vera energia e vera carica, momenti di una bellezza totale, come il secondo tempo. Solo lui riesce a creare quella sensazione per cui sembra di pattinare su uno strato di ghiaccio sottilissimo, sembra di essere sempre sul bordo dell’abisso.

https://www.youtube.com/watch?v=NGHDrSjTquU

In questa stagione parteciperai anche alla rassegna “Le Domeniche dei Pomeriggi”…
L’invito del Maestro Salerno a suonare un concerto di musica da camera con le prime parti dei Pomeriggi mi ha fatto particolarmente piacere per molte ragioni. La prima è che suonare Schubert e La Trota è sempre speciale. La seconda è che, come detto prima, fra i musicisti che incontrerò ci sono tanti vecchi amici, e sarà come essere in famiglia. La terza è che suonare con l’orchestra è come fare una musica da camera allargata, con la differenza che qui avremo più tempo per parlare, confrontarci, e io di imparare. Un altro motivo che rende quella data speciale è che suonerò, prima de La Trota, una suite di Ländler di Schubert compilata dal mio maestro Karl Ulrich Schnabel, pubblicata anni fa da Edizioni Curci e credo mai suonata in questa forma. Una matinee piena di cuore!

Ti chiedo una curiosità: tu e tua moglie siete entrambi pianisti, quindi immagino abbiate due pianoforti in casa? Come vi destreggiate con lo studio?
Si abbiamo due pianoforti: un vericale silent e uno steinway coda… secondo voi io quale suono sempre!?!?