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Raniero Pizza

Roma e la musica dal vivo dagli anni 90 a oggi, l'esperienza del Circolo degli Artisti, la nascita del progetto Ausgang e la realizzazione di uno spazio in continuo divenire come il Monk: lunga intervista al suo direttore artistico, Raniero Pizza.

Geschrieben von Chiara Colli il 3 März 2016
Aggiornato il 23 Januar 2017

Il live dei Chk Chk Chk è quasi giunto alla fine, sono in fondo alla sala del Monk quando sento una mano picchiettarmi le spalle e una voce che fa «Lo vedi Nic Offer? Ho provato a informarmi se può tornare qui quest’estate, per tenere un corso di aerobica. Sai, per quella storia del circolo sportivo che ti dicevo…». Il circolo sportivo, in una realtà non troppo distante da quella attuale, sarebbe il Monk, ma la metafora vi risulterà di più facile interpretazione solo dopo aver letto le righe che seguono (sulla capacità di tenere un corso di aerobica da parte del frontman dei Chk Chk Chk, invece, non avrete alcun dubbio se li avete visti almeno una volta dal vivo). La voce, era quella di Raniero Pizza. Romano, classe 1974, oggi è direttore artistico dello spazio in zona Tiburtina, la gloriosa ex Palma, dopo essere stato per circa dieci anni quello del Circolo degli Artisti, club chiuso ormai da un anno che ha segnato non poco la vita musicale della capitale dalla sua nascita (1989) e per tutti i Duemila.
Dopo oltre un anno di rodaggio e con la bella stagione in arrivo, il Monk si appresta a essere uno dei riferimenti per le attività culturali in città – senza contare i festival in arrivo, tra cui Manifesto ad aprile e l’anteprima del Rome Psych Fest a maggio.
Occasione per riavvolgere il nastro e parlare con Raniero di cosa succedeva a Roma tra anni Novanta e Duemila, dell’esperienza (e della rottura) con il Circolo degli Artisti, della nascita del progetto Ausgang e poi soprattutto di quella del Monk, con tutti i suoi obiettivi neanche troppo utopici. Se a Roma abbiamo visto un bel po‘ di concerti negli ultimi quindici anni, inutile girarci attorno, lo dobbiamo anche a lui.

Estate al Monk
Estate al Monk

ZERO: Andiamo con ordine: quando e come hai iniziato ad appassionarti di musica? Ti ricordi i primi dischi che hai comprato, i concerti e i club di Roma che frequentavi?

RANIERO PIZZA: Ho iniziato intorno ai 14 anni, con l’hip hop. Era la seconda metà degli anni 80, vestivo con i pantaloni a bracaloni e amavo tutto ciò che era „nero“: i film e la musica dell’epoca, quella del Wu-Tang Clan e di Snoop Dogg fino alla scena East Coast, ma seguivo anche l’ r’n’b… Ero assolutamente stregato dal culto della musica black. I primissimi dischi che ho ascoltato erano quelli jazz di mio padre, sopravvissuti ai vari traslochi… E in particolare ricordo la musica di Thelonious Monk. Poi, a un certo punto, cominciai a frequentare Disfunzioni Musicali: in realtà venivo da Ostia, quindi mi facevo delle grandi traversate per andare fino a San Lorenzo, dove comprai alcuni degli album più belli che uscivano in quegli anni grazie a Sebastiano Ruocco, meglio noto come Ice One, che allora lavorava anche da Disfunzioni e che peraltro era di Ostia come me. I 70 chilometri a/r che dovevo fare per andare a sentire dal vivo questi bruttoni neri che urlavano nel microfono furono inevitabilmente fonte di grandi litigate con i miei genitori: da Body Count ai Naughty By Nature, gli artisti internazionali a Roma si vedevano più nei club – frequentavo l’Horus Club di Corso Sempione, il Palladium alla Garbatella, poi il Tendastrisce e il Palaghiaccio di Marino. Tra la fine degli anni 80 e l’inizio dei 90 erano molto attivi anche i centri sociali, ma davano spazio soprattutto agli artisti italiani, anche perché c’era una florida scena hip hop – Assalti Frontali, Sangue Misto, Colle Del Fomento. Frequentavo un gruppo di amici con cui scambiavamo i dischi o li compravamo dividendo la spesa, li ascoltavamo insieme nel week end e presto si cominciò a giocare con i mixer. Poi arrivò la fissa di cimentarci come dj, cosa che feci anche io per un po’ in alcuni locali improbabili del litorale di cui non ricordo neanche più i nomi… Ho sempre detto che avrei ricominciato a 40 anni, adesso che li ho superati da uno passare alla consolle e ai suoi ritmi più rilassanti, rispetto all’organizzare concerti, è tra i buoni propositi del futuro.

Come hai cominciato a organizzare concerti e come sei arrivato a diventare direttore artistico del Circolo degli Artisti?
Iniziò tutto per gioco, ero uno studente universitario piuttosto sfacciato e per una serie di triangolazioni mi ritrovai a organizzare delle serate, si trattava della metà degli anni 90 e con degli amici con cui eravamo soci di un’associazione avevamo vinto un bando, quindi unimmo le forze per quella che era la versione nascente di Marte Live. Erano anni di fermento universitario, io in realtà ero iscritto alla Sapienza ma frequentavo Roma Tre e le prime feste che organizzammo erano proprio al Circolo degli Artisti, quando si trovava dietro Piazza Vittorio, dove rimase fino al 1998, per poi trasferirsi dopo non molto tempo in via Casilina Vecchia. Ai tempi di quella prima sede era già, decisamente, uno dei locali di riferimento per la musica dal vivo a Roma, ma anche per le serate: ci lavoravano persone ancora oggi molto attive come Roberto Corsi e ci facevano i Torretta Luciano e Corrado (in arte Luzy-L e Corry-X, NdR), ma anche serate reggae. Poi quello spazio fu ripreso dal Comune e il Circolo si dovette trasferire altrove, nella fattispecie in una struttura di via Casilina Vecchia che, non solo era da rimettere a nuovo, ma inizialmente non era neanche segnalata sui giornali – tanto che i primi tempi non sapevo neanche che il locale fosse tornato attivo. Mi appassionai a questo mondo e decisi di fare un salto nel vuoto, di mettermi in gioco e lavorare in una grande struttura che aveva un grande passato ma in quel momento era totalmente fuori dal giro. Il mio impegno al nuovo Circolo degli Artisti cominciò come tutto fare, anche perché eravamo in pochi – catering, richieste tecniche, promozione, flyer, calendario degli eventi o ettere a posto il locale. Per lungo tempo l’appellativo di direttore artistico non è stato quello più aderente alla realtà.

Ti ricordi dei concerti o dei momenti che sono stati “di svolta” nella fase iniziale del Circolo degli Artisti in via Casilina Vecchia?
Quelli fondamentali che ricordo – anche perché ormai per me si tratta di due vite fa, se non tre – sono un paio del 2004. Il concerto di Giorgio Canali, un musicista che stimavo molto per il suo passato con CSI e CCCP e per la sua attitudine punk assolutamente fuori dagli schemi, che aveva appena pubblicato Giorgio Canali & Rossofuoco.

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Fu un evento che riuscì alla stragrande e ci diede fiducia per andare avanti. Un altro momento importante di quel periodo fu la collaborazione con Enzimi, in particolare un concerto in cui suonarono Mike Patton insieme a Rahzel dei The Roots ed Emiliano Paoletti, che era un po’ il porta bandiera del progetto. Fu una serata rimasta negli annali della musica live a Roma anche perchè si sfiorò la rissa: uno del pubblico ebbe un’uscita infelice durante il live nei confronti di Patton, senza sapere che lui capiva l’italiano… Dal palco, Patton gli rispose per le rime appellandolo “romanello di merda” e minacciando di andarlo a prendere in sala.

Per quanto riguarda la musica dal vivo a Roma, oggi si stanno lentamente creando dei nuovi equilibri, dopo una recente fase di stallo: a parte lo zoccolo duro degli Arci al Pigneto, con il Monk siete alla prima stagione di assestamento, i ragazzi di Unplugged In Monti stanno diventando un riferimento con dei format sempre più definiti, e poi ci sono Quirinetta, Traffic e Init che contribuiscono a offrire spazi per la musica live sul territorio, seppur con un’identità, a mio parere, meno definita degli altri club/realtà. Nella parte centrale dei Duemila il Circolo degli Artisti è stato snodo fondamentale della scena romana, e in particolare per quella indie. Ti ricordi delle fasi, delle epoche d’oro per la musica live in città?
Intanto credo vadano ricordati, magari per la prima parte dei Duemila, anche spazi come il Classico Village – che per un po’ di anni fece dei super concerti – e uno più piccolo ma comunque importante come gli Ex Magazzini, entrambi in zona Ostiense. Relativamente al periodo a cui fai riferimento le cose nacquero un po’ da sole: era un momento storico un po’ particolare, credo che ogni 5/6 anni si avverta in maniera fisiologica un ricambio generazionale, sia di posti sia di organizzatori. Quando arrivai al Circolo, a Roma c’erano tanti spazi che facevano concerti, dai centri sociali ai locali, poi piano piano la scena cominciò ad assottigliarsi. Parallelamente, dal punto di vista specificatamente musicale, stava emergendo una scena italiana – una nuova forma di pop, piuttosto che di rock, come mi è capitato di leggere recentemente su Rockit – che andava espandendosi, con Dente, Vasco Brondi, Marta Sui Tubi. E poi c’era l’invasione inglese, tutto quello che usciva dall’Inghilterra sembrava più interessante di quello che arrivava dall’America, c’era un’appartenenza a una scena, con una moda e un look molto forte, tanto che ancora oggi una serata come Cool Britannia si rifà a quel periodo storico. Fu una fase in cui a Roma passarono parecchi di quegli artisti, c’era un interesse spasmodico che culminava in frequenti sold out.

Hai citato la british invasion dei Duemila e quindi mi viene spontaneo citare quello che è stato un vero e proprio fenomeno a Roma, legato all’esperienza del Circolo degli Artisti: l’appuntamento della discoteca rock del sabato con Screamadelica.
Screamadelica era una serata che esisteva già dalla fine dei 90, primi Duemila agli Ex-Magazzini, ideata da Fabio Luzietti e Andrea Esu e legata a Radio Città Futura. A un certo punto si era arenata e fu ripresa al Circolo proprio nel periodo in cui si facevano tanti concerti e si voleva fare una serata nel weekend di ambientazione rock. Era il periodo della nuova invasione britannica, c’era tanta attenzione ai suoni inglesi e con Fabio, con cui c’era un ottimo rapporto, si decise di riprendere questo appuntamento e riportarlo in auge. Poi, piano piano nel tempo, divenne il successo che fu. Oggi, se azzecchi comunicazione, timing e location è molto più facile avere successo; all’epoca, invece, ci voleva più tempo affinché i progetti crescessero: creare una serata significava metterci anima e cuore per un certo periodo e farla crescere piano piano. L’esperimento di Screamadelica fu pienamente riuscito e andò oltre la più rosea previsione.

Andare a un concerto è quasi diventato come dire «Andiamo a teatro»… Roba che, se non è un artista che uno conosce molto bene, suona come l’anticamera del mal di testa soltanto a dirlo.

Roma e la musica dal vivo oggi e due/tre lustri fa: trova le differenze.
Tu immagina che l’inizio dei Duemila erano i primi anni dell’Auditorium, gran parte di quello che c’è oggi allora non c’era, la città è cambiata radicalmente. All’epoca tirare su un posto, un club, che facesse una programmazione di un certo tipo, con una linea guida – poi gli esempi sono vari a seconda delle dimensioni, allora c’erano ancora sia il Villaggio Globale che il Forte Prenestino molto attivi, quest’ultimo lo è ancora ma meno di un tempo – era difficile ma non un’idea impensabile. Oggi è più facile che qualcuno tiri su un bar o uno spazio dove si possa mangiare che un posto dove si faccia musica. È cambiato l’hype. E poi è inutile nasconderlo: con uno spazio per la musica dal vivo hai un sacco di rotture di cazzo che vengono da tanti fronti ed è molto più semplice andare nella direzione del mangia e bevi, che è molto modaiola. Poi ci sono realtà che erano sulla cresta dell’onda a quei tempi e lo sono ancora, pensa al Goa. Ma del resto il clubbing continua a farla da padrone, arriva con più immediatezza e riceve più attenzione. La mia generazione veniva da un periodo in cui si compravano i dischi, si andava ai concerti e si facevano trasferte, si facevano i numeri per acquistare i biglietti in prevendita; oggi credo sia anche un fatto generazionale: hai tutto a portata di mano, è tutto più semplice e non c’è più il gusto dell’avventura che c’era una volta. Il clubbing rispecchia anche questo, è più semplice e condivisibile in confronto a un live, che è quasi diventato come dire «Andiamo a teatro»… Roba che, se non è un artista che uno conosce molto bene, suona come l’anticamera del mal di testa solo a dirlo, soprattutto in un paese come il nostro in cui le persone che ascoltano più generi non sono poi così tante – nel senso che molti si sentono quel numero ristretto di musicisti e la curiosità di andare a vedere dal vivo qualcosa di nuovo è fondamentalmente poca. Un disco è una cosa e un live è un’altra, sono due modi differenti di conoscere un artista e di usufruire di una possibilità di “godimento sensoriale”. Io resto legato al concetto per cui andare in un posto vuol dire fare un’esperienza e condividerla con altre persone – dalla fila al banchetto del merch alla birra presa con un amico – e sicuramente rimango più legato a questa dimensione. Ma perché ci sono cresciuto.

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Nello specifico trovo che non sia solo più difficile organizzare concerti e serate rispetto al passato, ma in particolare portare avanti un club, quindi uno spazio fisso con una programmazione mensile costante.
Al di là di un effetto Auditorium, dove è tutto comodo e istituzionalizzato, dalle altre parti te la devi faticare per organizzare un club – e credo che anche per questo molte serate di clubbing che funzionano siano itineranti, altra differenza sostanziale rispetto al passato. In questo modo non si fa annoiare chi segue le serate, dando visioni sempre diverse; fare 20 serate al mese in uno stesso spazio oggi non è uno scherzo, devi differenziare di molto la programmazione – a meno che non sei un piccolo club, e questo allora ti consente di avere una riconoscibilità musicale chiara, in base a cui si costruisce anche la propria reputazione. Con strutture più grandi, ma comunque sempre sotto le mille persone, tenere una linea artistica che abbia un filo conduttore ma si differenzi nei generi significa anche fare i conti con i tour degli artisti internazionali. Bisogna ricordarsi che Roma geograficamente non è molto facilitata – da noi c’è poco mercato, pochi festival, quindi diventa tutto poco interessante… Al di là di farsi un giro per la città e una foto al Colosseo, che credo sia lo scatto più gettonato di sempre da parte dei gruppi quando passano per la capitale.

«Arrivederci Roma, pizza for ever!», anche i Föllakzoid cedono alla tentazione di una foto davanti al Colosseo
«Arrivederci Roma, pizza for ever!», anche i Föllakzoid cedono alla tentazione di una foto davanti al Colosseo

Riprendendo il filo cronologico del discorso, nel settembre del 2011 nasce Ausgang, nuovo progetto ideato insieme a Lorenzo De Angelis, che del Circolo degli Artisti era il responsabile di produzione, e altre persone con cui avevate condiviso l’esperienza in via Casilina Vecchia. L’utilizzo di un tempo passato è d’obbligo perché la nascita di Ausgang è legata alla fine del rapporto col Circolo. Cosa era successo?
Dopo quasi dieci anni di rapporti eravamo arrivati a un punto in cui noi e la proprietà del Circolo non eravamo più in linea sui percorsi da seguire. Per noi quel posto doveva diventare sempre di più una Factory, doveva investire sempre di più in proprie produzioni – tra cui ci fu l’esempio della web tv Soluzioni Semplici – ma c’era anche l’idea di fare dei festival itineranti, delle residenze, di investire anche a livello di produzioni discografiche… Invece dall’altra parte si voleva andare in tutt’altra direzione, quindi dopo un po’, tirando la corda… Si sono separati i Beatles, figurati se non ci potevamo separare noi all’interno del gruppo che all’epoca organizzava l’attività del Circolo. L’unico rimpianto è stato che la separazione è stata un po’ traumatica, poteva essere fatto tutto molto più tranquillamente, siamo stati messi un po’ con le spalle al muro e quindi come reazione immediata e di cuore abbiamo creato dal nulla, nel giro di 20 giorni, una nuova entità, una nuova società chiamata Ausgang, che oggi non gestisce direttamente il Monk ma ci collabora per la parte che concerne la programmazione. Questo nome uscì fuori perché nel periodo in cui fu ufficializzata la separazione io ero a Berlino, quindi mi vedevo questa parola tutte le volte che scendevo da un treno… Un termine che si sposava con il senso di fuoriuscita e con la volontà di portare la musica in giro per la città, al contrario di come avevamo fatto fino ad allora – plurale doveroso perché il gruppo è costituito da me e Lorenzo ma anche Yuri Toccacelli, Simona Colombi e Marco Leonetti. E quindi portare in giro quel concetto che partì da subito con delle collaborazioni in estivo con Villa Ada.

Siamo stati messi un po’ con le spalle al muro e quindi come reazione immediata e di cuore abbiamo creato dal nulla, nel giro di 20 giorni, una nuova entità, una nuova società chiamata Ausgang

Ausgang nasce come rassegna itinerante ed è stata per due/tre anni una realtà che si è estesa e irrobustita piuttosto rapidamente, partendo con gli italiani e superando progressivamente la difficoltà iniziale di essere recepita, dall’esterno, in quanto struttura ma senza residenza fissa. Per citarti, siamo non più a tre ma forse a una vita fa, quali sono stati i tratti caratteristici più significativi di questo “nuovo corso”?
L’esperienza è nata come una reazione all’istante e poi si è trasformata in una sorta di ragnatela, perché nel giro di due stagioni abbiamo toccato dall’Auditorium ai centri sociali, dal Palladium a Garbatella a club che non facevano più molti concerti come il Blackout, ma anche altri di dimensioni più ampie come l’Atlantico e il Piper; ci fu poi un esperimento di residenza non molto riuscito alla Locanda Atlantide che durò qualche mese, fummo i primi a fare concerti infrasettimanali al Lanificio e in estivo ci furono l’esperienza di Supersantos a San Lorenzo – che fu una bellissima avventura, anche se durò solo una stagione – e alla Città dell’Altraeconomia.

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Abbiamo toccato un po’ tutti i posti dove a Roma si potevano fare concerti e in termini di esperienza è stata impegnativa perché abbiamo dovuto ricominciare una seconda volta, ma anche formativa, in quanto ci siamo trovati a monitorare cosa succedeva in città e nei posti che frequentavamo e ci ha imposto di rivedere tutti i nostri progetti nel giro di pochi mesi e dargli una sterzata netta. Un’esperienza che esiste tutt’ora, perché durante l’anno continuiamo – anche se in maniera più oculata – a fare almeno 5/6 produzioni in giro per la città. È stata un’esperienza che ci ha abbastanza segnati, che ci ha arricchiti enormemente dal punto di vista umano. Siamo partiti da zero, con molta voglia di rinascere e molta rabbia, sapevamo fin dal primo giorno che si trattava di una scelta non solo lavorativa ma anche di vita. E che la bravura di qualcuno si vede quando finisce la partita, se si è in grado di rialzarsi dal tappeto e continuare e dire la propria. Devo dire che siamo molto fieri di esserci ripresi da un bel ko. E questo ci ha portati a fare l’ennesimo cambio di rotta con la nascita del Monk.

E dunque arriviamo alla vita presente, il Monk. Lo spazio è quello appartenuto, un tempo, alla mitica Palma, riferimento per la musica dal vivo a Roma e in particolare per il jazz. Per certi versi sembra un “film già visto”: uno spazio che suppongo tu abbia frequentato in passato e che ti sei ritrovato, insieme ad altri, a rinnovare.
È un po’ parte del nostro destino rigenerare posti che hanno avuto un passato glorioso, è successo con il Circolo degli Artisti e lo stiamo rifacendo con quella che era l’ex Palma. Ricordo di aver visto qui concerti jazz pazzeschi e poi, visto che la Palma è stato per alcuni anni un punto di riferimento della scena romana e nazionale, molte persone che conosco e stimo lavorativamente sono passate da queste parti. Penso a DNA Concerti ma anche a Hup Concerti, con Lady Maru e altri, che facevano cose un po’ più di nicchia. Tutti i club hanno delle parabole che salgono e scendono e il periodo più delicato è quando ci si deve rinnovare, perché non è detto che i format, che quello che si è proposto funzioni all’infinito. Ho sempre pensato che i cambiamenti vadano fatti nei momenti in cui le cose vanno bene, non nella parabola discendente, perché quando le cose vanno bene è più facile che prendano forma e che le persone rispondano. Quando un posto è in una parabola discendente deve farsela tutta. Ma è una storia che riguarda tutti i club, non solo quelli romani.

È un po’ parte del nostro destino rigenerare posti che hanno avuto un passato glorioso, è successo con il Circolo degli Artisti e lo stiamo rifacendo con quella che era l’ex Palma.

Monk è un progetto nato da un’idea di Ausgang in collaborazione con Minimum Fax e apre nel luglio del 2014. Quali erano le coordinate iniziali?
Nel periodo di Ausgang, parallelamente c’era la volontà di trovare una residenza e continuare a fare progetti anche esterni. Immaginavamo un posto più a misura d’uomo rispetto alle dimensioni del Monk, poi quando è capitata la possibilità, anche in maniera piuttosto repentina, sapevamo che sarebbe stato un viaggio – riprendere un posto che era stato lasciato in totale abbandono per 8 anni e divenuto ormai una discarica a cielo aperto, ristrutturarlo completamente e poi iniziare la vera a propria attività.

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Per un anno è stato un cantiere e ci siamo occupati di tutto noi. Per un anno, più che quello del direttore artistico il mio ruolo è stato di direttore di cantiere. Il posto però ci piaceva, aveva delle potenzialità, soprattutto per quello che avevamo in testa: creare uno spazio che non fosse soltanto un live club, ma anche un posto aperto a tutti, dove si può venire con la famiglia, dove si possono fare dei corsi di formazione – sia nella musica che in altri ambiti – dove sei in mezzo al verde. Qua sembra di stare quasi in un agriturismo e non al Tiburtino, oltretutto siamo in una zona che per anni è stata abbandonata e stiamo continuando a fare un’opera di riqualificazione notevole su questo quadrante di Roma. Quindi l’idea di un posto che non deve essere legato a dei cliché o a una programmazione stantia – quest’anno ci siamo spinti avanti, riprendendo in mano l’attenzione al jazz, con la rassegna Jazz Evidence, che con la Palma ha avuto un passato importante; stiamo cercando di fare una programmazione, per quello che ci riesce, il più interessante e variegata possibile. Fin dall’inizio, la volontà è stata di essere un posto ricettivo verso le realtà romane e non solo, che desse spazio e possibilità di fare le cose. Perché poi, uno dei problemi di questa città, è che ci sono tante persone che vogliono fare cose: in ambito musicale, teatrale, cinematografico e artistico di qualsiasi tipo. Ma la realtà è che mancano gli spazi, i contenitori, le strutture che siano ricettive e che vogliano costruire qualcosa insieme agli altri… Perché quando metti più persone a tavolino è molto fico ma anche molto più difficile.

Il Monk prima della cura (artwork di Hello this is Kae)
Il Monk prima della cura (artwork di Hello this is Kae)

Fin dall’inizio, la volontà è stata di essere un posto ricettivo verso le realtà romane e non solo, che desse spazio e possibilità di fare le cose.

«L’associazione Arci C’mon nasce per sostenere il protagonismo di chiunque intenda promuovere, ideare, partecipare a esperienze artistiche e ricreative». Si legge così sul sito del Monk e quella della partecipazione è un’idea effettivamente in controtendenza. Quali credi siano i punti di forza di un simile approccio?
Quella di una progettualità partecipata su questo posto è in un certo senso una nostra missione. Con me lavorano altre persone che portano il proprio contenuto e l’idea è quella di uscire dallo stereotipo delle programmazioni fatte chiusi dentro uno studiolo, solo in base a quello che offre il mercato. La collaborazione della scorsa estate con i ragazzi di Unplugged In Monti, ad esempio, è nata su un filone artistico in maniera spontanea e penso che questa cosa sia in un certo senso strategica: se su Roma si fa rete, se le realtà che hanno confini sottili tra di loro si uniscono e in alcuni ambiti collaborano – per un periodo, una serata, un festival, degli appuntamenti durante l’anno – è utile a tutti nell’ottica di una crescita della scena romana. Scena, peraltro, musicalmente molto florida, come non lo era da tempo. Basta vedere gli ultimi esempi, da I Cani a Calcutta, e poi Adriano Viterbini e i Bud Spencer Blues Explosion, Thegiornalisti e Boxerin Club. Credo che mai, come adesso, ci siano i riflettori puntati su ciò che esce da Roma da questo punto di vista.

Nello specifico, quali sono le realtà con cui avete collaborato e state collaborando?
Ci sono realtà che lavorano nel campo musicale, come il Saint Louis con cui facciamo una serata al mese, Radio Città Aperta, con cui organizziamo spesso serate e Unplugged In Monti. Ma quello che mi sarebbe sempre piaciuto vedere negli spazi pubblici è la contaminazione di esperienze cittadine variegate – chi più professionale e chi meno – quindi anche il nostro modo di fare rete non si limita all’ambito musicale. Ci sono le attività dedicate ai bambini con Il Giardino di Lulù, le rassegne di cinema asiatico insieme a Yalla Shebab Film Festival e Karawan Fest, a cui si aggiunge l’idea di fare dei cine concerti come abbiamo fatto con Asian Dub Foundation, e come faremo con i Mùm in un certo senso con C’Mon Tigre. C’è la collaborazione con Dude per un workshop in arrivo a marzo, e poi quelle con Clockwork Pictures, per la mostra di poster art residente al Monk, Zero Video, Lahar Magazine, Inklist, La Scienza Coatta, Parione9 Art Gallery, Studio Pilar, Gorilla Sapiens Edizioni. E poi ci sono i corsi, quello di djing con DJ Whitetrash e Giorgia Lee, quelli di fotografia, erboristeria, yoga e di swing con Saint Louis. Aggiungo che, in un certo senso, anche gli esperimenti della rassegna Jazz Evidence sono nati come delle collaborazioni, come delle jam session dal vivo tra alcuni musicisti e dei guest, da Roberto Gatto a Enrico Pieranunzi, che nel loro settore sono dei giganti. E poi ci sono Sporco Impossibile e/o Bomba Dischi – visto che alla fine molte delle persone combaciano tra i vari progetti: ci si conosce tutti e ci si tiene aggiornati su quello che succede. Non l’ho mai vista e non la vedo adesso come una questione di faide tra organizzatori, il momento di scambio tra persone che fanno queste attività è importante per darsi dei feedback su quello che è l’andamento della stagione e dei progetti. L’idea è quella di creare, piano piano, contenuti unici e mischiare le carte con tutta una serie di addetti ai lavori o musicisti che si possono prestare a questo gioco.

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Escludendo eventuali faide tra organizzatori, quali sono i maggiori limiti per la musica dal vivo a Roma?
Qua a Roma credo sia, tra virgolette, un po’ più faticoso fare tutto, non solo in ambito musicale – se parli con qualcuno che ha una laurea in architettura, che viene dal DAMS o che ha velleità artistiche ti diranno tutti così. È molto più faticoso ma in primo luogo è la nostra città, quindi non abbiamo mai voluto rinunciare a portare avanti un progetto che magari, altrove, avrebbe avuto più fortuna. Dal punto di vista del pubblico Roma è sempre stata una città abbastanza rionale, cioè «Io seguo quella scena»; meno curiosità a vedere eventi, meno propensione per le prevendite, al contrario di Milano, che è una città più centrale, per i gruppi che ci passano ma anche come offerta e come spazi: lì hanno chiuso delle strutture ma ne hanno anche aperte di nuove – penso ad esempio al Fabrique, che esiste da pochi anni, o al nuovo progetto di Santeria, altra realtà consistente che ha iniziato quest’anno un nuovo progetto. Roma è una città complicata: dal punto di vista dei mezzi pubblici, della mobilità per cui non è facile spostarsi se non hai una macchina o un motorino, ci sono delle difficoltà reali. Poi ci si augura sempre che dall’alto arrivi una politica illuminata che faccia sì che i tanti spazi che ci sono funzionino e sempre meglio o che quelli non utilizzati si diano in affidamento a realtà giovani… Un po’ come è successo nelle altre capitali europee, in cui è più facile che se un posto è sfitto per due, tre anni venga dato a realtà che promuovono la cultura. Alla fin fine, è inutile nasconderlo, chi fa concerti e ha club sotto le mille persone è come se facesse documentari, non fa cinema da cassetta. Per seguire il parallelo, penso a una realtà super come il Kino, con cui abbiamo collaborato la scorsa estate, che credo abbia i muscoli e le capacità per poter crescere rispetto allo spazio che ha. Passare da uno spazio all’altro è sempre molto complicato: per me non è neanche necessario, penso all’esempio del festival – prendi l’Ypsig Rock, che nel tempo ha mantenuto le dimensioni più o meno iniziali. Ho sempre detto che questo lavoro rispecchia un po’ più il pugilato che il calcio, ognuno nella sua categoria può tirare fuori la cintura da campione.

Un pezzo di "crew" Ausgang: Lorenzo e Yuri
Un pezzo di „crew“ Ausgang: Lorenzo e Yuri

L’idea è quella di creare, piano piano, contenuti unici e mischiare le carte con tutta una serie di addetti ai lavori o musicisti che si possono prestare a questo gioco.

Ci sono stati degli errori in particolare che ti hanno insegnato qualcosa, che non rifaresti?
In ogni stagione ci sono sempre dei rimpianti legati a scelte non fatte o fatte nella maniera sbagliata, questo fa parte del gioco, dovendo prendere tante decisioni nell’arco di una stagione è normale che qualcuna non si azzecchi. Ma ti dico la verità, ormai me ne sono fatto una ragione, magari le analizzo di più ma con maggiore tranquillità. Mi viene un paragone sportivo, nel senso che durante una stagione qualsiasi atleta ha dei periodi in cui è più in forma e altri meno, fa parte del gioco, è normale che sia così. Dopo anni interpreto gli errori in maniera costruttiva: servono per testare i propri limiti, per capire dove si osa più del dovuto, sono quasi dei momenti di fuoripista che poi ti consentono di andare dritto con più sicurezza nel lavoro quotidiano. Sono anche necessari, ovviamente finché sono errori limitati che consentono un andamento economico decente della struttura, senza fare dei salti nel vuoto eccessivi. Nel mio lavoro mi do sempre dei limiti di budget, cerco di non superarli e di non fare operazioni che non possa supportare. Quindi quando sbaglio pago dazio in prima persona ma è tutto limitato a una fascia di rischio.

Agonismo nel giardino del Monk
Agonismo nel giardino del Monk

Ho sempre detto che questo lavoro rispecchia un po’ più il pugilato che il calcio: ognuno nella sua categoria può tirare fuori la cintura da campione.

Le ricorrenti metafore mi danno da pensare che sei un appassionato di sport.
Se non avessi fatto sport a livello agonistico non avrei mai fatto questa vita, l’esperienza che ho avuto con la pallanuoto e il tennis mi hanno formato, soprattutto dal punto di vista dell’allenamento costante e degli obiettivi da raggiungere. Quando gestisci uno spazio se non hai una luce dall’alto che ti dice «Ok lo stai facendo bene», normalmente molleresti.

Manifesto

Cosa c’è nel futuro del Monk?
Sono in arrivo alcuni festival, la prima edizione di Manifesto ad aprile, dedicato all’elettronica con focus sulla scena italiana; poi Mojo Station Blues Festival con una tre giorni dal 26 al 28 maggio e poi, sempre a maggio ma il 14, l’anteprima del Rome Psych Fest, anche qui prima edizione di un nuovo festival dedicato alla psichedelia che si terrà a inizio ottobre. L’idea per il futuro, tra le righe di quanto già detto e che un po’ già è concreta, è di un posto dove si faccia sì musica, ma che diventi piano piano sempre più teatro, cinema, punto di formazione e incontro per famiglie, dove ci siano sempre più attività durante il giorno. Per tornare alla nostra metafora ricorrente, è di portare il Monk in una visione un po’ più da circolo sportivo.