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Studio 54: meno Broadway, più Gabrio Serbelloni

Nicola Rotiroti racconta uno dei luoghi più eccentrici e colorati del quartiere.

quartiere Pigneto

Geschrieben von Riccardo Papacci il 7 Juni 2023
Aggiornato il 12 Juni 2023

Wohnort

Roma

Nicola Rotiroti apre il portone del mitico Studio 54. Una porta a vetri posta su via Gabrio Serbelloni. Il riferimento non è quindi soltanto alla discoteca newyorchese. Entrando troviamo Simone Tso, uno degli artisti di Studio 54, fumettista che non ha bisogno di presentazioni, e Lola Giffard-Bouvier, anch’essa artista, fondatrice di Beauroma e anche grafica di NERO, che stanno lavorando alle immagini di Short Theatre. C’è anche Annette, la simpatica cagnolina della madre di Nicola, che ci fa tante feste. Ci rechiamo nel loro accogliente giardino e incontriamo invece Micia, la loro gattina amorevole. Nel frattempo Nicola mi ha già chiesto due volte di fermarmi a pranzo lì da loro. Capirò nel corso dell’intervista che si tratta di una pratica frequente adottata dallo studio.

Inizierei col chiederti quando sei arrivato a Roma.

Nel 1998, quando iniziai a girare per bar. La mia carriera artistica romana nacque intorno a un bar dove uscirono musicisti come Cristicchi e Momo.

Però mi dicevi che hai fatto l’accademia, vero?

Sì, a Catanzaro. Una bella esperienza, che oltre a farmi conoscere tante persone poi diventate amici, ha instillato in me una certa attitudine “Nouveau Réalisme”. Come tanti miei compagni di accademia ereditammo un po’ la scuola di Mimmo Rotella, che era di Catanzaro, e, nientemeno, inaugurò quella scuola, che era alla fine un condominio sulla tangenziale con la faccia di Jimi Hendrix e una scritta: “Combatteremo fino all’ultima goccia di colore”. Considera che noi dormivamo lì, con la tenda…

Bellissimo. Era però un’accademia a tutti gli effetti…

Sì, ma era una sorta di squat, eravamo in novanta.

Ancora oggi è così?

No, quel condominio è stato quasi abbattuto. Hanno avuto uno spazio in centro, so che funziona molto bene anche oggi. Avevamo un direttore grandioso, Toni Ferro, purtroppo morto nel 2004. Si inventava di tutto, riusciva a trovare spazi incredibili per farci esporre.

Da Catanzaro non sei venuto direttamente a Roma però.

No, sono andato prima a Milano, dove ho fatto qualche danno, non riuscendo minimamente a integrarmi. Anzi, uso questo termine coloniale: incluso. Non sono stato incluso.

Questa però potrebbe essere stata anche la tua forza… Scherzo!

Grazie per questo sottile, ma profondo complimento. Quindi vengo a Roma, al Nabel per l’appunto, in cui comincio a lavorare e a collaborare anche con l’Extra, un altro locale simile che stava a Piramide. Poi è stato il momento del Granma, che era quel centro sociale che si trovava sopra al Rialto. Lì ci siamo inventati queste piccole rassegne d’arte che si chiamavano “Vrille”, un nome che evocava un po’ la vertigine. Posso dire quindi che Roma mi ha accolto. Collaboro tuttora con diverse gallerie. Questo per dire che per me il concetto di arte è tutto fondato sulla partecipazione. Se non c’è partecipazione, non c’è arte. Se non c’è realtà, non c’è arte. E viceversa. Da questo concetto di partecipazione credo – e non – che sia nato Studio 54.

Raccontaci la storia dello Studio.

Da Studio 54 ci arrivo dopo esser stato cacciato, assieme ad altri, da uno spazio che si trovava ai piedi della Caffarella, poi convertito in piccoli appartamenti. Successivamente sono rimasto un anno a dipingere dentro a una stanza. Poi, a un certo punto, Daniela e Monica prendono lo spazio dell’attuale Studio 54. Nel frattempo le cose vanno avanti, fino a quando ci resto solo io, e conosco Angelo, che è il proprietario di questo studio, una persona d’oro. Alla fine sono molte le cose che permettono la longevità di un posto.

È vero.

Rimasto solo, conosco Diego Tolomelli, che aveva uno studio a fianco. Lui si occupa di vetrate, fa vetrate erotiche e porno.

Genio…

Sì. Quindi gli propongo di dividerci lo spazio in cui mi trovavo, e piano piano sono cominciati ad arrivare diversi amici artisti, come ad esempio Simone Tso.

Grande Simone. Lui quando è entrato?

Intorno al 2013/2014. Poi Simone Montozzi, Tommaso Medugno, Luisa Montalto, Elio Castellano, Margherita Bianchini, Ilaria Cappellini… Insomma, al momento siamo sette, ma lo studio è stato abitato da tantissimi. Ci sono tante lune che orbitano attorno. La cosa bella è che tutte le persone che lo hanno abitato, quando sono andate via hanno trovato posti vicini. Tipo Francesca Grossi e Vera Maglioni, Daniele Spanò e il suo Ostudio, Marta Mancini, Arianna Bonamore, Daniele Villa…

Parlami di alcune tra le esperienze che ricordi con più piacere.

Anni fa, Claudio Gnessi del comitato di quartiere di Torpignattara, ci chiese se volevamo partecipare a una manifestazione che si sarebbe svolta a piazza della Marranella. Prendemmo un telone grandissimo per poi iniziare a dipingerci tutti, una cosa super freakettona. Dopodiché tagliammo il telone in piccoli pezzetti e li infilammo in delle piccole palline trasparenti. Lisetta di Bunka ci aveva fatto dono di una macchina che centrifugava le palline. Così andammo in giro per il quartiere e per un euro vendevamo queste piccole opere. Successe il casino, a cominciare dal fatto che le palline non si aprivano bene. La cosa fica è che invitammo le persone a unire i pezzetti – anche se era palesemente una cazzata, perché il quadro era super astratto. In un certo senso però fu una sorta di atto epifanico con il territorio: Il quartiere piano piano iniziò ad accettarci e ad accoglierci, in un modo naturale.

Continua.

Beh, si è subito creata una microeconomia domestica. Allora c’era Pier Paolo Panico, che era uno dei soci del 3HG, che ogni lunedì aveva tutti gli scarti del pesce e li cucinavamo qui. La signora qui vicino ci preparava le minestre, i fratelli bancarella qui fuori ci regalavano una cassetta quando chiudevano. Ci hanno un po’ adottato.

Quelli che vivono sopra, nello stesso palazzo?

Sì, sì. Tranquilli. Non si sono mai lamentati, anche quando abbiamo fatto feste.

Il lockdown?

È stato un po’ un punto di svolta, perché non ci andava di restare chiusi. E me ne uscii con questa iniziativa che si chiamava “Il Fine della Fine”. Un invito a ragionare sulla fine e sul confine, ma anche un gioco di parole. Ogni ultimo fine settimana del mese abbiamo invitato un artista a fare qualcosa in relazione con il pubblico. È stato molto divertente. Ad esempio Christian Ciampoli ha presentato una serie di progetti non finiti, mai realizzati, e nello stesso tempo ha chiesto a tutti i partecipanti un pezzo di unghia: lui lavora con le panificazioni, quindi sta cercando di fare una farina di unghie per poi farne un pane… Una cosa schifosissima!

Persona immensa.

Beh, sì.

Ora come vi state muovendo?

È in corso questo progetto che si chiama Bolle, e gioca anch’esso su diverse parole. Inoltre ruota attorno a un grande filosofo, Michel Foucault, e alla sua frase “Ogni uomo ha il diritto di far diventare la propria vita un’opera d’arte”. Il concetto è quello di invitare persone che apparentemente non c’entrano un cazzo con l’arte e con il contemporaneo, ma che, in modo trasversale, fanno vivere al pubblico un’esperienza artistica.

Molto bello. Progetti per il futuro?

Per il futuro… Intanto mi auguro che riusciremo sempre a pagare l’affitto. Poi mi piacerebbe diventare ricco, così mi posso comprare lo Studio e nessuno dovrà pagare più l’affitto! Sarebbe bello trovare solo i soldi per i progetti. Anche perché di progetti ne arrivano sempre. C’è sempre qualcuno che bussa e propone qualcosa. Ci facciamo grandi pranzi, perché qui mangiamo sempre, e mentre mangiamo esce sempre qualche proposta che ci esalta.

Per concludere, come vedi il Pigneto? Ora è tanto che sei qui, quindi l’hai visto cambiare. In che modo è cambiato per te?

Beh sì, me lo ricordo quando c’era solo…

Il Fanfulla e il Cargo.

In realtà anche prima. C’era solo…

Vini & Oli…

Sì! Gestito da un siciliano che vendeva una boccia di Nero d’Avola che costava ai tempi diecimila lire. Noi andavamo lì e passavamo il pomeriggio. Per il resto il Pigneto è come Marsiglia e Parigi. È molto cambiato, è pieno di locali, però io devo dire pure che esco poco. Mi godo di più la parte di Torpignattara perché c’è lo Studio. Poi Torpignattara sembra resistere di più a questa dinamica.

Beh, forse pure perché Torpigna è meno predisposta per questa trasformazione, proprio per la sua conformazione, con le strade strette e via di Torpignattara che invece sembra la Tuscolana.

Sì, è vero. Certosa invece si sta un po’ gentrificando, anche se ha comunque un suo zoccolo duro che resiste, nel bene e nel male.