Quando entrerete nella prima scena di The Beast, nella prima stanza della sua complessa architettura digitale, tutta foderata di green screen, vi chiederete in che tempo e in che luogo vi trovate. Nel 2044, quando Gabrielle cerca di depurarsi dalle proprie emozioni per lavorare ed essere accettata nella nuova società gestita dall’intelligenza artificiale? Nel 1910, quando a una serata dell’alta borghesia parigina la stessa Gabrielle, un’acclamata pianista sposata con il fabbricante di bambole Georges, incontra di nuovo Louis, l’uomo a cui aveva confessato le sue visioni apocalittiche sei anni prima? O forse nel 2014, quando la donna è una modella in attesa che Los Angeles si trasformi nel palcoscenico del suo debutto attoriale? Come molti mind-game movie, quei film costruiti come giochi mentali per disorientare la cognizione dello spettatore, anche il film di Bertrand Bonello non sembra avere un punto di ingresso evidente. Per trovare un po’ di chiarezza, una via, un senso, occorre giocare con le immagini, analizzarle, muoversi dentro di esse e da lì metterle in ordine. Forse si può partire dalla loro matrice letteraria, il romanzo breve La bestia nella giungla di Henry James: la storia del dialogo continuo, in vari momenti del tempo, tra un uomo e una donna intorno al presentimento che qualcosa di catastrofico stia per accadere. La scrittura di James illumina una strada, ma non è quella della narrazione classica, del prima e del dopo, delle ragioni psicologiche dei personaggi, o del tema: il suo romanzo sembra una lunga, estenuante propaggine senza capo né coda, un “profitless labyrinth”, un nebuloso discorso sui confini del linguaggio, che non offre nient’altro che la forma di se stesso.
Assurda, potremmo dire – sospesa tra noto e ignoto, tra fatto e allucinazione, tra il corpo e ogni suo fantasma – ma proprio per questo accurata.
Esatto, la propria forma, come una struttura euristica, come metodo di comprensione delle cose, della realtà. Una forma di realismo. Assurda, potremmo dire – sospesa tra noto e ignoto, tra fatto e allucinazione, tra il corpo e ogni suo fantasma – ma proprio per questo accurata, se si pensa fino in fondo al secolo che apre – il 1900, alle porte, ma già chiuso nell’eclisse della ragione. La scrittura di James superava la tensione teatrale della letteratura dell’epoca, e si spingeva nel territorio allora ignoto del romanzo sul romanzo, della riflessione sulla parola come movimento senza soluzione di continuità sopra l’abisso di dolore e paura presente al centro della realtà. Un movimento folle, continuamente teso come un’ombra tra le due grandi esperienze della società moderna: l’inanimato – l’assenza di vita, la morte, la fine – e l’organico – il suo contrario, la pulsione del desiderio, la vita. Bonello, teorico dell’audiovisivo interessato a questa visione del linguaggio come chiave di volta della realtà, riproduce il labirinto dello scrittore inglese perché riconosce nelle sue “febbrili congetture” un modo per rappresentare, o meglio per non rappresentare più. E così finalmente intercettare, per paradosso mettere in scena, l’incomprensibilità che dal tempo moderno si è estesa e perfezionata nel tempo contemporaneo: il tempo frammentario, della fine della chiarezza, dell’esplosione delle cornici di senso compiuto, insomma del fallimento di tutte le grandi narrazioni dell’identità; ma anche il tempo dell’onnipresenza, della fluidità, della pervasività del messaggio e del significato. Insomma, la nostra giungla virtuale quotidiana, sospesa tra il non voler dire più niente e l’essere sempre troppo, tra continui sovraccarichi e cortocircuiti, cali di tensione e pop up inesauribili. L’autore francese, rispetto allo scrittore, fa solo un passo in più verso lo spettatore. Oltre a ricostruire in scala 1:1 il giro di vite abissale, e così permettere di vedere sullo schermo la struttura del linguaggio che abitiamo, da grande maestro della fisiognomica (non dovrebbe forse essere questo, in fondo, un regista?), offre la possibilità di localizzare con i propri occhi il movimento della realtà in uno spazio espressivo ristretto, un piccolo frattale tra i tanti in cui si riverbera e si ramifica la riflessione collettiva contemporanea. Questo spazio non è che il volto di Léa Seydoux, l’interprete di Gabrielle. Ben più che straordinaria attrice, anzi, vera e propria forma simbolica del nostro tempo (come aveva intuito anche Bruno Dumont in France), Seydoux riesce a incarnare sia la bambola di celluloide senza vita sia l’urlo disperato che cerca di uscire dal loop bestiale in cui si trova imprigionata. Il suo viso trova cioè la dialettica del Nulla che James ha rincorso nella migliore parte della sua carriera: quello zero abissale che racchiude nel proprio raggio la luminosità dell’origine di ogni cosa (in arabo zero si dice sifr, radice etimologica della parola cifra, quantità) e il buio del non senso in cui sentiamo di precipitare.
Dopo la proiezione di La bête, torna l’imperdibile appuntamento con il regista: una conversazione tra Bertrand Bonello e Paolo Moretti, per andare oltre l’immaginazione.
Written by Leonardo Strano