Una scena post sex con lui bello e sicuro di sé che sbuffa a una critica fatta da una lei nei cui occhi si può già intravedere la noia che provocherà la basicità di lui, una gita scolastica con schiamazzi e limoni sul canonico autobus giallo, vari livelli di bullismo nei corridoi del dormitorio. Ormoni e velleità di ribellione che scalpitano all’unisono. Queste le premesse di un coming of age che di lì a pochi minuti verranno completamente mandate in frantumi da Sean Price Williams, regista di The Sweet East.
Lei è Lilian/Annabel/Nessuno (Talia Ryder), inafferrabile nell’identità fin dal nome, che se la svigna dalla gita per avviarsi in un road trip senza meta, fatto di tappe che si susseguono senza filo logico, sulla scia di un’apatia irriverente che la porta paradossalmente a dire sì a tutto, incarnando l’altra faccia della “yes woman” dell’American Dream – che di quel sogno svelerà le torbide contraddizioni e il baratro di vuoto di cui è incubatore.
“Everything’s a joke to you” le dice a un certo punto un altro personaggio. Potremmo anche dire: tutto finisce in meme, o cosa memiamo a fare quando la realtà è già di per sé assurda e non sembra offrire alcun tipo di risposta chiara, né per il presente, né tantomeno per il futuro.
Ecco che in questa frattura, tra aspettative e realtà, tra presente e futuro, tra generazioni e relative visioni e linguaggi, si infila Williams con la sua protagonista. Come Alice nel paese delle Meraviglie, segue il coniglio nella sua tana, vagando in un regno dove a farla da padroni sono il grottesco e l’assurdo, linguaggi che, come lenti deformanti, permettono di portare l’attenzione su quegli aspetti del reale paradossali, divergenti, frustranti ma su cui solitamente sorvoliamo, in balia del flusso quotidiano. Flusso da cui Lilian si sottrae, e noi con lei. E, una volta che si passa dall’altra parte, non si può più tornare indietro, non si può dimenticare ciò che si è visto. Il corpo magari torna indietro, ma il velo sulla realtà è stato stracciato. Ed è un po’ questo l’effetto di The Sweet East: un trip grottesco e picaresco per risvegliarci dal torpore di cui siamo complici.
Un falso road movie attraverso tappe emblematiche di un’America distorta, che richiama le distorsioni di Greener Grass, la frustrazione soffusa di American Beauty e l’ammaliante surreale di The Love Witch, tessendo un coming of age ostile e caustico, che disillude completamente l’aspettativa di una ricerca di sé e fa emergere la fragilissima intelaiatura di un paese – l’America, e di un intero mondo che la segue a ruota, in primis l’Europa. Che però si ritrova sull’orlo del collasso ideologico divelto da visioni manichee e polarizzate in cui il terreno in comune si è inaridito, e non rimangono che profondissime crepe – estremismi politici, fanatismi religiosi, consumismi sfrenati, ossessioni narcisistiche, guerriglia endemica, svuotamenti di significati, assenza di modelli etici.
The Sweet East è un inno al caos, all’immoralità, alla ribellione, allo svincolarsi, a vivere il frammento come stato compiuto.
Williams è crudele nello sbattercelo in faccia: inutile tentare di dare un senso agli incontri del film e alle scelte della protagonista, come lo sarebbe ostinarsi a fare ordine nel mondo, a tracciare storie coerenti e processi lineari, a ricomporre una realtà che sfugge a ogni definizione, aggrappandosi a certezze che non ci sono. The Sweet East è un inno al caos, all’immoralità, alla ribellione, allo svincolarsi, a vivere il frammento come stato compiuto. E, dopo averci preso a sberle, ci lascia con un senso di liberazione: la presa di coscienza che non c’è alcun punto di arrivo, né alcuna “maturità” da raggiungere, ma c’è solo una continua ricerca, un processo in moto perpetuo e incoerente. E va bene così.
Written by Benedetta Pini