Per qualche tempo sono stati “uno dei segreti meglio nascosti di Roma Est”. Poi gli Holiday INN hanno cominciato a fare live fuori dal G.R.A. e tutto lo Stivale underground si è accorto di come dietro questa sigla, apparentemente borghese e impossibile da googlare appropriatamente, si celasse un adorabile groviglio di proto-post-punk-acido-e-ossessivo-ribalta-palchi. Dalla prima cassetta sulla label di casa al 5/a di via Fanfulla da Lodi (My Own Private Records) sono passati 5 anni e oggi, dopo varie uscite su etichette di “culti e occulti” romane (Rave Up e NO=FI), arriva finalmente il primo vero e proprio album, Torbido (nomen omen, ça va sans dire) licenziato da due delle nostre etichette indipendenti italiane preferite, Maple Death Records e Avant!. Il il release party sarà il 24 aprile tra le mura di casa del Fanfulla, ma noi eravamo troppo impazienti di saperne di più su questa che suona come l’uscita più allucinata e sinistra pubblicata dal duo composto da Gabor (voce) e Bob Junior (synth e drum machine).
«Il processo creativo degli Holiday INN è diretto, intuitivo e sicuramente punk. Né io né Manu (“vero nome” di Bob Junior, Ndr)», premette Gabor, «Ci definiamo musicisti, ma credo che siamo tutti d’accordo, anche perché dischi e concerti ne facciamo, sul fatto che “produciamo musica”. Il punk sta proprio qui, come concetto di base, l’idea di prendere uno strumento e suonarlo anche se non lo si sa suonare e di cantare anche se si è stonati. C’è una bella sinergia tra noi due creata prima di tutto da un’amicizia che va avanti da parecchi anni e dalla collaborazione importante all’interno del Fanfulla. La cosa poi si fa parecchio interessante in quanto abbiamo due personalità molto diverse con gusti musicali che spesso coincidono ma in altri casi entrano anche in grande conflitto – pacifico, ovviamente! Mi piace sottolineare che Manu non sa assolutamente di cosa parlano le nostre canzoni: raramente è successo da quando suoniamo insieme che mi abbia chiesto di leggere un testo. Al massimo sono io a dargli degli accenni sull’argomento, anche perché la mia pessima pronuncia in inglese e la distorsione sulla voce rendono praticamente le parole quasi incomprensibili all’ascolto. Pensandoci bene, più che creare un pezzo per una band, il nostro processo di composizione si avvicina di più alla creazione della colonna sonora di un film dove il regista comunica con il musicista dicendogli cose del tipo “questa parte è più struggente e drammatica” oppure “questa deve essere più allegra e ballerina”».
Di seguito tutto lo streaming del disco accompagnato dai segreti e dalle allucinazioni dietro ognuna delle tracce.
SHE
GABOR: She è il brano d’apertura del disco. Musicalmente mi piace molto, voce e tastiera sono parecchio effettati rispetto agli altri pezzi e creano un tappeto bello coinvolgente. Il testo è una critica a una ipotetica “lei” (mi spiace sia al femminile, niente di personale, ma musicalmente suonava meglio!) molto possessiva, che quasi diventa una forma aliena che entra nel cervello, che vuole controllarti, succhiarti la vita, toglierti ogni libertà. Un mio delirio personale, tra horror fantascientifico e paura mortale di un partner possessivo/ossessivo.
MANU: Si tratta di rallentare. Il delay ritarda, riporta in dietro, fa perdere tempo. L’esatto contrario di ciò che abbiamo fatto precedentemente, e anche la prima volta che usiamo il delay nella sua totalità. Questo pezzo mi fa camminare all’indietro, e ci è sembrata una giusta apertura.
DIRTY TOWN
GABOR: È Il pezzo ballabile, gag e quasi rock‘n’roll – io detesto il rock‘n’roll, tra l’altro – del disco. Due note di Manu, batteria rock ed è subito festa! Forse il pezzo che musicalmente mi piace di meno dell’album intero, tanto che volevamo anche lasciarlo fuori… Poi però si è rivelato divertente da suonare e abbiamo deciso di tenerlo, anche perché alleggerisce l’insieme, che è bello tosto e struggente. Il testo, nato dopo una delle solite chiacchierate deliranti/punk con Hugo Sanchez, racconta quanto è più figa e vera la città zozza, vissuta, degradata e torbida rispetto alla città turistica, pulita, ordinata. E poi finalmente un pezzo che assomigli davvero ai Suicide!
MANU: Sarebbe un classico rockabilly giocoso e lineare, urbano anche. E poi finisce in disco perché in ogni caso vogliamo ballare. E così ci siamo tutti presi in giro, e possiamo riderne. E continuare a ballare.
THE CLOSER I GET
GABOR: Altra canzone a me molto cara, sia per le sonorità acide e distorte, sia per il testo. Un concetto semplice, quasi stronzo direi, un luogo comune legato ai rapporti amorosi e sessuali applicabile a livello universale che diventa quasi un’equazione matematica: più mi ignori, più mi avvicino.
MANU: È un blues, una nota e la sua variazione. È tutto un canto e non dovrebbe fermarsi. Potrebbe essere anche un primissimo flamenco: io che martello una pietra e Gabrio che canta e balla.
I DON’T WANT TO DIE
GABOR:
Se in White Man c’era una cover di Mushroom dei Can, uno dei nostri gruppi preferiti, in Torbido abbiamo deciso di lasciare fuori i “grandi della musica” e omaggiare, invece, un’artista viva e vegeta dei quali siamo superfan. I Don’t Want to Die Alone (I’m Going to Kill You) è la cover di un pezzo di Nadia Buyse, in arte Dubais, cantante americana che ha suonato al Fanfulla un paio di volte. Il suo pezzo è fighissimo, molto sensuale musicalmente, ma devastante a livello di testo… Perfetto per gli Holiday INN!
MANU: Nadia Buyse è un’artista che adoro, e questo brano è sexy e funebre. Qua avete l’originale.
BLACK SUN
GABOR: Questo brano è la traduzione in inglese della poesia “Punk” di Alberto Ronchi, ex assessore alla cultura di Bologna e Ferrara, che ho avuto il piacere di incontrare a un nostro concerto. Ho letto la sua poesia pubblicata sulla fanzine “No Hope” e ho subito voluto comunicargli che mi sarebbe piaciuto provare a tradurla e farla diventare un pezzo degli Holiday INN. Manu ha tirato fuori questo giro triste e straziante, abbiamo rallentato la batteria elettronica e Black Sun è uscita fuori da sola: cupa, triste, nichilista. La poesia in italiano è stupenda ed è contenuta nella sua pubblicazione “Catastrofi naturali Liriche 1997-2016”.
MANU: Preferirei sempre evitare di usare melodie, ma questa è una melodia, ed è anche una ballad. Raramente faccio così tante note, eppure questa mi sembra finisca con l’essere la canzone la più minimale, cruda e frontale del disco. La più sofferente, anche.
FEEL FREE!
GABOR: Primo nostro vero featuring con una band che adoriamo, due giovanissimi folli che suonano un’elettronica scoppiata dada no wave demenziale ultracoinvolgente e innovativa: i D.a.P. (Diritto d’accesso al Parco). Luca Pandha, polistrumentista del gruppo, ci ha mandato una base fatta col campionatore proponendocela come un pezzo sul quale lavorare a quattro mani. Per farla ascoltare a Manu l’ho messa nel cellulare, lui ha collegato un jack facendolo passare negli effetti degli Holiday INN, ha pigiato per gioco la distorsione ed è uscita una base ballabile e aggressiva sul quale ha aggiunto una manciata di note in 2 minuti e mezzo di canzone. Io c’ho messo sopra un testo evocato dall’immaginario rivoluzionario/bambinesco dei D.a.P. (vicinissimo al mio) ed è uscito questo pezzo aggressivo e divertente, mirato a diffondere un altro messaggio chiave per me, Manu e tutti quelli che orbitano intorno a noi: sentitevi liberi, siate voi stessi, tirate fuori tutto, non limitatevi… Sennò finisce male.
MANU: Feel Free! è una collaborazione con i D.a.P, un duo di ragazzi che hanno appena 25 anni. Non saremmo mai stati in grado di fare un pezzo così, non abbiamo quella freschezza. Loro sì. Ci hanno regalato queste basi, le abbiamo schiacciate e sono esplose: è rimasto il fungo atomico. Qua potete sentire i D.a.P.
THEY WANTED IT
GABOR:
Guardando un documentario struggente sul genocidio avvenuto in Cambogia negli Anni 70 (grazie Pascarella!), ho scritto un anno fa questo testo che tocca un’altra tematica che ho sempre in testa da quando sono bambino: il razzismo, a oggi la cosa che mi fa più schifo in assoluto nel mondo e che combatto e combatterò sempre di più. Il pezzo si chiama They Wanted It, ho scopiazzato e riadattato alcune parti dei sottotitoli del film parlando sia con la voce delle vittime che si sono visti morire davanti i propri cari nei modi più atroci, sia con la voce degli esecutori che rivendicavano il loro sterminio in nome di Dio e giustificandolo con la convinzione che le vittime stesse chiedevano di essere sterminate perchè si ritenevano essi stessi infedeli… No comment.
MANU: Con questa traccia torno a ciò che mi preme di più col suono degli Holiday INN: lo scontro delle macchine e l’elettricità che producono tra di loro, come delle scintille sonore. È totalmente meccanico e ti insegna che non devi dimostrare niente, a nessuno. Le cose non hanno bisogno della nostra esistenza per vivere e voi potete fare a meno di noi: non siamo permalosi.
NO SPEAKING
GABOR: Alcuni brani degli Holiday INN nascono da intuizioni di Manu che tira fuori dei giri di tastiera che mi fanno venire in mente delle idee o che associo a qualche testo scritto in precedenza. È il caso di No Speaking. Durante una prova random, lui mi fa sentire questo giretto molto semplice ma bello storto, sotto ci mette la drum machine col pattern samba e parte con questo pezzo che mi shocka da subito. Rimasi così tanto colpito che dissi seriamente «Manu, ‘sto pezzo è una bomba, ma stiamo componendo roba per il secondo disco, questo è troppo avanti, teniamocelo per il terzo!». Poi ovviamente questo mio delirio è stato interrotto e abbiamo tirato fuori questa canzone che probabilmente è una delle mie preferite in assoluto del nostro repertorio. Anche il testo mi è molto caro, è una specie di vaneggiamento teorico sull’eliminazione del linguaggio vocale. Il ritornello ripete costantemente «Clear the meaning of voice» (nel mio solito inglese strampalato) e inneggia a un tentativo profondo di comunicazione tra le persone che vada al di là del linguaggio parlato, attraverso sguardi, gesti, movimenti. A essere sincero (e torbido come sono, appunto), l’idea mi è venuta ripensando a un incontro con un tipo in un bagno pubblico mentre ero a Belgrado qualche anno fa: ovviamente per rimorchiare non servirono scambi verbali o presentazioni particolari (anche perché quello probabilmente parlava solo in serbo), ma è bastato uno sguardo, un sorriso e un cenno con la testa per finire a fare roba nel cesso, anche lì totalmente in silenzio. Non entro nei particolari.
MANU: Questo pezzo potrebbe essere una rivisitazione, o un’elaborazione, della canzone di Chico Buarque, Mia Martini e Loredana Bertè Lei no, lei sta ballando. Evoca le stesse immagini, le stesse sonorità e rumori della folla e delle rivoluzioni. E la singolarità di ognuno che balla. Non ha fine.
TORBIDO
GABOR: Il testo di questo pezzo mi è molto caro, così come la parola in sé e il concetto che racchiude. L’idea mi è venuta sull’aereo di ritorno da Bruxelles circa un anno fa, sfogliando il magazine che trovi sul sedile. Mi soffermo su un articolo che parlava di questo particolare lago le cui acque, per qualche motivo, sono diventate così torbide da rendere la visibilità praticamente impossibile, facendo scattare un processo per cui le varie specie di pesci che lo abitavano hanno iniziato a riprodursi tra loro in modo casuale, creando tantissime nuove varietà e incroci di famiglie diverse. Una storia assurda, ma vera. Ho preso questa idea e ne ho esteso il senso verso qualcosa di più romantico, erotico e personale, arrivando a parlare di tematiche a me molto care: l’amore libero, la sessualità estesa e la necessità di dare spazio ai propri istinti senza reprimere gli impulsi, anche i più torbidi, appunto. Volevo fosse un pezzo molto pesante, lento, così come è stato il processo che ho attuato nella ricerca della mia libertà sessuale, quindi ho chiesto a Manu due note dissonanti e una batteria cadenzata e ossessiva. Lui, da bravo torbidone qual’è, ha trovato la musica al primo tentativo!
MANU: Là andiamo a scavare, e fa male. Nessuno aveva detto che sarebbe stato semplice, e forse non lo volevamo manco noi.