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L’arte fotografica non è poi così morta – II

Lidia Bianchi e Raffaele Morabito: la fotografia che rompe i patti con il reale

Written by Ilaria Sponda il 22 February 2023
Aggiornato il 13 June 2023

Raffaele Morabito, Addomesticare la morte, 2020

Con l’avvento del digitale e la conseguente saturazione di immagini prodotte, post-prodotte e consumate in ogni forma, la fotografia ha smesso di essere pura registrazione di eventi o situazioni, per sfilacciarsi e aprirsi a prospettive nuove, tutte da scoprire. Quindi, per continuare la ricognizione della fotografia d’arte emergente e sperimentale a Milano, ho deciso di andare in ViaFarini-In-Residence per conoscere due artistə – Lidia Bianchi e Raffaele Morabito – che si approcciano al medium fotografico in modo critico, con tante domande e riflessioni sull’immagine e il suo contesto di produzione contemporaneo.

Ah, per chi non lo conoscesse VIR ViaFarini-In-Residence, è un importante polo di ricerca e residenza per artisti nazionali e internazionali. Le porte dello spazio sono sempre aperte al pubblico (fanno un sacco di eventi o visite su appuntamento e vi consiglio di andare a sbirciare).

La ricerca sugli immaginari di Lidia Bianchi

Lidia è un’artista visiva nata a San Felice Circeo, in provincia di Latina e di base a Milano da diversi anni. Per Lidia la fotografia è un mezzo per parlare di immaginari personali e collettivi. Dal 2017 ha iniziato a lavorare su un archivio personale, frutto di itinerari ripetitivi nella sua città natale. Come un’etnografa ha mappato, attraverso una macchina fotografica a pozzetto, i dintorni paesaggistici di un luogo impregnato di mito, quello della maga Circe, per capirne le origini e le ripercussioni sulla sua percezione di appartenenza a quel luogo. Un archivio, come un pezzo di storia, spesso narra di ciò che va oltre al visibile e per Lidia il soggetto delle immagini non è più ciò che sta al centro della narrazione, ma un pretesto per immaginare altre realtà e riflettere sulla relazione tra essere umano e natura. Attraverso l’immagine straniante riflessa nel pozzetto fotografico, la scala delle dimensioni e i punti di riferimento si perdono ed emergono significati archetipici dei luoghi in cui si è immersa. Così sul suo tavolo e le sue pareti di lavoro in residenza, si alternano stampe che sembrano tratte da film muto, di movimenti colti da distanza grazie all’atto fotografico da cui scaturiscono. Guardando l’insieme dell’archivio ne traspare tutta la nostalgia e la magia. La pellicola della fotografia analogica fa questo: imprime su se stessa qualcosa di reale come un livido sulla pelle e attraverso il filtro del personale, ci risuona dentro e diventa altro, si trasforma e ci parla.

Per il periodo in ViaFarini-In-Residence Lidia ha deciso di riprendere il suo archivio di immagini scattate nei luoghi natali per rivederli a ulteriore distanza di tempo e spazio. Sull’appartenenza – questo il nome della ricerca – racchiude non solo un discorso personale sulla nostalgia, sull’interiorità e sul sentimento di appartenenza ed estraneità a un luogo, ma anche uno politico di continua negoziazione tra il pensare arte e il produrre arte.

i punti di riferimento si perdono ed emergono significati archetipici dei luoghi in cui si è immersa

Difatti queste due dimensioni giungono spesso in collisione per gli artisti che lavorano con il medium fotografico, in quanto la sperimentazione, nella formalizzazione di un progetto, è spesso limitata non solo dal budget a disposizione, ma anche dallo spazio di archiviazione fisica a disposizione dell’artista. Spesso l’arte fotografica contemporanea risulta stagnante e ripetitiva, chiusa in forme di esposizione sempre uguali a se stesse e verso nuove forme di arte fotografica possibile. E questa è una delle questioni che Lidia sta portando avanti nella sua residenza attraverso la ricerca di nuovi materiali su cui stampare e rendere materia i suoi immaginari: la stampa UV e industriale sono, ad esempio, due possibili strade secondo l’artista. L’arte fotografica non deve essere per forza in stampa fine art e cornice per essere appunto, arte.

Raffaele Morabito: l’immagine nomade

Raffaele Morabito, di origini bergamasche e ormai in pianta stabile a Milano, fonda la sua ricerca sul non visibile, su ciò che rimane fuori dal campo sensibile. Immagini silenziose, fragili, delicate compongono la ricerca artistica dell’artista in un’ottica restauratrice di archivi fotografici sia scattatati da lui che non. Spesso usa le fotografie che trova come ready made, ovvero le restaura, le modifica e le inserisce nei suoi progetti come  pretesti per analizzare in profondità la pratica fotografica stessa.
Quando la fotografia viene usata come traccia del reale diventa un  dato  sensibile e, nel digitale come nell’analogico o nella fisicità dell’immagine stampata, è in continua riconfigurazione. Il tempo modifica le foto fisiche come i pixel si modificano nel digitale, nel passaggio tra format e software diversi l’immagine contemporanea è nomade e ambigua e circola in molteplici forme e format.

In ViaFarini-In-Residence Raffaele sta producendo un nuovo lavoro frutto della sua ultima residenza a Cani Residency a San Foca (Lecce), dove ha condotto un reportage sulla Xylella e il danno apportato agli ulivi del territorio. Raffaele mi racconta che il suo obiettivo è quello di traslare delle pure immagini documentaristiche in materia attraverso un passaggio concettuale per restaurare un’idea di pensiero fotografico applicata agli oggetti scultorei. La fotografia diventa così traccia non solo del reale ma di se stessa, si trasforma spingendosi al limite tra l’operazione artistica e la fotografia come documento di realtà.

Immagini silenziose, fragili, delicate compongono la ricerca artistica dell’artista in un’ottica restauratrice di archivi fotografici sia scattatati da lui che non.

Insieme abbiamo riflettuto su un termine complesso ma sempre più attuale, ovvero l’immagine post fotografica, l’immagine dopo la fotografia. Non è semplice perché racchiude un’idea di fluidità, di trasformazione ma anche di cura e conservazione della memoria. Di saper raccontare qualcosa che non esisterà più attraverso le sensazioni che ci ha trasmesso e non per mezzo della sua fedele riproduzione.

In bilico tra immagine e fotografia

Il terreno labile tra fotografia e immagine si sta affievolendo sempre più, come mostrato da artisti come Lidia e Raffaele. Lavorano entrambi con la fotografia analogica perché permette loro di “sporcare” il processo di formazione dell’opera. Attraverso la ricerca di nuovi modi di materializzazione dell’immagine infatti, vanno a superare i limiti che la fotografia d’arte ancora oggi (si) impone: la cornice, la stampa fine art, la copia unica o la serie numerata e tutte le problematiche di sostenibilità economica, e non solo, insite nella pratica fotografica.