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L’arte fotografica non è poi così morta – VI

Sara Davide e Nicola Rossini: dal lato della scultura che si fa immagine

Written by Ilaria Sponda il 13 June 2023
Aggiornato il 14 June 2023

Sara Davide, autoritratto, 2020

Siamo giunti all’ultimo appuntamento di questa breve ma intensa rubrica sulla fotografia d’arte a Milano – ricognizione che non si esaurisce qui ma prolifera in altre forme. Per fare una sorta di punto si potrebbe avanzare l’idea che la fotografia d’arte non è morta ma è uno zombie – come scrive il ricercatore Andrew Dewdney nel suo libro “Dimenticare la fotografia”.
Fotografia è un termine obsoleto. Le nuove condizioni dell’immagine vengono mascherate dalla permanenza e dal nostro attaccamento all’idea di fotografia come rappresentazione del reale. La fotografia ha indubbiamente un forte legame con una realtà che si attesta a rappresentare, dunque probabilmente dovremmo chiamare la fotografia d’arte in altro modo per discostarci da questo attaccamento a un mezzo espressivo così legato all’idea di presa della realtà.

Partendo dalla ricerca di due artistə di formazione scultorea, Sara Davide e Nicola Rossini, ho trovato interessante indagare la ricerca e la produzione artistica di chi, come loro, ha approcciato l’immagine fotografica come mezzo scultoreo e mappa, dunque come superficie per indagare il reale.

Sara Davide: “la fotografia è il calco della realtà”

Sara Davide è un’artista attiva a Milano ne La Cattedrale, spazio di studi in condivisione in zona Forlanini. L’avvicinamento alla fotografia per Sara è avvenuto inconsciamente, è stato un passaggio rilevante nel suo percorso in quanto medium capace di catturare il reale in frammenti, parte del tutto con cui ha iniziato a fare ricognizione del mondo. Tutto questo agli albori di Instagram, quando il social ancora non era altro che un mezzo di modifica e archiviazione foto con formato 1:1, per una nicchia di amatori e professionisti.

Questo processo è fondamentale, è parte della mia ricerca, è stata una rivelazione e ad oggi è oggetto di studio per me. Avendo fin dagli inizi lavorato con il metodo del calco – un processo di rilevazione della superficie del reale in modo diretto – la fotografia è risultata essere altrettanto un mezzo di contatto, un’impronta. Non è un pensiero collaterale ma supporta il mio lavoro anche a livello teorico.

“I/I” è infatti il titolo del libro d’artista, un prototipo e pezzo unico, che raccoglie questi scatti inconsci che si propongono agli occhi come macchie di Rorschach: immagini tendenti all’astrazione, accanto a altre più descrittive che strizzano l’occhio alla metafora. Il libro è per Sara l’inizio di una ricerca ormai stratificata che vede nell’immagine fotografica un calco del reale quanto lo è la scultura.
L’osservazione è il metodo più rilevante e persistente nella pratica di Sara, nonché lo sforzo fondamentale richiesto a chi si pone di fronte alle sue opere. Estraniamento e ambiguità sono punti cardine che accomunano la sua produzione artistica, mirata appunto a creare uno spazio di instabilità anche tramite l’utilizzo del mezzo fotografico in modo assolutamente funzionale all’opera: esso è posto in relazione ai materiali scultorei scelti per la sua capacità di assorbimento della materia. È la scultura che si fa immagine e l’immagine che si fa scultura: un doppio binario di senso e di formazione di un’opera d’arte.

La pelle è un elemento che ritorna nelle mie opere creando una relazione con una dimensione interiore e non superficiale”.

Le nuove condizioni dell’immagine si stratificano quindi su superfici materiche che, come le opere di Sara, assorbono il colore percepito della realtà, l’impronta del segno, e la trasformano in una forma altra, identica alla vista ma di significato diverso. I suoi lavori ammiccano all’ambiguità, allo straniamento percepito da chi si pone davanti a fotografie riconducibili a frammenti di mondo e di sé, come la serie “autoritratto”, in cui parcellizza il volto dell’artista in oggetti di still life perfetti, immobili e ri-mediati dalla meccanica fotografica.

 

Nicola Rossini, il mezzo fotografico e il dialogo uomo-macchina

Per chi è di casa a Nolo – zona praticamente indefinita e in continua espansione e sparizione – non giunge nuovo Caso Studio, uno spazio di studi in condivisione all’interno di un edificio tutto popolato da artisti. Lì è dove sono andata per incontrare Nicola Rossini, artista che ha fatto del post-umanesimo il proprio costrutto concettuale e terreno fertile di ricerca artistica. Il suo lavoro infatti apre un dialogo, o una sfida, tra essere umano e tecnologia: analizza il corpo come referente e soggetto di ricerca e il processo di registrazione digitale come spazio immaginario di riconfigurazione di un corpo umano che vuole emulare la macchina, dopo aver costruito essa a sua immagine e somiglianza.
La scultura e l’installazione sono per Nicola punti di riferimento fondamentali. La fotografia, invece, è subentrata in un secondo momento come un’ancora che gli ha permesso di dare nuovi significati all’installazione concettuale e alla scultura per sviluppare le sue indagini sul rapporto tra uomo e macchina. In questo terreno ambiguo che ha tracciato, il corpo e la pelle sono il confine entro cui e oltre al quale si manifesta l’ormai consolidata somiglianza tra essere umano e tecnica, come ad esempio la tanto citata intelligenza artificiale o i dispositivi elettronici.

L’immagine digitale subentra nel processo creativo di Nicola come filtro e presa di coscienza del suo e del nostro essere frammento di un tutto ormai ibrido, contaminato da tecnologia e virtualità, pervasa di immagini percepite come più vere del reale. Il corpo-immagine diviene mappa e superficie a sé stante e nuovo oggetto, un po’ un fetish volto a indagare il rapporto tra materia e necrosi. La fotografia traspare dalla logica di Nicola come un mezzo ibrido adatto a esplorare, a formalizzare il rapporto umano con la morte e la vita come documento di ciò che è stato e che perpetua la ripetizione di un’assenza. Uno zombie appunto, che nei lavori di Nicola cessa di rappresentare il mondo e diventa una sua manifestazione racchiusa in una forma plastica.

La fotografia d’arte non è poi così morta: una superficie in trasformazione

Se il termine fotografia è obsoleto dovremmo allora smettere di parlare di fotografia d’arte. C’è uno spazio tutto ignoto aperto alla ricerca e alla sperimentazione, fluido e ancora non etichettato da un termine limitativo: quello in cui si muovono artist* che stanno cogliendo attentamente i segnali di trasformazione di un medium che ha sempre faticato a trovare spazio nell’arte ma che si è effettivamente espanso a tal punto da aver trasformato la concezione di immagine e  il suo peso nella società. Forse il punto non è trovare la fotografia che diventa arte, ma il rapporto tra noi e il concetto più ampio di immagine al giorno d’oggi e come essa viene introdotta nella ricerca da artist*.