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Massimo D’Addezio

Hotel de Russie, Co.So. e Chorus Café: tra tappe fondamentali della miscelazione a Roma con un denominatore comune: Massimo D'Addezio. Le abbiamo ripercorse in questa intervista.

Written by Nicola Gerundino il 29 May 2017
Aggiornato il 20 June 2017

Date of birth

11 November 1972 (51 anni)

Place of birth

Roma

Attività

Bartender

Chiunque si sieda a un bancone per un drink vorrebbe avere a che fare con un barman come Massimo: una persona non solo in grado di preparare cocktail eccezionali, ma che ha il “dono” di far sentire a proprio agio: che si tratti di una chiacchierata sul più e meno, di una battuta che strappa un sorriso o anche di un semplice gesto che riesca a dare il giusto calore. Lui nel mondo dell’ospitalità c’è da sempre, noi lo ricordiamo per aver aperto a Roma, assieme a tutto il team del Bar Stravinskij, le porte di un grande hotel quale il de Russie; per aver conquistato parecchi palati del Pigneto – e non solo – attraverso la leggerezza dissacrante di Co.So.; per aver realizzato, in ultimo, una piccola perla quale è il Chorus Café. In questa intervista il racconto di queste e altre tappe, partendo dal modo corretto di sistemare le posate a tavola…
massimo

 

ZERO: Tu sei uno di quelli che a Roma la miscelazione l’ha (ri)portata in auge. Ma il tuo ingresso in questo mondo come e quando è avvenuto?
Massimo D’Addezio: Io sono una persona che arriva da questo mondo qua, ho sempre fatto questo mestiere qua. Ho abitato in una casa con un direttore di sala, che era mio padre, una casa dove si apparecchiava con il dorso del coltello verso l’esterno, la forchetta a sinistra, il cucchiaio a destra. Vivevamo come in un ristorante, la tradizione di famiglia era quella dell’ospitalità. Mio padre ha avuto dei ristoranti a Roma, uno grande a Lavinio, poi si è trasferito in Canada, dove abbiamo vissuto per una decina di anni. Quella che io chiamo l’arte dell’ospitalità, quella vera, italiana, che ci ha contraddistinto nel Mondo, io l’ho vissuta in prima persona e in maniera casalinga, perché la vivevo proprio a casa. Poi sono cresciuto in mezzo ai clienti, con gli altri negozi che mio padre ha avuto, ad esempio un’enoteca-osteria a Centocelle. Il gusto dell’alcol, del vino, la liquoristica italiana, il vermut: io ho avuto tutto questo sempre al mio fianco. Solamente per un breve periodo, tra il ’93 e il ’97, quando ho fatto teatro di strada e altre facezie, mi sono allontanato da questo mondo, anche se lo utilizzavo in un modo o nell’altro per campare. Poi ci sono tornato dentro perché il papà di una mia fidanzata, Francesco Del Canuto che era un grandissimo sommelier, mi disse: «Perché non studi il vino, che ti può dare una base importante per quello che tu fai?». Così ho iniziato a studiare e dalla chimica delle bottiglie sono passato alla chimica dei distillati e da lì non me ne sono più andato. Ho fatto i corsi Ais, Aibes, altri corsi privati e poi c’è stato il fattore C, quello che ci guida, perché stare al posto giusto al momento giusto mi ha permesso di fare l’ingresso nel mondo dell’hotellerie e della grande miscelazione. Però, intendiamoci, cosa è il fattore C? La fortuna va aiutata, stare al posto giusto al momento giusto vuol dire stare fuori casa 10 o 20 ore. Non mi fermavo mai, era sempre un costante stare in giro e a disposizione di chi ti chiamava. A un certo punto mi dovetti comprare il telefonino perché volevo che chiunque mi chiamasse mi potesse trovare. Parliamo del periodo ’98-’99, quando entrai a far parte dell’Aibes in maniera attiva e uno dei docenti dei corsi, Leonardo Temperini, mi disse: «Sai, mi piace come ti muovi, come parli, mi piacerebbe che venissi con me a fare un’apertura». E così fu. Andai in questo albergo che doveva essere un piccolo relais nel centro di Roma, dove ho preso in consegna un giardino che doveva avere massimo quattro tavoli per far fumare qualcuno. Io ci ho messo 40 tavoli e abbiamo creato 150 coperti!massimo d'addezio 4

Prima di lavorare negli alberghi avevi iniziato a miscelare cocktail da qualche altra parte?
Io ho cominciato nel ’91 a miscelare, a Borgo Angelico, dove c’era un posto che si chiamava American Bar. Era un cocktail bar dove ci andavano le guardie svizzere e veniva anche qualche avvocato dai tribunali di Prati. La proprietaria era una donna bellissima: gli avvocati venivano per lei. Uno di questi, credo si chiamasse Vittorio, beveva solo Martini Cocktail e mi fece vedere come si preparava, mostrandomi tutto il fascino di quel drink. Me ne innamorai subito!

Che altri posti c’erano a Roma in quel periodo?
Non c’era assolutamente niente. C’era la miscelazione negli hotel, ma erano veramente cosa per pochi. C’era il St. Regis Grand Hotel dove andavano Agnelli e Berlusconi e i vari grandissimi. Ma fondamentalmente erano dei luoghi tabù, non c’era la cultura di andare a bere nel bar di un grande albergo.

Chi era il barman del Grand Hotel?
Mauro Lotti, lui per 25 anni è stato il re del St. Regis. Leonardo Temperin era il suo secondo. Tra parentesi, Lotti a 85 anni spinge ancora. Ogni tanto me lo trovo che mi spunta dietro al bancone con un paio di Martini. Un monolite! Insomma, in quegli anni potevi andare a prendere un Negroni allo Zodiaco prima di andare a fare serata, oppure da Giolitti dietro Montecitorio, alla Piedra del Sol, un ristorante messicano dove lavorava Cleo Filippucci che è stato osannato per anni come il più grande Margarita maker di Roma. C’era Quelli della notte a viale Angelico; c’era un posto che si chiamava Blob, a fine anni 90, di Enrico Venafra, che è stato il primo vero speakeasy di Roma. Lavorava fino alluna come un normale pub, poi abbassava la serranda e quando bussavi dovevi dire chi t’aveva mandato. Noi rimanevamo là dentro quando chiudevamo i rispettivi locali. C’era l’Insane a via dell’Orologio, quando fece la sua bottigliera era un astronave!

Poi è arrivato il bar dell’Hotel De Russie.
Quella del de Russie è stata un’esperienza fantastica, turbinosa, che mi ha distrutto al livello nervoso e fisico perché c’ho buttato veramente tutto me stesso dentro, anima e corpo. Però mi ha dato tanto. Io vengo dall’esperienza gestionale di famiglia, che io amo chiamare circense perché uno se la tramanda di padre in figlio: come domare un leone, come saltare da una corda all’altra. Fondamentalmente, quello che uno fa in un’attività commerciale di ristorazione è questo: domare un leone o saltare da una corda all’altra. I numeri che sulla carta ti fanno aprire un posto sono gli stessi che possono fartelo chiudere, l’investimento commerciale di un locale, se è genuino, ti dà dopo cinque anni forse un 20% di quello che hai investito. È un investito fatto da chi ha la vocazione, non è un investimento “sano”, nel senso di sanità mentale! Questo, purtroppo, lo hanno capito in pochi e sta diventando un problema nel settore perché oggi tutti hanno aperto un locale o un ristorante, si crea una concorrenza indicibile, con posti che vanno a morire dopo uno o due anni e si mangiano il mercato. A Londra o a New York puoi fare 400-500 drink per notte, a Roma se arrivi a farne 150 è un traguardo. Questo è un problema che prima o poi emergerà in maniera forte. Sarebbe un bene, ad esempio, se cambiasse la normativa sulla retribuzione, adottando il modello americano: questo cambiamento, per me, darebbe un enorme slancio a un paese come l’Italia, in cui parte della ricchezza deriva dal turismo e dalla ristorazione.

Come funziona la normativa americana?
È tutta basata sulle percentuali sul guadagno. Quando vai negli Stati Uniti e ti siedi a un tavolo c’è una persona che si presenta e dice: «Ciao io sono X e sono a tua disposizione per tutta la serata». Quindi, innanzitutto, sai chi ti serve e non devi fare la waving hand, il “ciao ciao” con la mano per richiamare l’attenzione. In italia il cameriere, alle volte, deve evitare lo sguardo altrimenti viene sommerso di richieste in continuazione e sempre 1.200 euro al mese prende. Negli States, invece, c’è più interesse a conoscere il menu, quello che si deve vendere, perché più vendo più prendo. Lì c’è un fisso, che ne so, di 150-200 dollari a settimana, poi sul venduto si prende una percentuale che va dal 15% in su, e anche se questa percentuale viene tassata riesci a portare a casa parecchio – a onor del vero, senza tutte le garanzie che ti vengono riconosciute in Italia, come Inps, Inail, tfr, tredicesima e quattordicesima. Tu sei stimolato a vendere, a offrire un servizio migliore. Invece in Italia ti danno la mancia: ma la mancia cos’è? È una “mazzetta”, il cliente ti fa l’occhietto e dice: «Oh, servime bene!». La mancia da noi è una regalia, una cosa bruttissima. Tornando al de Russie: altro che astronave! Noi abbiamo creato un’impero! Abbiamo portato l’aperitivo a Roma. Parliamo del 2000, febbraio del 2000. A quel punto è successo tutto e di tutto: abbiamo avuto addosso gli occhi del Mondo intero. In due anni il de Russie è diventato un crocevia del jet set mondiale e i nostri concorrenti sono diventati gli hotel di Londra, New York o di Singapore. C’è da dire che nei primi due anni abbiamo preso due sonore mazzate dal Gambero Rosso nella guida ai bar d’Italia. Poi, quando sono venuti il terzo anno, hanno trovato una situazione molto diversa perché ero riuscito a far ingranare il progetto come le volevo. I barman erano i più “fighi” di Roma in quel momento.

Il cortile esterno del de Russie, punto di forza del bar e di tutto l’Hotel.
Il cortile esterno del de Russie, punto di forza del bar e di tutto l’Hotel.

Chi era la squadra?
Leonardo Temperini, capo barman che veniva dalla scuola di Lotti. Francesco Pierlugi, che era il barman dello Sheraton e divenne l’assistente di Leonardo. Poi c’era Alessandro Antonelli, che adesso è il capo barman dell’hotel A.Roma Life Atyle Hotel e che già 17 anni fa faceva home made e aromatizzazioni: quanta sperimentazione! Alessandro Martinoli, che ora ha un locale a Don Bosco, sulla Tuscolana. Poi Gianluca Amato, Sophie, Luca Breschi. Questa era la squadra e il bar era la macchina che funzionava meglio nell’Hotel: eravamo affiatati e ognuno era maestro in quello che faceva. Il bar per tre anni è stato la fucina dei dipendenti del resto dell’albergo: abbiamo fatto uscire sales manager, receptionist, capi reparto. È stato una grande scuola. Il Gambero ci mise le tre tazzine, vincemmo nel 2006 il premio come “Meilleur bar d’Europe” a Parigi, nel 2008 presi il premo come migliore bar manager d’Italia sulla guida de L’Espresso, poi, nel 2009, il trionfo con il premio come migliore bar d’albergo del Mondo per il circuito Virtuoso. Lo ritirammo a Las Vegas.

Che cocktail c’erano nella carta del Bar Stravinskij all’Hotel de Russie?
Andavamo già a briglia sciolta e ci mettevamo dentro tutto. Il menu si cambiava una volta l’anno, creammo il Martini Club che ebbe un grande successo: era qualcosa di veramente di fico. Se penso alla frenesia di quel bar, oggi qui al Chorus mi sembra di essere rilassato, come quando apri un chioschetto sulla spiaggia, per stare in pace. Ti racconto da chi era costituita la clientela per farti capire ancora meglio la situazione. Chris Cornell, ad esempio, era un mio cliente, stava lì al bar ogni estate con la moglie, la suocera e i due figli. Ho avuto Dustin Hoffman, che una volta mi fece smontare mezzo bar per mettere un pianoforte da una parte e fare quattro accordi di numero. Harrison Ford, il mio mito! Una volta viene e mi dice: «Bravo, mi hai fatto un grande Martini, fammene un altro». Emma Thompsonn, a un tavolo con i suoi amici, e Ford che gli diceva: «Fatti fare un Martini da Massimo». O ancora gli U2, Robert Plant, Ian Gillan, il cantante Dei Deep Purple, Bill Clinton, Angela Merkel, Bruce Springsteen, Steven Spielberg, Francesco Totti, Uma Thurman, Egidio Sterpani etc etc etc… Insomma, la vita al de Russie è stata questa: stellare, stellata, ma molto difficile perché dovevi far girare alla perfezione le 25 persone di tutto il piano del bar. Non era assolutamente un gioco, alla fine dell’anno fiscale dovevi portare a casa parecchi soldi.

Dopo il de Russie?
Sfranto, distrutto, ho deciso di andarmene e di fare questa operazione con quel matto di Valerio, il Co.So., Che doveva essere un’operazione di “creatività baristica” e che doveva fare – e ha fatto – da vetrina per il mondo delle consulenze. E ora c’è il Chorus, che mi sta dando molte soddisfazioni e che ha un concetto tutto mio, derivante da uno studio di due anni sui members club inglesi, su cosa succede quando la società ha bisogno di posti dove andarsi a rannicchiare. Oltretutto, un bar al primo piano di un palazzo, un posto distinto dalla strada, è sempre stato un mio sogno: il modello Chorus è sempre stato un mio sogno. Devi entrare in un teatro, salire le scale o prendere l’ascensore e arrivare al secondo piano. Se io sono stato, assieme a Temperini e ai miei altri colleghi del de Russie, un innovatore nel portare a Roma l’aperitivo e far superare le porte di un albergo alla città, mi ritengo un innovatore anche per aver portato la ristorazione d’altro livello all’interno di un teatro (Chorus si trova all’interno dell’Auditorium della Conciliazione, nda). Il Romano, quando cerca il suo posto di nicchia, vuole stare bene come a casa: la cucina fusion diverte, ma c’è bisogno di qualcosa di confortevole e la cucina romana è confort food, anzi, quasi porn food. Poi è arrivata anche questa trasmissione sul Gambero Rosso, Spirits – i maestri del cocktail, di cui sono diventato autore assieme ai ragazzi di Blue Blazer, che sono aria nuova nel nostro mondo. Ci hanno dato carta bianca: abbiamo intervistato i grandi maestri nella prima serie, mentre nella seconda siamo andati nelle aziende, a vedere che cos’è un vermut ad esempio. Ora stiamo lavorando alla terza. Sto lavorando anche a una pubblicazione legata alla trasmissione: Il ricettario semi segreto di un barman semi serio.

É cambiato il cliente a Roma in questi anni?
Sì, è cambiato. Oggi viene e ti dice: «Fai tu», oppure gli dici gin, whisky, mezcal,tequila, pisco e inizia un po’ a sapersi muovere, ti dice: «Fammelo con il gin oppure con il mezcal», bene o male capisce la differenza tra i distillati di base. Il problema è che devi stare attento e devi anche tenere d’occhio i prezzi di vendita.

Avresti mai immaginato che Roma sarebbe cresciuta così tanto per la miscelazione?
Mai. Davvero, mai. Roma ha avuto un evoluzione incredibile. Al livello di ristorazione è al pari di tantissime città europee oramai. C’è una grande offerta, ma il problema è quello che ti ho detto prima, i fondi investiti sono pochi, i soldi che girano sono pochi, è un momento congiunturale stranissimo, perché c’è questa maledetta – chiamiamola così – crisi che persiste: i soldi non girano più come prima, per cui fare i numeri è difficile. Inoltre, per un locale con un concept dietro che apre, ce ne sono altri 20 nuovi che non hanno molto senso. Per cui la gente ci va, rimane scottata, gli lascia i 50 euro della settimana messi da parte per divertirsi ed ecco che il mercato s’inceppa. Se vogliamo, ha più senso investire quando il capitale è minimo e ti rivolgi a un pubblico locale: è vero che crei concorrenza e la gente rimane nel quartiere, ma fai nascere altre realtà e ci metti dentro un’energia sana.

Il salone del Chorus.
Il salone del Chorus.

Un barman che ti lascia sempre a bocca aperta?
Diversi, ad esempio Valentino Longo, che adesso sta al Four Season di Miami, o Damiano Coren, che sta al Tarallucci e Vino di New York.

Un bar in cui ami andare?
L’Octavius del Replay, a Milano, sotto il grattacielo dell’Unicredit. Lì c’è Francesco Cione. Quello è un posto dove mi piace andare: è metallico, ma allo stesso tempo caldissimo, c’è tanto legno. A me piace il mare, la navigazione, e l’Octavius mi ricorda la chiglia di una nave.

Il cocktail che preferisci preparare?
Quello che fa sognare le persone, che gli ruba solo un minuto e mezzo della loro attenzione.

Quello che preferisci bere?
Gin & tonic.

Cosa non deve mai mancare sul tuo bancone?
Sale e pepe. Mi piace molto giocare con questi sapori qui, con i cocktail savory.

Al Chorus che cocktail ti chiedono?
Vodka, molto gin, whisky in miscelazione. E anche tequila. Il mio distillato preferito per lavorare rimane la tequila, e anche la vodka dai, perché funzionano molto con i cocktail savory.

In tanti ormai chiedono gin, whisky, mezcal, rum o tequila come base per i propri drink. La vodka sta scomparendo?
Assolutamente no, la vodka è viva e vegeta, ed è sempre la più venduta.

Che cos’è per te un cocktail?
Pensiamo ad Hemingway, che viene sempre tirato in citato quando si parla di cocktail. Lui chiedeva sempre un Mojito o un Daiquiri. Il cocktail è semplice: è semplicità mentale, di farlo e di berlo.
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