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Mitologie immaginarie ed estetiche post-umane: The Orange Garden

In occasione della personale Heaven 2 Hell di Lu Yang, abbiamo fatto due chiacchiere con Arturo Passacantando e Tommaso de Benedictis, aka The Orange Garden: duo curatoriale che da Roma ha già fatto parlare di sé in mezzo mondo.

Written by Nicola Gerundino il 25 October 2022

Foto di Carla Ciffoni

Place of residence

Roma

Attività

Curatore

Il prefisso post è ormai abusato nel linguaggio contemporaneo, lo si utilizza per ogni virgola che cambia (se mai cambia) quando invece dovrebbe essere associato a processi e dinamiche la cui traiettoria è in procinto di andare inequivocabilmente oltre. Parlando del lavoro del duo curatoriale The Orange Garden il termine post diventa invece imprescindibile e necessario, perché nella sua genericità riesce a includere l’enorme mole estetica e di pensiero da loro mobilitata, perché quelle che si aprono nelle loro mostre sono veramente porte su mondi a venire che nascono da ricombinazioni (e superamenti) di generi e identità, da rimescolanze tra biologico e sintetico, da salti vertiginosi tra trascendenza e immanenza. Il progetto nato dalle menti di Arturo Passacantando e Tommaso de Benedictis ha mosso i suoi primi passi a Roma per poi affermarsi internazionalmente, convincendo, ma non hai mai abbandonato la Capitale. Anzi, qui Arturo ha da poco aperto lo spazio Panetteria Atomica assieme a Carla Ciffoni, Leonardo Gualco e Giordano Boetti. La prima collaborazione tra The Orange Garden e Panetteria ha visto protagonista Lu Yang, artista cinese il cui lavoro ipercontemporaneo fonde videogiochi, anime e nuovi media, con la personale “Heaven 2 Hell” ( visitabile fino al 3 novembre, con apertura dal lunedi al venerdì dalle 16:00 alle 19:00). Occasione imperdibile per una chiacchierata (con Arturo) sulle curatele passate, presenti e future di The Orange Garden, con anche qualche interessane spoiler su quello che accadrà a breve nel panorama contemporaneo romano.

 

Innanzitutto devo farvi i complimenti perché, a mia memoria almeno, una mostra in galleria (e con buona probabilità anche in un museo) che avesse al suo centro un videogioco e tematiche così ipercontemporanee non c'era mai stata. Come siete entrati in contatto con Lu Yang e come avete costruito questo progetto?

Abbiamo incrociato il lavoro di Lu Yang durante lo sviluppo di “Role Play”, una nostra mostra del 2019 realizzata in collaborazione con la Postmasters Gallery dedicata ad artiste che si riappropriano e reinterpretano gli strumenti che vengono utilizzati per plasmare l’idea di “donna”. In particolare, eravamo rimasti colpiti da “Uterus Man”, un’opera che Lu Yang aveva sviluppato tra il 2013 e il 2017 e raccontava di un supereroe che trae i suoi poteri dal sistema riproduttivo femminile. Un lavoro che esiste sia come video che come videogioco arcade. Al tempo ci disse che non si identificava come donna e dunque non gli sembrava giusto partecipare, però rimanemmo in parola per un progetto futuro perché nutriva un profondo rispetto per le nostre mostre. Personalmente sono stato ossessionato dall’idea di portare la sua arte in Italia. Le complessità tecniche dei suoi lavori tendono a spaventare un curatore, ma sono state proprio queste ad attirarmi: il pensiero di costruire il modulo arcade di “Uterus Man” e presentarlo al pubblico romano mi ha tenuto sveglio per innumerevoli notti. Quando poi l’anno scorso ho aperto Panetteria Atomica insieme a Carla, Leonardo e Giordano, ho sentito l’impulso di proporre la mostra come prima collaborazione tra le due realtà. L’intero processo di produzione si è rivelato essere molto simile ai vari livelli di un videogioco. Essenzialmente Lu Yang fornisce tutti gli elementi digitali e dà piena libertà nello sviluppo grafico e fisico della mostra. Ogni volta che le sue opere vengono esibite subiscono quindi una modifica in base all’estetica di chi le sta esponendo. Come curatore quindi si avverte anche un forte senso di responsabilità, considerando che il tutto viene personalizzato in base alla propria visione. Per fortuna questo processo è stato semplificato dal nostro grafico fantastico con cui lavoriamo da anni, Adriano Lucarelli. I vari moduli arcade di “Uterus Man” costruiti in giro per il mondo sono tutti diversi tra loro, ognuno caratterizzato dal segno di chi ha scelto di portarlo in vita.

Quello dei videogiochi è un mondo che vi appartiene? Da un punto di vista artistico quale aspetto vi interessa?

Essendo nati negli anni Novanta – era del boom tecnologico dei videogiochi – entrambi siamo cresciuti giocando e dunque, oltre ad avere un interesse antropologico, penso ci sia anche inevitabilmente anche una connessione emotiva. Da un punto di vista artistico i videogiochi offrono una totale libertà e, per alcuni versi, rappresentano uno dei massimi vertici della potenzialità dell’arte. Spesso la creazione nasce da un desiderio di insoddisfazione nei confronti del mondo in cui si vive: i videogiochi offrono l’opportunità di creare non solo altri mondi, ma interi universi. Un processo libero da tutte le limitazioni fisiche, economiche e concettuali. Nel caso specifico di Lu Yang, i videogiochi offrono la possibilità di riappropriarsi del proprio spazio, della propria immaginazione e identità. Come la costruzione del personaggio in un videogioco di ruolo, la sua pratica si basa su un processo di rivendicazione, ridefinizione e modellatura del proprio corpo attraverso mezzi autonomi. Inoltre, come medium artistico i videogiochi godono di una caratteristica piuttosto invidiabile: possono essere spediti ovunque nel mondo con un solo click. Una delle difficoltà principali nello sviluppo di una qualsiasi esposizione è infatti il trasporto delle opere, un videogioco invece non necessita alcun trasporto, basta solo scaricare un file. Questo lo rende anche un medium più democratico e indubbiamente più accessibile. Mentre i quadri e le sculture risiedono nelle gallerie, nei musei, nelle case e negli studi, i videogiochi possono esistere ovunque, sparsi negli infiniti pc, smartphone, tablet, laptop e gaming console che costellano il nostro pianeta.

 

 

Vi faccio la stessa domanda sugli anime, perché l'estetica e l'immaginario di Lu Yang rimandano indiscutibilmente anche a questo mondo.

Come i videogiochi, gli anime offrono la possibilità di indagare tematiche e condizioni che sono spesso considerate tabù all’interno della società: un’esplorazione che viene trasmessa a un pubblico immenso. Gli anime in particolare, a causa della loro durata e del loro ritmo, offrono il tempo di modellare narrative filosofiche incredibili. Narrative che hanno la libertà di svilupparsi attraverso anni o addirittura decenni, senza essere limitate dalle restrizioni temporali e produttive di cui soffrono i film o le serie tv.

Quando si parla di anime e riflessioni metafisiche, psicologiche e anche tematiche post-gender, non si può prescindere da "Evangelion", di cui si è tornati a parlare recentemente perché ripescato da Netflix. Quanto immaginate abbia influenzato il lavoro di Lu Yang?

So per certo che per Lu Yang è stata un influenza importante, uno dei suoi personaggi infatti indossa un’armatura mobile per sconfiggere i nostri desideri capitalisti. “Evangelion” è stato un momento chiave per l’anime in generale, portando avanti un’esplorazione interiore ed emotiva. Ha avuto anche l’abilità di trascendere le culture e diventare un riferimento generazionale, come se fosse una rappresentazione del nostro immaginario collettivo.

Ci sono state anche altre influenze al di là di "Evangelion"?

Penso che le opere di Lu Yang siano influenzate da tutta la storia dell’arte fino a oggi e da tutta quella che ipoteticamente potrà venire. I riferimenti più ovvi sono gli anime e i videogiochi, ma se si guarda con attenzione è possibile trovare elementi appartenenti alla religione buddista o ai quadri rinascimentali. Penso però che l’idea portante di Lu Yang sia quella di esplorare le possibilità del nostro futuro, quindi, più che da ciò che è già successo, è ispirata da ciò che ancora può succedere.

L'idea di distruzione e reincarnazione in più entità e mondi possibili, di reinvenzione della vita al di là dei generi e delle specie, era alla base anche di un altro lavoro che avete curato a Londra e realizzato da Agnes Questionmark, più vicino alla biologia che al digitale immateriale (e quindi spirituale) di Lu Yang. Ce lo potete raccontare?

“Transgenesis” è stata una performance e installazione che abbiamo curato in un centro sportivo abbandonato a Londra. Qui Agnes Questionmark ha performato per ventitré giorni incarnando una creatura ibrida, mezza umana mezza cefalopode, e il centro sportivo, che si trovava al centro di Camden, è stato trasformato in un laboratorio ipotetico per esperimenti su creature post-umane. Da tempo lavoriamo con Agnes Questionmark, curando e producendo molte delle sue performance, partendo dalla sua prima personale, “Squid Dinner”, nel 2018. Ci accomuna l’interesse nell’esplorare le potenzialità del genere umano, da una prospettiva antropologica, ma sempre di più anche da una biologica. Ci piace costruire mitologie immaginarie che possano poi riversarsi nel mondo reale. Il progetto è stato estremamente ambizioso, anche perché abbiamo svolto il lavoro di curatori, produttori e tecnici. Senza dubbio il gesto di forza da parte di Agnes Questionmark – performare per ventitré giorni, otto ore al giorno – ci ha motivato a dare tutto. Il processo di sviluppo e produzione di questa mostra penso sia stato più paragonabile alla creazione di un film che di una normale esibizione. Ma, a differenza di un film, questo era un luogo fisico, vivo e visitabile gratuitamente. Ovviamente tutto questo è stato reso possibile grazie a innumerevoli collaboratori: Jonny Tanna di Harlesden High Street, che ci ha regalato un posto altrimenti introvabile; Charlie Mills, con cui abbiamo curato la mostra; Magnus Westwell, young associate della Sadlers Wells che ha coreografato una performance speciale; Erica Curci, che ha sviluppato i costumi per i performer; Portamento, che ha sviluppato il sound design.

"Transgenesis" è stato un punto di svolta o solo una tappa, seppur fondamentale?

Entrambi. È stato una tappa fondamentale perché frutto di un nostro percorso con Agnes Questionmark che si è sviluppato in maniera estremamente organica attraverso gli anni. Una conferma delle nostre abilità, del nostro affiatamento e di come il nostro approccio lavorativo (non ortodosso) possa portare a dei risultati inaccessibili attraverso i meccanismi tradizionali dell’arte contemporanea. È stato anche un punto di svolta perché, inevitabilmente, quando hai più 3.500 visitatori le cose iniziano a cambiare. “Transgenesis” è stato anche la testimonianza di una società pronta per discussioni e dialoghi sulla nozione di un mondo post-gender e post-umano, di un vero interesse per tematiche che possono aiutare a mettere in discussione alcuni dei nostri meccanismi sociali più datati. Solitamente le mostre vengono visitate da una tipologia specifica di persone, un progetto come questo” invece può diventare qualcosa che va oltre, qualcosa con cui tutti possono dialogare. Quest’anno il video di “Transgenesis” (che ho diretto) è stato proiettato sugli schermi dei Piccadilly Lights di Londra e su altri maxischermi a Berlino, Seoul e Melbourne. È stata un’emozione unica costruire un progetto in un luogo oscuro e nascosto della città e poi vederlo proiettato nella sua piazza principale.

Qual è stata la prima mostra che avete curato?

La prima mostra che abbiamo curato e prodotto si chiamava “Emergenza”. Penso sia nata da un nostro senso di emergenza, appunto, verso la società, verso noi stessi e verso la città di Roma. In realtà è anche nata in maniera un po’ assurda: un nostro vecchio socio, Alberto De Rita, era a conoscenza di questa famiglia che aveva in gestione quattro sale affrescate di un palazzo accanto al Pantheon. Le sale erano adiacenti a un loro ristorante ma non venivano utilizzate in alcuna maniera, se non per ospitare orde di mobili e oggetti inutilizzati. La nostra intenzione era quella di prendere in gestione tutto lo spazio. Andammo là con un proposta per un anno intero, ma il proprietario ci disse che ce lo avrebbe concesso solo per una sera. Organizzammo questa prima mostra con alcuni degli artisti con cui abbiamo poi continuato a lavorare negli anni e vennero all’incirca 200/300 persone: non ci sembrava vero! Da quel momento ci fu chiaro che dovevamo dedicarci a questo. Da un punto di vista curatoriale, “Hyperland” (2018) rappresenta forse la prima mostra in cui abbiamo iniziato veramente a inquadrare le cose. In quell’occasione abbiamo lavorato sulla nozione di “perception management” e abbiamo cercato di esporre i suoi meccanismi, le sue conseguenze e il suo potenziale. Gli artisti in mostra hanno esplorato gli effetti della nostra interazione con i nuovi media, indagando le reti di significazione e la divulgazione delle strategie di rebranding.

Facendo un'ulteriore passo indietro, come, quando e perché è nato The Orange Garden?

The Orange Garden è nato da una necessità primordiale di voler curare e produrre mostre, esibendo artisti emergenti assieme ad artisti stabiliti, creando una nostra narrativa. Una narrativa che fosse delineata da un’idea di arte come opportunità di dialogo per questioni sociali o filosofiche. Il progetto nasceva anche dal desiderio di proporre un sistema diverso da quello dalle gallerie tradizionali: piuttosto che avere la tipica struttura piramidale, ne abbiamo adottata da subito una lineare e semplificata. Siamo due curatori che lavorano direttamente con gli artisti. La scelta di iniziare da Roma era poi inevitabile: al tempo, nel 2016, non c’era nessuno della nostra età che organizzasse mostre e quasi non esistevano spazi espositivi gestiti da persone giovani.

È stato difficile il passaggio da Roma all'estero?

Lavorare all’estero è sempre stato nei nostri piani. Siamo entrambi bilingue: io ho trascorso l’infanzia in America e ho vissuto a Londra per quattro anni, Tommaso è italoamericano e vive a Londra da parecchio tempo. Per noi era una scelta ovvia e, in realtà, a livello organizzativo si è dimostrata anche abbastanza facile. La nostra prima mostra a Londra è stata “Strawberry Hill” (gennaio 2020), ispirata al primo palazzo di architettura neogotica realizzato dallo scrittore Horace Walpole. Abbiamo trovato questo vecchio party shop abbandonato vicino a Pimlico, con un pavimento a sacchi e uno scantinato con una moquette viola: un sogno! Quella mostra ci ha portato a conoscere Jonny Tanna, il fondatore di Harlesden Highstreet, grazie al quale poi abbiamo trovato il centro sportivo abbandonato per “Transgenesis”. La difficoltà principale che immaginavamo di incontrare era quella di non trovare gli spazi, processo che invece si è rivelato molto più semplice del previsto. Il tempo rimane invece un grande problema! Con tutte le mostre che vorremmo fare sia in Italia che all’estero ce ne servirebbe molto, molto di più.

Dal momento che difficilmente Roma diventerà un luogo di grandi gallerie e capitali, quale potrebbe essere il suo ruolo ideale?

È quasi impossibile indovinare ciò che diventerà Roma perché, in un certo senso e da un punto di vista artistico, si tratta di una città in continuo mutamento: artisti locali e internazionali, come galleristi e curatori, vanno e vengono. Quello che è certo e che molte delle cose che nascono a Roma potrebbero nascere esclusivamente a Roma, come ad esempio i Brama, collettivo multidisciplinare la cui espressione coniuga musica, teatro, performance, videoarte, danza, letteratura e i social media. La loro capacità di rappresentare la contemporaneità e avere una connessione tangibile con il passato è un dono che gli è stato concesso da una città senza tempo. Un altro esempio di questa unicità romana potrebbe diventare il Baronato Quattro Bellezze, un vecchio locale di cabaret creato da Dominat – Antonio Iacono, una delle prime drag queen italiane che ha recitato nei film di Fellini – che verrà ora riaperto da Giacomo Mancini ed Emiliano Maggi dei Salò assieme a Carlo Pratis di Operativa. Questa mutabilità di Roma si materializza poi in eventi come Roma Diffusa, un festival che si è svolto verso la fine di settembre e che ha visto l’attivazione di gallerie, spazi espositivi, assieme a studi di artigianato, ristoranti e locali, nelle strade di Trastevere.

Del panorama artistico contemporaneo di Roma cosa ne pensate?

Pensiamo che al momento Roma stia vivendo un momento di rinascita post-pandemia: la citta è risorta. Al momento si sta riempiendo di artist-run space e studi condivisi, cosa che un paio di anni fa era incontemplabile. Si stanno costruendo una moltitudine di realtà indipendenti che iniziano anche a contaminarsi. Penso a Post Ex, Porto Simpatica, SPAZIOMENSA, CASTRO etc. Per quel che riguarda i singoli artisti, sicuramente citerei Giulia Mucci, regista di film sperimentali girati interamente su pellicola.

C'è un quartiere di roma a cui siete legati o che vi capita di frequentare spesso?

Se dovessimo scegliere un unica zona, sicuramente sarebbe quella che abbraccia il Centro Storico e Trastevere, dove trascorriamo la gran parte del nostro tempo. Siamo anche molto legati all’Aventino e al Giardino degli Aranci, luogo dove abbiamo passato molti dei nostri pomeriggi da adolescenti e da dove deriva il nostro nome.

Qui a Roma, assieme ad altri compagni di ventura, hai dato vita a un nuovo spazio lo scorso anno, Panetteria Atomica. Cosa ci puoi dire a riguardo?

Il progetto di Panetteria nasce durante l’estate del 2021. Da tempo io e la mia ragazza, Carla Ciffoni, eravamo interessati ad avviare un progetto curatoriale comune. Insieme ci occupiamo del management e della direzione artistica dei Brama e nel 2021 abbiamo già sviluppato e prodotto con mio fratello, Piero Passacantando, “Psychodelich Kitchen”, una serie di cucina sperimentale che presenteremo sempre a Panetteria a fine novembre. Data l’incredibile sintonia che abbiamo avuto, ci è sembrato ovvio iniziare a cercare un luogo dove sviluppare le nostre idee. Quell’estate ci siamo visti con Giordano Boetti e Leonardo Gualco del GB Group. Ci hanno iniziato a parlare di uno spazio che stavano utilizzando come studio e immediatamente gli abbiamo proposto di usarlo come luogo espositivo e progettuale. Si sono mostrati estremamente entusiasti e dunque ci siamo attivati subito. Dopo una serie di mostre e performance ci siamo resi conto che, per il tipo di direzione che stava prendendo il progetto, avremmo avuto bisogno di uno spazio più grande e più versatile. Dopo una lunga ricerca sono riuscito a trovare una fantastica vecchia agenzia di viaggi a Piazza dell’Orologio. Non so esattamente che tipo di agenzia fosse, considerando che ha una cripta di 45mq… Alla base del di Panetteria Atomica c’è una voglia comune di sperimentare. Sperimentare in maniera totalmente libera, anche rispetto alla tipica idea di programmazione di una galleria. Essenzialmente è uno spazio autonomo, dedicato alla sperimentazione artistica.

A cosa lavorerete prossimamente con The Orange Garden e cosa invece proporrete in Panetteria?

Con The Orange Garden stiamo lavorando a una mostra collettiva e in contemporanea a un nuovo progetto con Agnes Questionmark che presenteremo a Spazio Serra a Milano. Da Panetteria invece, dal 17 al 20 novembre ospiteremo un’audio-visual experience firmata da Palazzi D’Oriente e Nic Paranoia: sarà un’estensione del concept album “Sheltering Waters” di Palazzi D’Oriente per il quale Nic ha sviluppato la direzione artistica. L’intero spazio verrà trasformato attraverso l’esposizione e l’installazione di tutti gli elementi visivi e sonori che compongono il disco. Per ognuno dei tre giorni poi, all’interno della cripta verrà ospitata una performance musicale di Palazzi D’Oriente con diversi special guest.

Tornando e chiudendo con "Heaven 2 Hell", tra le attività collaterali c'è stato anche un torneo che metteva in palio l'uso libero di Panetteria Atomica per ventiquattro ore. Chi ha vinto?

La nostra intenzione è di creare eventi ed esperienze che permettano al pubblico di vivere ogni mostra ospitata da Panetteria, esplorando i concetti presentati e rendendo lo spazio dinamico, mutevole. Ad esempio, per la mostra che abbiamo prodotto e curato quest’estate, “Struttura Restaurativa in Tre Atti” di LU.PA, come evento collaterale abbiamo organizzato una serie di incontri di braccio di ferro tra artisti e curatori. Quindi ci sembrava ovvio proporre un torneo del videogioco di Lu Yang. La scelta di offrire lo spazio come premio viene da una mia curiosità nel vederlo utilizzato con idee e modi che, in un certo senso, sono al di fuori del mio controllo. Sono felicissimo perché il torneo è stato vinto da un bambino che veniva tutti i giorni a giocare a “Uterus Man” e ha scelto di utilizzare lo spazio per festeggiare il carnevale. Quindi il 21 Febbraio 2023 presenteremo una festa di carnevale ideata da un bambino di otto anni.