Dici Letizia Battaglia e pensi subito a due cose: all’orgoglio di essere rappresentati all’estero da una così alta figura culturale, e alla fotografia impegnata – più precisamente di mafia. Le due cose, si capisce, sono strettamente interconnesse: difficile infatti provare a parlare, rappresentare, fotografare la mafia senza assurgere a modello civile, comportamentale, morale. Eppure la lotta alla mafia di tutto avrebbe bisogno meno che di questo afflato retorico e farisaico: né dei vari Pif che vincono premi giocando a fare i Roberto Benigni degli Anni Zero, né dei Saviano tuttologi che arrivano ad avere un’opinione informata su tutto (e su tutto sono intervistati). Per questo dispiace che Battaglia pare troppo spesso venire spogliata della sua figura di artista testimone (che non lo siano tutti gli artisti forse, dei testimoni?), per vestire i panni del castigatore paladino dell’antimafia. Mentre invece le sue foto in bianco e nero sono cariche di grigi. Basterebbe ricordare le parole del mai troppo compianto Leonardo Sciascia: «La contraddizione definisce Palermo. Pena antica e dolore nuovo […]. La mafia che distribuisce equamente lavoro e morte, soperchieria e protezione.»