Post Zang Zuum Tumb è il titolo suggestivo ma un po’ fuorviante della bella mostra che ha aperto alla Fondazione Prada a cura di Germano Celant. Avrebbe potuto chiamarsi ‘Giovinezza’ o ‘Camicia nera’. Non è infatti ‘la grande mostra sul futurismo’, come ha scritto qualcuno, ma racconta piuttosto il rapporto tra artisti, architetti e (in piccola parte) intellettuali e il Regime fascista. Lo fa in maniera encomiabile: ricostruisce gli ambienti delle mostre, fa emergere dagli archivi documenti e fotografie, si sofferma sulle new town fasciste. Approfondisce gli artisti più importanti del periodo (Sironi, Morandi, Carrà, Arturo Martini, De Chirico, Savinio), contestualizzandoli nella loro epoca e nell’importanza che avevano in quel momento. Ebbene il dato principale che emerge è che erano tutti, tranne qualche eccezione, fascisti, ma lo erano in maniera convinta, felici di partecipare alla grande narrazione autarchica del regime in cui si convogliavano ruralismo e fordismo, modernità razionalista e avanguardie disinnescate. Dopo il liberty, movimento internazionale, si tornava a un’arte italiana, con premi, prebende, accademie. Il rappel à l’ordre è volontario (Soffici docet). Come non accomodarsi? Come non sentirsi al sicuro? Fa un’impressione quasi macabra rivedere i sempre bellissimi Sironi nelle prime sale. Tutti fascisti, tranne, certo, Carlo Levi e in genere i torinesi che non spezzarono il legame con Parigi. Che boccata d’aria sono nel nero di questa mostra gli indifferenti all’ideologia come De Pisis su tutti, ma anche il gentile Fausto Pirandello e Capogrossi. Caso a sé ė Morandi, eletto campione di antifascismo – esattamente come Montale – da una generazione più giovane, stufa degli eccessi di retorica fascista (c’è un bellissimo epicedio di Cancogni che lo spiega bene). Fascisti gli architetti e i grafici: pronti a colonizzare l’Africa, a narrare il benessere fascista, il protoconsumismo nelle affiche (Nizzoli a cui Celant dedicò il suo primo libro). Sappiamo che alcuni pagarono tragicamente di persona (Pagano, Terragni, Banfi), ma altri passarono a ricostruire l’Italia repubblicana senza farsi delle domande. Il grande Nervi è solo un tecnico? Sala dopo sala la mostra racconta l’epica fascista ma anche la sua quotidianità, i piccoli maneggi degli artisti, le riviste, gli strumenti del facile consenso. Un po’ inutile mostrare i libri appartenuti a Gramsci, fa più riflettere il famoso busto di Toscanini di Adolfo Wildt: strano che il Maestro non l’abbia ripudiato, carico com’è della retorica del Grand’Uomo.
Nell’ultima sala qualcosa cambia, ancora prima degli sberleffi di Maccari al duce (anche se fa l’effetto dell’allievo birichino che si prende gioco del maestro quando è appena uscito dalla classe), dei disegni dal lager di Cagli e Aldo Carpi. Sono le opere dei giovani (Emilio Vedova) cresciuti nel Ventennio. Non so con quanta malizia Celant abbia esposto un ritratto del giovane Alicata di Guttuso. Ricordate l’epigramma di Fortini: “Ali, Alicata. Salinari, sali”. Insomma, si preparano nuove servitù.
La mostra mi pare speculare ad Annitrenta, la famosa mostra del 1982 a Palazzo Reale. Allora si trattava di recuperare ciò che di buono e di ‘moderno’ si fece nel Ventennio. Questa mi pare che possa essere interpretata come un richiamo ai valori della democrazia, sgangherata finché si vuole, ma che non innesca campionati di servilismo e di autocensura.
Unico neo di questa mostra bella e importante il costo del catalogo: 90 euro. Democrazia per gli happy few?
Scritto da Alberto Saibene