Chissà come mai la moda nei nostri musei è sempre entrata (quando ci è riuscita) solo dalla porta sul retro. Se sia dovuto alla cronica incapacità dei nostri designer di fare sistema, o all’inettitudine dei nostri – invero stimati – curatori di portarla dentro le ambite sale. O se perché, semplicemente, ai vari Valentino e Versace di essere musealizzati in vita interessa assai poco. Fatto sta che ultimamente questo refrain torna spesso a fare capolino nel luogo in cui più spesso la critica di moda nostrana si esprime: Instagram.
Magari è per quel classico meccanismo di rifrazione, leggi “echo chamber”, che ci fa notare che tutti parlano di un tema proprio quando ci stavamo pensando anche noi, ma insomma, ultimamente, come direbbe Galileo, qualcosa “eppur si muove”. E così, prima la Galleria Nazionale – della mai abbastanza lodata Cristiana Collu – ora il MACRO a guida Luca Lo Pinto, cominciano a esplorare figure assolutamente inedite nel panorama internazionale di artisti a tutto tondo, come da concetto Rinascimentale, che di volta in volta hanno saputo trasformarsi in designer, stilisti, studiosi senza timore di risultare poco seri, ma anzi, assolutamente convinti che l’arte o si dà così, completa e concretamente pronta a muovere i passi anche nel mondo degli “oggetti”, o non si dà.
Ed è a questa nobile schiera di creativi, nel senso più puro del termine, che Cinzia Ruggeri, la protagonista della monografica del museo di via Nizza, appartiene. Un’artista la cui pratica multiforme è sempre stata animata dal desiderio di ridefinire lo status di ogni elemento della quotidianità per sovvertirlo e comprenderne le potenzialità espressive, ma anche per restituire una dimensione architettonica e sociale al corpo. Va detto che operazioni di questo tipo hanno spesso un mecenate alle spalle, e in questo caso il mecenate che questo Paese che tiene la moda fuori dai musei (non) si merita è Gucci. Se non è ironia questa…
Scritto da Enrica Murru