Nel 1993 avevo 16 anni e visitai per la prima volta la Biennale di Venezia. Ero rimasto affascinato dalla riproduzione di alcune immagini pubblicate sulle riviste d’arte, in particolare quelle legate a un ciclo di video e fotografie intitolato Drawing Restraint 7, opera del giovane artista Matthew Barney. In quelle immagini si vedevano figure cornute di fauni in lotta tra loro, con i corpi pallidi e muscolosi, tesi dallo sforzo del combattimento. C’era qualcosa che mi parlava direttamente, una strana forma di erotismo che metteva in discussione gli stereotipi sulla mascolinità con cui ero cresciuto. I tre monitor esposti alle Corderie dell’Arsenale restituivano un’azione cinematografica, molto diversa dalla qualità amatoriale di gran parte dei video che potevo osservare lì intorno. La performance dell’artista era destinata a essere osservata unicamente dall’obiettivo della telecamera, e si svolgeva negli interni di una Limousine in corsa, e non quindi in una galleria, in un museo o in un qualche tipo di spazio pubblico. La qualità estetica delle inquadrature, i movimenti, la cura nel trucco e nelle protesi, rivelavano per me un chiaro approccio cinematografico; l’artista non si limitava a immaginare una performance ricca di simbolismi, ma la calava in una dimensione atemporale e misteriosa, che io trovavo estremamente coinvolgente.

L’anno successivo Barney iniziò a produrre un ciclo di cinque film denominato Cremaster in cui le sue ossessioni, in particolare il parallelismo tra prestazione sportiva e creazione artistica, venivano rielaborati e arricchiti da una moltitudine di riferimenti che oscillavano tra la cultura cosiddetta alta e quella più dichiaratamente pop o underground, dalle tradizioni Irlandesi alla musica hardcore, dall’immaginario sportivo alla ritualità massonica. Per me era impossibile poter vedere quei film nella loro interezza: internet non era ancora quello di oggi, e in quanto ragazzo di provincia potevo solo immaginarli a partire dalle riproduzioni che venivano diffuse sulle riviste. La serie venne conclusa nel 2002 in occasione di una grande mostra personale al Guggenheim Museum di New York. L’imponente catalogo, che accompagnava l’esposizione, e la visione dei primi episodi che iniziavano a circolare clandestinamente, mi dava finalmente la possibilità di svelare il mistero che mi aveva sedotto per più di dieci anni.
La maestria con cui i simboli e i riferimenti riuscivano a richiamarsi l’uno con l’altro, in una dimensione fatta di ripetizioni ed enigmi, in cui i singoli significati rimanevano inalterati.
La lentezza di quei film, in netto contrasto con la velocità dei video musicali e dei film di Hollywood, mi apparve come una forma di resistenza, e per molto tempo ho riconosciuto in quella pulsazione temporale, in quella sfida alla capacità di attenzione degli spettatori, una delle qualità fondamentali che la videoarte agli inizi del 2000 doveva possedere. Poi c’era la maestria con cui i simboli e i riferimenti riuscivano a richiamarsi l’uno con l’altro, in una dimensione fatta di ripetizioni ed enigmi, in cui i singoli significati rimanevano inalterati. In un’epoca di remix come quella che viviamo da diversi decenni, dove tutto viene frullato e giustapposto, Barney è stato, se non il primo, tra i primi artisti a riuscire a unire elementi così distanti tra loro, in un universo inedito, coerente e personale. L’artista si mette nei panni di altri, assume altre identità, incarna figure leggendarie e religiose ma anche storicamente esistite, non per rappresentare una soggettività, ma per diventare la metafora vivente di processi organici che dall’interno del corpo si manifestano all’esterno del corpo stesso, con azioni ripetute, come ciclici sono i processi digestivi o riproduttivi. Sono figure che esistono cinematograficamente in luoghi che sono a loro volta personaggi, scelti per la loro attinenza con il grande progetto narrativo che Barney ha sviluppato coerentemente dall’inizio della sua carriera artistica; un’opera totale (che comprende anche sculture e disegni) che vuole e deve raccontare allo spettatore proprio come il cinema ha sempre fatto.
Sabato 24 maggio, ore 16:30, l’artista statunitense è protagonista di un incontro con Paolo Moretti e Katya Inozemtseva, Head of Curatorial Department di Fondazione Prada, dedicato a uno dei suoi lavori più emblematici e controversi, il ciclo di Cremaster (1994 – 2002).
Scritto da Daniele Pezzi