Paulo Pjota, brasiliano quasi trentenne, sceglie i supporti tra gli scarti, usa materiali poveri, colori acrilici, reperti archeologici, riprende elementi visivi di strada e linguaggi popolari, mescola suggestioni per stimolare una riflessione sull’imperante cultura dell’immagine. Niente di originale, a sentirla così. Però le sue opere sono belle. Sono misurate, composte con eleganza, e invece di bombardare l’osservatore o confonderlo furbescamente, suggeriscono, accennano, evocano quella riflessione, mettono in moto una sorta di meccanismo critico che parte dall’immagine stessa e dal dialogo tra gli elementi dell’opera, e si sviluppa in direzioni casuali e imprevedibili. Se l’originalità non è un criterio di valutazione valido, la bellezza per fortuna resiste, e la forma può diventare sostanza.