Nel bel mezzo dei palazzoni che fanno crescere Milano in verticale, c’è una piccola resistenza gastronomica. Contrappasso alla cementificazione, al denaro, alle buone maniere, c’è Tomaso una trattoria impassibile a gentrificazione e speculazione immobiliare, dal 1961. Svetta metaforicamente come Davide in mezzo a Golia, cattura l’attenzione di chi passa davanti magari di corsa, piccola vetrina che non si vergogna del passare del tempo. Tomaso è un nervo scoperto, un po’ un pugno dritto allo stomaco per chi ormai è addomesticato ad altri usi e costumi, perché Tomaso non te le manda a dire anzi ti guarda dritto in faccio appena varcata la stretta porta e con fare scorbutico tuona: “Noi non prendiamo prenotazioni al telefono, se siete stati voi a chiamare poco fa potete anche tornare a mangiare le vostre porcherie poco distante da qui”. All’orecchio dell’imbellettato e ignaro lavoratore può suonare come un sacrilegio, ma invece tutti sanno che Paolo – alla conduzione di questo ristorante insieme alla moglie Licia e il figlio Andrea in cucina – è così. E basta. Come un teatro del grottesco, un po’ commedia all’italiana, con i ruoli sempre fissi e immutabili, Da Tomaso è quel posto che sfugge ai canoni classici del panorama gastronomico milanese. Semplicemente perché appartiene a un altro mondo, che forse non c’è più.
Come le trattorie di una volta è aperto solo a pranzo e ci lavora dentro questa famiglia succedendosi da tre generazioni. Si dividono tra sala, cucina e cassa. Sparecchiano, fanno il caffè, portano 10 piatti contemporaneamente, prendono gli ordini su fogli sparsi, si insultano tra di loro, litigano tra di loro, poi sorridono e tutto procede immutato perché immutato vuole essere. Due gran lavoratori. La forza di Tomaso infatti è proprio questa: una trattoria semplice, quasi di provincia, con una cucina casalinga e a basso prezzo. La fila che si forma fuori è sempre sintomatica di un posto genuino e alla buona. Si mangia come a casa, forse peggio, forse meglio. Dipende da come siete abituati. La formula è tutto compreso a 12 €. Spaghetti al ragù o al pomodoro, arrosto di vitello, bollito e salsa verde, verdure come contorno. Quando il cibo finisce Licia mette alla porta un cartello: “cibo finito”. Inconfutabile. E se provate a entrare son guai divertenti. Mi dicono che qui fino a qualche anno fa i maghi della città si radunavano ogni venerdì: illusionisti, prestigiatori, per il dopo lavoro che preannunciava il weekend. Poi con il tempo si son visti meno, i motivi nessuno li sa, certo – mi dicono – che di maghi ce ne son sempre meno in città.
Il sig. Paolo l’ultima volta mi ha condiviso il suo punto di vista sulle prenotazioni e ho apprezzato molto il finale con invettiva sui gastro fighetti: “Tutti chiamano al telefono per prenotare, ma non funziona così. Io non posso passare la mia vita al telefono quando ho un ristorante da mandare avanti. Se uno vuole mangiare qui, viene si ferma e mi prenota per il giorno dopo. Poi che dire di quelli che vengono e si lamentano del locale, perché è vecchio, perché non è alla moda. Andate da un’altra parte gli dico”. Fermo e stoico come una roccia ateniese, Paolo è l’oste che meriterebbe una retrospettiva di quelle antologiche. Più unico che raro, è la colonna portante di questo posto, da oltre 60 anni a sgattaiolare tra i suoi tavoli, al bancone del bar, alla macchina del caffè. E non chiedete mai di portarvi il caffè al tavolo, la risposta sarà: “Alzatevi e venite al bancone, non siete capaci?”.
Da Tomaso è quel posto verace e genuino che ci ricorda da dove veniamo. In un mondo dominato dalla voglia di lasciar il segno e sorretto dalla forsennata volontà di far perdurare la “tradizione”, Tomaso è quel film in bianco nero che continui a vedere. L’essere anacronistici in un mondo che va tutto al contrario è prerogativa riservata solo ai migliori, e Tomaso è sicuramente uno di essi. Gastro fighetti muti.