Quante volte siamo partiti DA ZERO?
Quante volte eravamo lì, abbiamo visto cambiare tutto ma ce ne siamo resi conto solo dopo, come se fosse successo per magia? Qual è il segreto?
Zero riparte dalla città, in un viaggio avanti e indietro sulla linea del tempo. Dagli ultimi 30 anni del passato, da cui sembriamo lontanissimi e da cui prendere il meglio. Dal presente in cui è impossibile andare avanti, è impossibile tornare indietro, in cui siamo immobili e soffriamo. Dal futuro che pretende immaginazione.
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«E tu, perché non vieni a vivere a Roma Est?». Si chiudeva così una sorta di appello video, uscito ormai qualche mese fa, con nomi più o meno noti della scena e allusioni in forme di domande più o meno esplicite (praticamente una delle poche cose che ci hanno fatto sorridere finora nel 2020). Un video tra il laconico e il sarcastico – interpretato magistralmente da Emmanuel Bonetti: nome d’arte Bob Junior, per gli amici Manu, in poche parole uno dei pilastri della cultura underground romana – che giocava anche con una certa autoreferenzialità della scena ma che poi, oltre a certi peccati veniali, ne incarnava soprattutto le virtù. Indisponente, ironico, lascivo, onirico e collettivo in maniera naturalmente scomposta, uno stile di vita più che uno slogan hip fuori tempo massimo di un’agenzia immobiliare: l’epilogo del “questionario tabù” è un po’ come la scena stessa di Roma Est, con quel senso di vissuto e sopravvissuto, con quella lista di nomi e ricordi sfocati che si sovrappongono, con quella conclusione che sa un po’ di provocazione, un po’ di invito alla condivisione (“Who’ll join my tribe?”, per dirla con gli Holiday INN), di resistenza necessaria ma non ideologica. Come gran parte dei momenti e movimenti che hanno lasciato un segno su Roma, anche la “scena di Roma Est”, fotografata nel 2011 con la compilation “Borgata Boredom”, non è certo stata solo l’espressione artistica e non allineata di un (in)determinato gruppo di persone. Soprattutto, Roma Est è (stata) cartina tornasole di una serie di mutazioni sociali, rappresaglie per mano delle sottoculture, vuoto e ignavia politica, fotografia di un determinato momento storico (invero poi abbastanza dilatato e che pertanto da allora ha subito qualche trasformazione) e, beh, in questo caso con connessioni geografico/urbanistiche non proprio trascurabili.
Fuori da ogni speculazione socio-leggendaria già ampiamente abusata, a tal proposito ci corre l’obbligo di ricordare (se ce ne fosse ancora bisogno) come l’espressione “Roma Est” non abbia avuto un impatto su Roma solo in termini di nuovi spazi, gruppi, pubblicazioni, suoni, rassegne, etichette e festival controculturali, insomma in termini di nuovi contenuti fantasticati e poi addirittura anche concretizzati, come più o meno avviene per la gran parte delle scene artistiche; “la scena di Roma Est” non si è neppure limitata ad assecondare le fisiologiche spinte centrifughe tipicamente romane, come già successo nel decennio precedente con i rave legali e illegali e i CSOA, che ricollocavano il centro della produzione dell’intrattenimento dal basso verso la periferia – o almeno verso quella che, a questo punto quindici/venti anni fa, era ancora una zona perlopiù misterica e marginale come quella su cui si estendono Pigneto, Torpignattara e Centocelle. Roma Est – la scena, il luogo dell’anima, l’idea, la metafora di vita, la riscoperta appartenenza pasoliniana, l’immaginario estetico – si insinua nella millenaria (vabbé, forse centenaria) dicotomia tra Roma Nord e Roma Sud, gli unici poli non solo geografici ma pure attitudinali, politici, culturali, sociali, finanche calcistici in cui la città nel tempo si è riconosciuta, divisa e pensata, talvolta con ironia, quasi sempre prendendo questa riduzione manichea dei punti cardinali terribilmente sul serio. L’espressione “Roma Est”, resa tangibile e reale per mano (allora probabilmente inconsapevole) di un manipolo di musicisti, artisti bizzarri, agitatori culturali in erba nati, cresciuti o amabilmente adottati da quell’angolo di borgata, emerge dalle foschie oppiacee del Pigneto affermando l’esistenza/evidenza di un “terzo polo” all’interno di Roma. Un polo che nel giro di due/tre anni stravolgerà equilibri creativi, economici e urbani, dando una nuova, (in certi casi relativa) consapevolezza social-urbanistica al romano medio: l’esistenza di una certa zona di Roma, che a un certo punto da terra semi-desolata diventerà il luogo in assoluto più difficile dove trovare parcheggio il sabato sera.
All’alba dei Duemila, mentre nel centro sfiammano (e poi bruciano) esperienze underground come quelle degli spazi occupati legati alla creazione artistica e performativa, ma anche come quella della serata Phag Off di Testaccio, la “trasformazione da quartiere popolare in zona abitativa di pregio, con conseguente cambiamento della composizione sociale e dei prezzi delle abitazioni” punta dritto ed esplode al Pigneto. La gentrificazione, insomma, è lentamente in atto mentre a metà Duemila Roma Est – il luogo geografico, ma pure la scena “off” che sarà e l’associazionismo che ne diventerà cifra peculiare – prende in eredità la voglia di contaminazione di linguaggi, di esplorazione e di “possibilità”, di affermazione di nuove pratiche e ibridazioni artistiche sotterranee e figlie del caos, del do it yourself, ma pure l’edonismo e il bisogno di condivisione, di collettività, di fare rete, che erano state proprie dei movimenti venuti prima di lei (e in particolare che erano stati propri dei centri sociali, ancora scossi dagli episodi di Genova o ormai “abituati” ai grandi numeri, e di diverse tipologie di spazi occupati come Rialto e Angelo Mai).
A quasi 15 anni dall’apertura del primo Circolo del Pigneto e a 9 dalla pubblicazione della compilation che portò le gesta della scena ben oltre il Grande Raccordo Anulare, in una città in cui opportunità e spazi creativi faticano a durare e sopravvivere manco fossero nati nel centro di una palude, Roma Est non solo è a suo modo ancora viva e autosufficiente, non solo presente in termini di resistenza sociale attiva sul territorio con forme espressive che da quella “Borgata Boredom” si sono poi trasformate e hanno dato nuovi input, ma resta l’ultima realtà identitaria di produzione artistica dal basso, di esistenza culturale, partorita dalla Capitale e con ancora delle buone energie in circolo, addirittura ancora con una rete di visioni condivise che con mille cortocircuiti continuano comunque a portare bei concerti di musica underground in città, a creare forme di resistenza temporanea (anche in tempi di emergenza sanitaria, come l’esperienza di Radio Bad Peace del Fanfulla 5/a o il supporto del 30Formiche alle fasce più deboli della cittadinanza attraverso il circuito di volontariato dell’Arci), a immaginare residenze estive (il D’Ada Club di Villa Ada), a rinnovare festival scoppiati (il BABA come l’Invasione Monobanda). E no, identitario non significa monolitico e uguale a se stesso, ma riconoscibile (anche nella sua schizofrenia) e autonomo in termini di suggestioni verso l’hype; e no, la trap non è una scena identitaria, nonostante il senso della Lovegang per Trastevere (i trapper o finiscono coi brand o scompaiono nel giro di una stagione). Una scena che si è trasformata, forse ridimensionata, ma che non possiamo (ancora?) considerare implosa o esaurita come molte delle esperienze che hanno animato – e animano a ondate alterne – Roma: e questo, nonostante la chiusura di luoghi imprescindibili come il DalVerme da parte di amministrazioni locali assenti e cialtrone, nonostante un esiguo ricambio generazionale, nonostante l’assalto dei localini e delle barbe abbia reso prima il Pigneto e poi Centocelle simili a un girone infernale per chi, magari da Roma Sud, puntasse al quadrante tra Prenestina e Casilina solo per una dose infrasettimanale di noise allucinato, no wave acida o psichedelia – ovviamente occulta.
L’urgenza di riempire un vuoto, di darsi una casa, di condividere una visione o un problema, di tenere in vita un territorio a cui si appartiene: come per le sottoculture di tutti i tempi, questo è stato il motore di (quasi) tutto ciò che è avvenuto in questo angolo di Roma tra il 2007 e oggi
Per quanto la “scena di Roma Est” probabilmente fosse già in nuce nelle serate Phag Off o in quelle del Blue Cheese a Testaccio, nei live rumorosi di Hup Concerti a La Palma o nei primi tentativi di portare un certo tipo di suoni underground in spazi occupati come lo Strike dei primi anni del Duemila, l’inizio “formale” della scena di borgata è “per comodità” assimilabile all’apertura del Fanfulla 101, a inizio 2007. Il primo di una serie di Circoli Arci che reinterpreteranno l’azione orizzontale, collettiva, caotica, necessaria e dal basso degli spazi occupati, facendo dell’associazionismo la nuova, salvifica espressione di un rinnovamento della produzione culturale underground che, a cavallo tra i due decenni e a pieno regime anche oltre la prima metà dei Dieci, ha salvaguardato l’esistenza a Roma di piccole realtà (anche in termini di suoni internazionali ospitati), stimolato la produzione autoctona, dato vita a una rete di collaborazioni ancora esistenti, esaltato la dimensione a misura d’uomo prima che diventasse trend, generato mostri bellissimi dall’interazione di espressioni artistiche diverse, idee fulminate e un motto perlopiù condiviso tipo “noi con le ideologie ci puliamo il culo”. Il Fanfulla 101 è la prima pietra, ma Roma Est poi non andrà in giro a evangelizzare – se non in rarissimi casi. Saranno gli altri a spostarsi verso la Borgata, affascinati dalle possibilità di esistenza che questa stava rinnovando, inventando, contaminando.
“Vivevamo quasi tutti al Pigneto. Gli affitti erano ancora abbordabili e le strade pittoresche. Sull’isola pedonale l’unico bar aperto la sera era Lo Yeti e chiudeva alle 23.00. Poi tutto spento. Ci muovevamo a San Lorenzo la sera: era il quartiere più attivo nella zona Est della città, anche se in realtà già molto saturo. Al Pigneto, non c’era un “sottobosco” particolare. Solo persone che ci vivevano e che sono uscite allo scoperto quando abbiamo aperto il Fanfulla 101. Gli altri fondatori erano amici incontrati tra San Lorenzo e il Pigneto. Eravamo in cinque con Poppy (Saro Lanucara, NdR), Andrea Milano, Luca Scaramuzzino e Marco Ferrari. Credo che la prima necessità sia stata personale. Non si poteva fare grandi feste a casa senza disturbare i vicini e da qualche anno non si poteva fumare nei luoghi pubblici. Occorreva trovare uno spazio urgentemente. Non c’è stata l’idea di aprire un “locale”, non era la nostra preoccupazione né il nostro lavoro. Ma proprio la necessità di avere uno spazio in comune dove poter fare. (…) Credo che il primo Fanfulla sia stato realmente un circolo. Abbiamo iniziato a chiedere ad amici e conoscenti di partecipare, pensando e proponendo gruppi, progetti, serate, rassegne, etc.. Là ci siamo realmente accorti della ricchezza delle persone che per un motivo o l’altro vivevano al Pigneto. Ed è stato un luogo d’incontro molto fertile e produttivo. Il luogo si è costruito piano piano, anche fisicamente, senza architetto; non c’era una reale direzione artistica, solo dei gusti personali o dei modi. Sempre aperto a proposte varie e spesso assai matte. Non era un “progetto”, era molto più semplice e immediato di un progetto, anche molto meno prepotente”*, raccontava un paio di anni fa Manu, ancora oggi mente lucida e instancabile di Roma Est (anche come musicista con Trans Upper Egypt e Holiday Inn) e concreto promotore di quella libertà espressiva e quella “cordialità” rimasti tratti distintivi del Fanfulla 5/a. L’urgenza di riempire un vuoto, di fare da sé, di darsi una casa, di condividere una visione o un problema, di tenere in vita un territorio a cui si appartiene: come per le sottoculture di tutti i tempi, questo è stato il motore di (quasi) tutto ciò che è avvenuto in questo angolo di Roma tra il 2007 e oggi.
Prima che, tra 2009 e 2010, al Pigneto aprano altri due spazi imprescindibili per la crescita e la resistenza della scena – il DalVerme e il 30Formiche – tra 2006 e 2007 questo sottobosco romano ha già il suo orizzonte sonoro con Cactus, The Intellectuals (entrambi usciti per Hate Records, legata al mitico negozio di dischi Soul Food), Hiroshima Rocks Around, That Noise From the Cellar, Maximilian I, la prima formazione in duo di Bobsleigh Baby e tantissimi progetti noise: formazioni che esprimono un’inconfondibile vocazione al rumore, ma anche un’estesa tendenza a evitare le distinzioni settarie di genere nella musica, mescolando influenze ed espressioni artistiche – e quindi mettendo insieme musicisti, ma pure illustratori, grafici e videomaker. Cominciano ad esserne testimonianza fanzine visionarie come Epoc Ero Uroi, discendenti della gloriosa dinastia delle fanze romane che da Torazine arriva alla sua più recente versione 3.0, DROGA, e le complicate serate Propaganda 666. Un contesto sballato, incontenibile, dai contorni artistici sfumati e dall’attitudine, ci perdoneranno i Nostri per il cliché, tendenzialmente punk, ma comunque sempre attratto da una forza centripeta verso la Borgata, che non a caso è anche il luogo dove sorge il negozio di dischi indipendente più importante di Roma, Radiation Records. Un contesto che forse potremmo provare a sintetizzare con l’aiuto del BABA, il festival di arti esplose più scoppiato della Capitale, ideato nel 2008 dall’indomito Stefano Di Trapani/Demented Burrocacao (innumerevoli le sue identità musicali da solista o condivise, da Trapcoustic a System Hardware Abnormal), insieme a Grip Casino e Alessandra Von Eva, entrambi già attivi con vari progetti musicali, a cui poi diede man forte anche Valerio Mattioli, poi metà degli Heroin in Tahiti nonché illustre giornalista e “teorico” di Roma Est. Un festival, il BABA, nato per portare tutti a Roma Ovest – a Torrevecchia, nei pressi del manicomio di Santa Maria della Pietà, ispirazione primaria della follia dell’evento – ma che poi per ragioni logistiche verrà nuovamente attratto dalla borgatasfera esattamente opposta, ovviamente quella adiacente alla Casilina, che vedrà spesso i vari Circoli ospitare diverse serate del BABA.
Un frullatore di controcultura pop così avanti nel tempo da ospitare le primissime esibizioni di Calcutta e Pop X (e più recentemente dei Tauro Boys), che nel disagio sballato di Roma Est trovarono subito un’accoglienza affettuosa. “Non è molto semplice delineare il contesto, perché ritrovi un po’ tutti dappertutto, dalla produzione dei flyer a quella dei video: Massimiliano Bomba che faceva il flyer della serata Spasticalia di Valerio Mattioli e Nick dove suonava Demented con System Hardare Abnormal e Wolf Anus, ma anche realizzava il video dei Last Wanks con Antonio Giannantonio (Grip Casino) che scriveva come Squaderna sulla rivista Epoc Ero Uroi illustrata da Infidel o Tso, o interpretava i personaggi squilibrati inventati da uno dei principali creatori di Epoc Ero Uroi, Dario Abece, nella saga video di Jhonnentony… Un paesaggio abbastanza schizofrenico e complesso! Era l’epoca pre Borgata Boredom con The Last Wanks, Capputtini ‘I Lignu, Sfhhh, Trouble vs Glue, SHA, Laser Tag, Trans Upper Egypt, Bobsleigh Baby, HRA, Hiss, Grip Casino, Le Truc une Die Maschine, Ginga, Duodenum, i primi Wow. Gran parte di questi gruppi si sono formati al Fanfulla, o dagli incontri fatti al Fanfulla”* . Quando nel 2009 apre il DalVerme, è ufficialmente l’inizio di una nuova era, il rafforzamento di una rete unita negli intenti ma assai diversificata nell’identità, per vocazione incontenibile nei percorsi intrapresi. Tra i vari spazi del Pigneto non c’è un’effettiva concorrenza: ognuno ha una sua personalità, una gamma di suoni e di pratiche predilette, ma è anche aperto e accogliente per tutti. Se nel frattempo il Fanfulla vivrà l’esperienza esaltante del Forte Fanfulla – uno spazio ambizioso composto di cucina, co-working gratuito, sala prove, una mitica distro chiamata Alpacha Distro, incontri, dibattiti, sportelli sociali – e poi il ritorno a dimensioni più ristrette (ma comunque buone per concerti 7/7) con il Fanfulla 5/a, quando apre nel 2009 e fino alla chiusura nel 2017, il DalVerme cristallizza l’espressione di live club dei sogni beh, senza essere un “club”.
Una linea artistica riconoscibile ma variegata, un ottimo suono, buon bere e buon cibo. Forse la cosa che da Milano ci hanno invidiato di più negli ultimi quindici anni. A fondare il DalVerme sono alcuni amici già attivi nel circuito underground romano: Marzia Bonacci, Toni Cutrone (maestro di cerimonie incappucciate come Mai Mai Mai, e ancora prima alla batteria di svariati gruppi di Roma Est – Hiroshima Rocks Around, Trouble Vs Glue, Metro Crowd e oggi anche nella più chiccosa delle creature filiate da Roma Est, i Salò), Andrea Marziano (anche lui negli Hiroshima Rocks Around, poi attivo nel circuito Arci e oggi con un nuovo bar devoto al bere bene in zona Forte Prenestino), Lady Maru (tra i pionieri dei suoni storti coi Dada Swing, poi metà dei Trouble vs Glue, da anni dj techno di varie serate underground romane e berlinesi e strega senior del collettivo Witches Are Back), Claudia Acciarino (attiva con vari progetti noise – Cassandra, xCARACOx, Godog – responsabile di parte della direzione artistica del DalVerme, quella più punk oriented, e oggi alla guida di Inferno Store). Le intenzioni, sono chiare fin dal principio.
“Non so se avevamo aspettative vere e proprie. In mente avevamo già un’idea del da farsi ed eravamo abbastanza sicuri che un progetto del genere a Roma fosse necessario, quindi sarebbe stato apprezzato. E così è stato… Poi ci sono tanti alti e bassi, eh. Ma in linea di massima, sono soddisfatto di quello che è venuto fuori. Quando abbiamo iniziato in particolare, c’era un fermento unico: quello che ha portato ad “immortalare” la cosiddetta scena di Roma Est, per capirsi. Un momento davvero fantastico! Ed è una gran soddisfazione esser stati parte di ciò, un punto di riferimento, un posto aperto agli scoppiati, a cui servivano un motore e una macchina”**. Non a caso, fin da subito, viste le dimensioni del locale, il DalVerme trasferta fuori dalle proprie mura, irrobustendo una rete di rapporti già abbastanza chiara: nell’estate del 2010 con la residenza nel giardino dell’Init, nell’estate del 2011 in quello del Circolo degli Artisti, poi i due anni a seguire nel parco del Torrione Prenestino con la notevole rassegna Pigneto Spazio Aperto, a seguire con il doppio appuntamento a dicembre e aprile di Handmades Festival a Villa De Santis. Fino all’estate 2015, in cui la scena di Roma Est trasferta sulle rive del laghetto di Villa Ada come d’ADA Club, la free area di Villa Ada – Roma Incontra il Mondo, con il DalVerme a spingere suoni underground e psichedelici insieme ai compagni di quartiere Trenta Formiche e Fanfulla 5/a.
Tutt’altro che mera successione di date, luoghi ed eventi, la scena di Roma Est è, piuttosto, un fiume sotterraneo, una corrente feconda e psicotropa, se vogliamo anche il tentativo di mantenere funzionanti, ma perlopiù analogici, umani, tangibili, tutti i processi di creazione controculturale, pure in piena esplosione digitale – anche, ad esempio, con l’attività di etichette ultra DIY molto attente al circuito romano, alla creazione degli artwork, alla realizzazione a misura d’uomo delle release: e quindi NO=FI, Geograph, Selva Elettrica, My Own Private Records. Impossibile però prescindere da due passaggi cruciali, come la già menzionata compila “Borgata Boredom”, licenziata nel 2011 dalla NO=FI di Toni Cutrone, e il festival Thalassa, dal 2013 al 2016. Fotografia di una Roma Est in divenire, la raccolta dal titolo programmatico “Borgata Boredom” – presentata negli spazi più ampi e noti del Circolo degli Artisti – è anche il momento in cui la scena arriva fino al mainstream (con articoli dedicati anche sulla stampa generalista), in cui le sue sonorità contorte, rumorose, talvolta sintetiche, sempre allucinate, arrivano fino a Milano e Torino con un mini tour (peraltro replicato più di recente con gruppi della “seconda ondata” per il Roma NOWhere).
Roma Est è anche il tentativo di mantenere funzionanti, ma perlopiù analogici, tangibili, umani, tutti i processi di creazione controculturale, anche in piena esplosione digitale – pure con l’attività di etichette ultra DIY
Con Thalassa, i tentacoli escono dal G.R.A. per accalappiare altre affascinanti creature deviate sparse per l’Italia, e la faccenda assume contorni sempre più espansi e vagamente “teorici”, che addirittura richiameranno le attenzioni dall’estero – grazie allo zampino dei soliti divulgatori Toni Cutrone e Valerio Mattioli. Con il festival che tra marzo e aprile prende forma per tre anni consecutivi (dal 2013 al 2015, più lo spin off del 2016 intitolato Ongapalooza per festeggiare il decennale di Boring Machines e la trasferta estiva del 2017 a Villa Ada), il DalVerme diventa il centro della “psichedelia occulta italiana”, espressione che accoglie band sperimentali con forti radici italiche e vocazioni ai suoni più oscuri e psichedelici, facendosi teatro concreto di una scena che da locale si fa nazionale – oltre che megafono per le più o meno nuove forme mutanti di vita sonora del quadrante Est, tra cui Rainbow Island e Holiday Inn. Una scena che, comunque, non si sposta di un chilometro, portando – semmai – tutta la corrente e i suoi simpatizzanti, molti da varie parti di Italia, proprio lì, in Borgata. Un festival che nella sua originalità innata, nella sua direzione artistica esperta, nel suo ingegno perfetto, nella sua capacità di valorizzare una rete di collaborazioni tra realtà diverse dello Stivale, esprime – ancora in pieno riflusso e all’alba di un periodo oltremodo cupo per la cultura a Roma – una potenza creativa, visionaria e (nonostante gli eccessi vari ed eventuali) costruttiva, stupefacente.
Quando nel 2017 il DalVerme, per questioni di “decoro sociale” (o meglio: per via di una politica che non riconosce nella cultura dal basso e non istituzionale l’evidente capacità di rigenerare un territorio), si trova costretto a chiudere, non è totalmente il canto del cigno di Roma Est. Ma qualcosa, inevitabilmente, cambia – dopo che mezza Italia, impossibile non ricordarlo, si era mobilitata per salvarlo. Se uno spazio così non verrà mai davvero sostituito nei cuori dei suoi frequentatori, gli equilibri mutano leggermente. Per sopravvivere, e resistere. Fanfulla 5/a e 30Formiche restano i baluardi senior della resistenza a Est, il primo facendosi spazio inclusivo per eccellenza con live aperti praticamente a ogni sonorità e le serate infuocate del weekend; il secondo come baluardo del garage punk a Roma, entrambi aprendosi anche alle rassegne di cinema, al tentativo costante di dialogare con il territorio e di mantenere contatti con una rete diy su tutto il territorio nazionale, in particolare etichette indipendenti.
Nascono nuove realtà: le domeniche psichedeliche di Tropicantesimo, la divulgazione in formati nuovi de La Pescheria, le sonorità più scure ed elettroniche del Klang, dall’altra parte della Prenestina – che seppur con un’identità più definita, è altrettanto megafono di alcuni suoni della scena romana e quindi anche di quella a Est -, nascono e dialogano con i “vecchi spazi” nuove realtà come Misto Mame, senza dubbio la prima (e forse unica) giovane promessa romana capace di prendere il testimone disinibito e vocato alla contaminazione dei linguaggi di Roma Est, nuove e sofisticate mutazioni avant psichedeliche prendono forma (i Salò), nel web emerge il già citato esperimento di scrittura gonza DROGA. Cresciuta tra le insidie dell’inerzia, della burocrazia, dell’indolenza, della cementificazione e della gentrificazione romana, col suo fascino irresistibile e i suoi bizzarri protagonisti, la scena avrebbe potuto conquistare tutta l’Italia (impossibile non ricordare, almeno, il feeling con Milano, sia in occasione della chiusura del DalVerme, sia con la collaborazione attiva tra il DalVerme e il festival ZUMA). Ma se c’è un’arma a doppio taglio imputabile all’intensa territorialità della scena è proprio quella sua innata autoreferenzialità, l’attaccamento al territorio, quella sensazione di essere aperta ad accogliere ma non esattamente disposta a spostarsi dalla Borgata, quella coerenza primigenia per cui Roma Est – coi suoi spazi, le sue band, le sue etichette, le sue serate – è fondamentalmente una casa per se stessa, non una corrente, un movimento, un fenomeno vocato all’espansione. Se come dicono gli esperti di marketing, l’emergenza sanitaria (ed economica) riporterà tutti a una più sentita vita di quartiere, beh, la scena è ancora salva per un po’.
* dall’intervista a Emmanuel Bonetti/Manu
** dall’intervista a Toni Cutrone