I fatti risalgono a una fredda serata di febbraio, eravamo rintanati in un postaccio bello e la conversazione è avvenuta con accenti pugliesi (non io, troppo piemontese). Con me c’erano Francesco D’Agrippino – nel ruolo di pugliese, al di là del fatto che è un grafico e amico di Mattia e collaboratore – e Mattia Maisto, pugliese pure lui, che poi era anche il motivo per cui eravamo lì. Un po’ per la sua pugliesità in effetti ma soprattutto per Panopticon Publishing, che è una deriva della sua anima e del suo cervello.
Cosa c’entrano le regioni da cui veniamo? Siamo cittadini del mondo e tutto il resto. Però abbiamo qualcosa che ci sta sotto la pelle, che possiamo scegliere di non lasciare lì e basta ma di scavare e conoscerlo. Di arrivare davanti a quello che ci ha formati, alle estetiche e ai valori di cui siamo impregnati, per scegliere se tenerle, lasciarle, cosa farne. Ed era quello che stavamo facendo.
«Ogni cosa è celata dal mistero in Panopticon, chissà che faccio poi, ma almeno per scoprirlo devi vederlo o esserci».
Per parlare di Panopticon abbiamo iniziato dalla pastasciutta, ovvero la pasta con il sugo che si mangia sempre il giovedì (e ogni tanto anche il martedì e il sabato brodo). Delle nonne che la sanno fare e di noi che facciamo bruciare la cipolla manco fosse pancetta. E del fatto che c’è a chi piace la pasta al sugo e a chi il sugo con la pasta. Del gironzolare per i bar cercando empatie culinarie e umane e il non poterlo più fare perché a Milano ti parte uno stipendio anche per un cornetto. Ma di cosa abbiamo parlato? Abbiamo parlato di come la vita diventa un progetto.
Delle scelte che ti portano a lasciare “casa” a diciannove anni, perché Roma, che sta a 6 ore di macchina di cui 3 e mezzo di Puglia, «è stata densa e intensa: amore, odio, lavoro, covid». A Roma c’è stata l’università, la musica elettronica, il clubbing, gli amici – tutti pugliesi – e la malinconia. Il primo anno va sempre male: la mancanza di casa, la scoperta del resto, del mondo che non conosci e che ti fa sentire estraneo. Che ti fa venire fame di scoprirlo e di trovarci il tuo posto. E i momenti di sconforto in cui vacilli. Lì dentro, in quella debolezza che stordisce, trovi il tasto di accensione. E parte scoppiettando quel motore di progetti, visioni, passioni e compulsioni. Collezioni libri, poster, fanze. Ogni retro di ogni bar diventa il MoMa e si fanno grandi con le mostre. L’importante è impastare gente. Sentirsi parte di qualcosa che ha un sapore, un’estetica, un essere curiosi di confrontarsi.
Ma poi ti sembra sempre che sia a Milano che succedono le cose fighe. E quindi ti trasferisci. Solo per capire che Milano è solo fighetta (aka un po’ superficiale dai) e che forse è “a casa” che sta la sostanza. Ma alla fine sarà dalla Svizzera con il codino e il macchinone che farai ciaone (non oggi, un giorno).
«Se mi viene un’idea devo farla subito. Se non la faccio in una settimana passa. Devo trovare sempre qualcosa per tenere viva la fiamma. Tutti i progettini, ogni cosa che ho creato, è stata figlia da momenti di down. Devo soffrire per creare. Anche Panopticon è nato così. E lui è diventato il progetto che mi tiene in linea. Ogni cosa che faccio ora è diventato Panopticon».
Panopticon è una membrana che si dilata e si fa spazio nel mondo, cambiando sempre forma e dimensione. Perché Panopticon è personale e personalizzabile. Risponde a bisogni e quindi muta: dalle pagine di una fanza a un apparato musicale, a una mostra ma anche magliette poster e pranzi.
«Si chiama Panopticon perché avevo ordinato questo libro di Deleuze-Guattari che parlava di Foucault e del panopticon e mi sono appassionato. Il concetto iniziale era di riuscire ad aggirare il panopticon, trovare altre vie, passare sotto (nell’underground) per eludere il controllo. E io ero sia la torre che l’osservato. Infatti i primi tempi io non comparivo mai, non firmavo. Mattia non c’era da nessuna parte. Al massimo MM. Poi ho capito che Panopticon sono io e ne vado orgoglioso. E anche se ci sono solo io è un progetto collettivo. Sulla carta non ho collaboratori o collaboratrici ma è comune, di tutti. Ho sempre il supporto, il consiglio di qualcuno. La terapeuta mi ha detto che sono compulsivo del controllo e quindi divento collettivo».
Quello che vedo è una versione contemporanea dei valori della fanzine: stessa etica ma con una resa esplosa che sfugge al controllo, alla definizione, che lavora sull’inclusione, sulla comunità attraverso estetiche che si fanno linguaggio, messaggio e appartenenza.
«Mi piace scivolare fuori dalle etichette e dalla carta. Passo da un numero in cui ti insegnano a cacciare il polpo, a quello sui denti e le dentiere e poi finisci nel cartone di una pizza. Sono io con gli artisti con cui collaboro, ma Panopticon è soprattutto community».
E poi chiudiamo ogni cosa come l’abbiamo aperta: scopriamo di essercene andati da qualcosa che ci soffocava per poi scoprire che ce l’abbiamo sotto la pelle, ed è stupenda. L’abbiamo tirata fuori, stampata, messa in pratica, riprodotta. L’abbiamo fatta nostra. «Se ci invitano da qualche parte noi lo diciamo ad altri dieci. Non è networking, è un modo di essere».
Siete arrivati fin qui ma volete capirne di più? Eccovi serviti: il 24 maggio non perdetevi “Stasera….Stuzzichina!”, un nuovo e eclettico evento di Panopticon che coinvolge un intero Karaoke per una serata all’insegna di performance, djset e arte! Stay tuned.