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A Better Mistake

Il vetro rotto tra i social e la provocazione lanciata nel feed

quartiere Navigli

Scritto da Piergiorgio Caserini il 21 maggio 2021
Aggiornato il 26 maggio 2021

Foto di Marco P. Valli

Li abbiamo scoperti su Instagram e non ci eravamo resi conto di quanto beccarli lì potesse già essere un indizio su cosa facessero e pensassero. L’estetica un po’ punk e un po’ digital, i vetri rotti e un nome che tanti credono inneggiare all’errore. Ma non è così, è molto meglio. Sono i tipi di A Better Mistake: digital brand nato, quasi fosse un bazinga, all’alba del ventennio pandemico, in uno spazio che s’apre sulle arie del naviglio ma s’abbevera del feed delle provocazioni.

Finalmente ci vediamo, ho sentito parlare un bel po’ di voi in giro, e partiamo solidi, dalle basi: come nasce A Better Mistake?

ABM nasce da me e un socio, tra uno spiccato interesse per l’arte e la moda, con la convinzione che la creatività sia un approccio alle cose e agli altri, che sia sempre condivisione. Come dire, non si tratta di lavorare nella torre d’avorio, ma di lavorare e creare parlando, nutrirsi di discussioni e trovare continuamente nuovi input. Tutto ABM ruota attorno a questo principio, e se ti guardi intorno lo capisci da subito, perché tutto questo è proiettato nello spazio: aperto, con la porta in vetro che imposta un dialogo visivo e concettuale, ed è pensato come una casa, una piazza, in cui tutti possono entrare anche per fare solo due parole, con cucina, salotto, pensa che lo showroom doveva essere una sala prove. Insomma, siamo gente che ama circondarsi di persone, possiamo dire che siamo veramente “social” purché un brand digitale, native digitals, senza negozi fisici. Insomma, l’individuo, la persona, è al centro tanto del nostro lavoro quanto del nostro immaginario. Pensa che il primo progetto che abbiamo fatto era una serie di ritratti intitolata We Humans, assieme a Guido Borso.

Avete già alle spalle diverse esperienze di spazi di experience digitale, eppure lo spazio in cui siamo è la cosa più concreta, pensata che si possa trovare. E infatti non vi ho trovato subito, tutto mi aspettavo ma non una casa-studio-hub, come dire.

Ricordo un trattato di Michele de Lucchi molto interessante che parlava di come l’ambiente di lavoro condizioni non soltanto il clima di un ufficio o uno studio, ma gli stessi risultati, gli output. Questa è stata un po’ la guida per la progettazione di questo spazio, unitamente all’apertura ad amici e persone che hanno bisogno di spazi o strumentazione; se qualcuno chiede, compatibilmente con i tempi, si fa, gratuitamente. Per altro, essendo un brand digitale, se ci approcciamo allo spazio è solo in chiave temporanea. Non abbiamo bisogno di negozi, ma di incubatrici di altri progetti, magari artistici, che partano per esempio dal pop-up in Garibaldi per sviluppare altri immaginari, anche svincolandosi dalle collezioni.

So che già altri ve l’hanno chiesto e avete negato, ma è per certi versi evidente un’estetica cyberpunk, a metà tra il digital, il medioevo digitale e quella “nuova era oscura” di Bridle. Tutto voluto o sono le contingenze?

Quello che stiamo facendo è raccontare una storia. ABM è al capitolo uno, siamo appena nati, e credo che parte di questa nostra estetica, dove puoi leggerci techno, oscurità, una sorta di futurismo insomma, sia davvero l’introduzione al contesto nel quale vogliamo inserirci. Potresti leggere questa scelta come una cornice, un “c’era una volta” ma questa volta è oggi, la nostra visione del mondo in questo momento. Ed è evidentemente scura. Il che non ne fa un codice estetico definitivo, anzi, i prossimi progetti saranno tutt’altro: abbiamo un progetto che si chiama Touch Me, in co-creatività con un’artista australiana dove in contrasto alla paura si celebra il colore, il contatto, l’abbraccio e il bacio. Trovo che sia il momento in cui sia doveroso dare messaggi positivi, un futuro brillante.

 

Come nasce l’idea di questo primo capitolo?

Nasce da una convinzione discussa tra noi e da un concetto, quello di “disobbedienza creativa”. Penso che sia importante, in un mondo che sta andando a ledere anche le capacità di pensiero, omologante e precostruito, fornire strumenti e non inculcare idee. L’intenzione è questa, lavorare con temi provocanti e a volte anche con messaggi impattanti, insomma, sollecitare un pensiero. Se dovessi pensare una parola per ABM sarebbe think, o provoke, per dirti. L’importante più che l’estetica è l’intenzione, nel senso che un concetto lo puoi rappresentare in mille modi, e se vogliamo essere schietti io faccio vestiti, faccio stracci che non avrebbero di per sé una finalità sociale, ma possono essere strumenti per comunicare nel modo più immediato possibile. E penso che sia per questo che veniamo percepiti non solo come brand di moda, ma come creativi che hanno sostanza, qualcosa da dire. È stato un gran lavoro all’inizio. Mettersi davanti a un foglio bianco, assieme, e capire come dire quello che avevamo in mente, costruire la linea, l’identità che ci avrebbe connotato.

E poi la domanda che tutti vogliono: perché questo nome e perché questo logo.

Nasce da una storia che ho sentito tanto tempo fa e mi ha colpito moltissimo, che ritrovai su un mio vecchio taccuino. In breve, io pratico arti marziali, e sento questo monaco Tai Chi raccontare che quando devi schivare i colpi, il non aver paura di ric

everli condiziona i tuoi movimenti, la tua concentrazione. E poi fa un esempio molto pratico: se prendi una tavola di legno e la metti per terra, camminarci è semplicissimo. Ma se la stessa tavola la metti tra due edifici, la paura di cadere farà sì che probabilmente perderai l’equilibrio o sarai comunque rigido nel movimento. Ecco, per me questa è una regola di progetto, di disegno. C’è un trasporto a volte, un’immersione, e lì escono fuori le idee più belle. Ma capita che vedendole da fuori e rendendosi conto che magari non è male, subentra la paura di rovinarlo e lì non riesci più a disegnare. Questa è l’altezza, sono gli edifici. A Better Mistake significa che puoi prenderli i pugni in faccia, ma l’importante è rimanere concentrati sul movimento.

Il racconto del logo è un altro invece. Vivevo a Barcellona, e in dieci anni, tra le varie proteste, hanno quasi bruciato casa mia due volte. Ci sono state lotte, fuochi, polizia, soprattutto negli ultimi anni con l’indipendentismo. Era il momento in cui stavo cercando degli elementi iconici per il progetto, e guardando il telefono continuavo a vedere foto di vetri rotti, e ho pensato che per quell’intenzione di “disobbedienza creativa” sarebbero stati adeguatissimi, richiamando anche quella parte propriamente “fisica” che è stata annichilita dalla comunicazione. Oltretutto, riportavano a un’idea di protesta che ha avuto anche la sua storia qui in Italia, storia che ci interessa parecchio. Pensa che l’altro giorno una collega ci ha fatto una presentazione con lo stato delle proteste nei vari paesi. E in pratica la gente oggi sa solo di Hong Kong, sembra che non ci sia altro.

 
 

Se dobbiamo dirla tutta, per quanto riguarda le proteste degli ultimi anni, molto spesso i social si riducono a produzione di consenso, non credi?

Il social è parte intrinseca del sistema, la protesta è lì anche perché non fa danno. Il problema è che seppur “piazza”, i social sono totalmente effimeri. Anche per questo era interessante usare un simbolo della strada in lotta in un ambiente digital. Ma può essere complicato, perché stai maneggiando delle immagini piuttosto serie. Bisogna stare attenti a come, quando e perché lo usi.

Per esempio, poco tempo fa un noto fashion brand ha fatto qualcosa di simile ed è stato iper criticato nei social. Una collezione che ho trovato molto bella, usando macchie di colore che richiamano le tracce di inchiostro con cui la polizia di Hong Kong marchiava i manifestanti per strada. Le accuse sono sempre le stesse, “tu fai business e stai usando qualcosa della strada per fare soldi”. Certo, può essere. Però io credo anche a un’altra cosa, all’impatto comunicativo. Il fashion oggi giorno è uno strumento di comunicazione molto potente, soprattutto sui giovani, e io parlo con loro e arrivo a loro grazie a questo, ai social. Bisognerebbe chiedersi più spesso: perché la musica negli anni ‘70 poteva farsi carico di certi messaggi? Cosa crediamo, che Bob Dylan, dietro lui almeno, non ci fossero i miliardi? Quindi, perché io – che uso la moda come linguaggio espressivo – non posso divulgare un certo messaggio attraverso un vestito?

E dire che la moda oggi offe un bacino di comunicazione che, al di là dell’immediatezza, arriva dritto al punto, e molto più limpidamente che altri settori o altre pratiche.

Sì, ma ti faccio un esempio. La gente ha molto interesse verso il fashion ma sostanzialmente ancora oggi non ha idea di cosa facciamo. I modelli sono visti ancora come una roba strana, “come ti ispiri” è la domanda classica, e via dicendo. Io volevo letteralmente aprire le porte dello studio e far vedere per davvero il dietro le quinte. Così avremmo fatto da una parte contenuti, dall’altra potevi lavorare con gli altri, ispirare se va bene, e se va meglio fare da esempio. Io faccio questo lavoro perché una volta una persona mi ha fatto vedere una cosa e mi è piaciuta da matti. E contro quella pratica che vuole il mistero, vuole il dubbio, che non vuole far vedere quale colore uscirà, ecco, io faccio vedere collezioni in prototipo in anticipo. Mi vuoi copiare? Bene, copiami, meglio. Anche questa è una maniera per girare una visione, se pensi che normalmente in un’impresa, soprattutto nel fashion, il dialogo con il cliente e con il pubblico è verticale. Ecco, noi stiamo cercando di metterla orizzontale. Ed è super interessante. L’intenzione per me è verso fuori, ma i benefici che tornano verso dentro sono infiniti. E a volte rimango sorpreso come non ci siano così tante persone che abbiano capito questa cosa. Pensa che già dall’inizio, nella ricerca dei fondi per far partire il progetto, questa era una delle idee iniziali, unitamente a un team fresco e giovane, che è piaciuta di più agli investors. Ho insistito su questo punto, e continuo, proprio perché quando avevo vent’anni soffrii l’Italia da creativo e lavoratore, mi trovai davanti un paese duro, vecchio e lento, che non punta ai giovani per davvero, e quando sono tornato apposta per cominciare ABM, volevo fare qualche cosa in questo senso. Torna ancora quell’intenzione della “disobbedienza creativa”, ma rispetto a uno stato di cose, che s’esemplifica nel tentativo di andare a spiegare che una ragazza di 24 anni ha le stesse capacità di un CEO cinquantenne. È divertente, sai fare questa disobbedienza qui in Italia, sai.

Quando penso al futuro di questo progetto, una delle ragioni per cui voglio che funzioni è spaccare qui in Italia con un modo di progettare che non è per niente italiano, né nella forma né nei contenuti. Sarebbe uno smacco alla “old generation” di un paese, sarebbe divertente.