Siamo abituati a pensare che i grossi centri urbani abbiano di più da offrire, ma in realtà non è un punto di vista reale ed esaustivo. Intorno a essi infatti, più o meno vicino, esistono sempre dei nuclei “periferici” che generano e sviluppano bisogni, servizi, tempi e dinamiche di comunità diverse ma non per questo inferiori. Siamo andati a parlarne con Alessandro Castiglioni, conservatore e vice direttore del MA*GA, il polo museale di Gallarate che da anni sta svolgendo un lavoro sulla dimensione della sua comunità. Oltre che un percorso personale, quello di Alessandro, è un processo di ricerca che si sviluppa intorno a territori periferici, piccoli o discostati, insomma tutto ciò che noi qui su Zero chiamiamo “I vicini di casa” e che abbiamo sempre più voglia di scoprire e andare a trovare.
quando parlano di piccoli stati, parlano di territori ad alta densità simbolica.
Piccola maratona nel tuo passato che parte dallo stesso luogo in cui siamo adesso: Gallarate.
Esatto, io sono di qui, di un paese della zona in realtà, ho studiato a Milano e anche a Manchester. Negli anni ho lavorato in diversi paesi d’Europa, ma il mio punto di partenza è stato sempre Gallarate, a partire dalla storica Civica Galleria d’Arte Moderna che poi nel 2010 è diventata il MA*GA. La mia prima vera esperienza curatoriale internazionale è stata però a Careof, tra 2009 e 2010, quando ho iniziato a lavorare con due artisti di San Marino, Rita Canarezza e PierPaolo Coro; si trattava di un progetto a cura di Roberto Daolio dal nome Little Constellation: un’indagine e una mostra sullo stato dell’arte nei piccoli paesi d’Europa, ed è anche stato il momento in cui ho iniziato a lavorare in diversi luoghi caratterizzati, diciamo, da una territorialità complessa – che poi corrispondo un po’ al luogo in cui ci troviamo ora.
Abbiamo fatto mostre alla National Gallery di Reykjavik, a Malta, in Lussemburgo, a Gibilterra e un grosso lavoro al Museo di Villa Croce a Genova; attraverso tutto questo ho iniziato a occuparmi di tematiche geografiche e geopolitiche, che poi sono rimaste sempre nel mio lavoro. L’anno scorso, non a caso, ho curato un riallestimento della collezione qui al MA*GA che si chiamava proprio Geografie (in omaggio ad Antonella Anedda) e che indagava il rapporto tra la pratica artistica e determinate questioni di territorialità.
Un altro aspetto fondamentale del mio percorso di ricerca e crescita è stato quando ho iniziato a collaborare con la Biennale del Mediterraneo, la BJCEM. Sono entrato nel 2016 come parte dell’equipe curatoriale ma è stato un paio di anni dopo che, con Simone Frangi, abbiamo creato “A Natural Oasis ?”, un progetto di ricerca, una sorta di “free university” per curatori emergenti e artisti e ricercatori, caratterizzata da una natura nomade e che ci ha portati a curare la 19ª edizione della Biennale del Mediterraneo nel 2021, a San Marino, dal titolo “School of Waters”.
Altro capitolo riguarda poi il costante lavoro di dialogo e collaborazione con Emma Zanella, che è la mia direttrice qui al museo, dopo anni di lavoro insieme abbiamo curato la riapertura della Galleria Nazionale di San Marino e lavorato sulla loro collezione a partire da un dialogo, attivo e aperto, tra dimensione locale (sammarinese) e italiana e che poi ci ha portati nel 2019 a curarne il padiglione alla Biennale di Venezia.
E chiudendo il cerchio torniamo qui, al MA*GA di Gallarate, di cui sei vice direttore e conservatore senior. Credo che il tuo legame con i territori sia molto particolare, sembra che ti pervada una passione per i territori periferici, piccoli e discostati.
Rispetto a questo tema ci tengo a chiarire che ho imparato molto da chi ho incontrato e dalle persone con cui ho studiato. Ho già citato la figura per me fondamentale di Emma Zanella, vorrei però anche ricordare come le prime riflessioni su questo legame tra arte e geografie le abbia sviluppate Francesco Tedeschi con il bellissimo libro “Il mondo ridisegnato. Arte e geografia nella contemporaneità”. Vorrei poi citare Luciano Caramel, un maestro non solo per me ma per tutte le persone che ho già menzionato e che è da poco scomparso.
Vorrei inoltre aggiungere quanto, dal mio punto di vista, la questione geografica rappresenti una condizione: Roberto Daolio e PierPaolo Coro, quando parlano di piccoli stati, parlano di territori ad alta densità simbolica. Per me la geografia assume un valore nella pratica, nella ricerca visiva e in quella teorica quando si carica di questa alta densità simbolica, declinabile in tantissime dimensioni: quella delle egemonie, dell’insularità, della perifericità, dei flussi economici, della mobilità.
Questa densità simbolica è per me l’aspetto più importante, che può avere valore sociale ed economico ma anche poetico, individuale o metaforico e che porta a interrogarsi sul proprio presente.
Ci racconti del MA*GA e del legame che ha con la storia e con Gallarate?
È necessario capire qual è il ruolo di un museo e di un centro per l’arte in un territorio come questo. Nel senso che, chiaramente, un’istituzione in una città grande ha dei flussi molto differenti che dipendono dalla presenza molteplici servizi dalla differente stratificazione sociale di cittadini e cittadine, dalla presenza o meno, per esempio di altri musei e di università o accademie. Questo è un territorio che si trova in una zona specifica e che ha caratteristiche proprie. Parliamo di un territorio più vicino al confine con la Svizzera che a Milano, a pochi chilometri da un grande aeroporto e che ha quindi a che vedere con una dimensione di passaggio che insiste su una territorialità molto frammentata in molteplici piccole municipalità eppure densamente abitata. Di conseguenza uno degli interrogativi principali con cui si porta avanti l’attività del museo è quello di lavorare in dialogo con questa tipologia di territorio, per interpretarne l’identità, le necessità e, conseguentemente, come rispondere al meglio ai suoi bisogni, culturali e sociali.
In tutto questo non dobbiamo trascurare le origini e il passato di questa istituzione.
Questo museo ha inizio da un premio: il premio Nazionale di Arti Visive Gallarate, nato nel 1949 e dedicato all’arte italiana. Il premio è ancora oggi lo strumento principale con cui la collezione si amplia. La nostra identità è dunque chiara: il MA*GA è un museo dedicato, in primis, all’arte italiana e che ha tra i suoi primi obiettivi quello di preservare i racconti relativi a come le arti italiane si sono intrecciate e sviluppate.
Accanto a questo c’è la necessità di creare piattaforme attraverso cui avvicinare i pubblici. E qui vorrei un pochino scardinare il concetto di “pubblico”, che è un concetto ideologico, stereotipato e in fondo vuoto. Non esiste “il pubblico”, esistono molteplicità di pubblici con esigenze totalmente diverse tra loro e a cui il museo deve rispondere. È diverso, per esempio, quando parliamo dei mondi scolastici, quando parliamo delle famiglie e del pubblico che viene in museo per un’attività culturale e ricreativa la domenica, oppure quando parliamo di terza età o di progetti di inclusione.
Ognuno di questi aspetti dà la possibilità di riflettere sulle varie trasformazioni del museo negli ultimi anni. Un esempio su tutti: il piano terra del MA*GA è diventato una biblioteca in cui convivono, a scaffale aperto, la biblioteca della città (Biblioteca Majno) e la biblioteca specialistica del MA*GA con oltre trentamila volumi dedicati all’arte contemporanea. Lo spazio ospita e attira qui tutti i giorni almeno 150 studenti.
In fondo anche riflettere su mostre come “Andy Warhol. Serial Identity” che abbiamo in corso adesso, che è frutto di tre anni di lungo lavoro, aiuta a capire come far convivere una dimensione di ricerca con una pensata per accogliere un pubblico eterogeneo e avere una presa ampia sul territorio.
Negli anni il Museo ha ricoperto un ruolo importante per la comunità ma anche grandi fasi di difficoltà. Che cosa prevede il vostro sguardo sul futuro a fronte anche dei nuovi finanziamenti?
Per quanto riguarda l’istituzione, attraverso un lavoro enorme fatto negli ultimi anni, abbiamo vinto molti fondi e abbiamo deciso di affrontare due tematiche per noi necessarie: il digitale e l’inclusività. L’obiettivo è rendere sempre più fruibili i patrimoni, catalogarli con ordine e chiarezza, andando a raccontare anche autori meno conosciuti e riscoprendo una storia dell’arte “altra”.
E poi inclusività: vuol dire lavorare in modo diverso sulla consapevolezza del messaggio che si porta e delle storie che si narrano, a partire dalla necessità di far capire al meglio queste narrazioni, di modo che restino accessibili e facilitino così un dialogo sulla cultura del presente.
Un tema che mi è sempre molto caro è capire il confine tra la ricerca personale e il ruolo istituzionale – perché le cariche istituzionali tendono spesso ad assorbire l’individuale. Cosa senti di portare di tuo in questi processi?
A livello personale questo dialogo con la biblioteca e il libro è qualcosa che mi interessa molto e voglio ampliare sempre di più, proprio perché porta a sviluppare rapporti tra linguaggi differenti.
Nel tempo ho lavorato a grossi progetti legati alla letteratura, e questo rapporto interdisciplinare si estende anche a interessi e relazioni con design e moda. Il tutto chiaramente influenzato anche dalla mia attività di insegnamento in Istituto Marangoni.
In questa prospettiva, dunque, ciascuno porta i propri interessi fino a dove questi si incontrano con l’istituzione. Rimango però convinto che la mia identità non corrisponda al mio ruolo, ma piuttosto si affianchi: da una parte la mia ricerca nell’ambito delle arti visive che nutre e si nutre del mio ruolo di conservatore di una collezione museale pubblica.
Oltre a questo, credo profondamente che il lavoro curatoriale non sia mai singolare ma sempre plurale: ho sempre accanto persone con cui confrontarmi e che a loro volta portano il loro contributo professionale e personale. Il lavoro museale e il lavoro curatoriale sono esperienze collettive in cui un certo egotismo individuale andrebbe decostruito.
Che dialogo c’è con Milano? Non c’è una rete di progettazione?
Non credo sia una priorità. Siamo in due territori, due province, vicine ma diverse. Altra cosa, certo, è il dialogo con istituzioni specifiche e che svolgono un lavoro simile al nostro – come può essere il Museo del 900 o Gallerie e Fondazioni con cui collaboriamo spesso e volentieri.
Le ragioni di una necessità di autonomia da Milano sono chiare: per noi la priorità è rispondere a un territorio specifico. Il rischio altrimenti sarebbe quello di essere svuotati, di diventare un satellite di un centro che propone cose, la cui immagine più esemplare è quella di una periferia che si veste da grande dormitorio ordinato, dove ti svegli e il tuo obiettivo è quello di raggiungere il centro. Ritengo sia fondamentale opporsi a questo modello. Quindi al momento direi che è più interessante il dialogo con le altre istituzioni di questo territorio piuttosto che con la città di Milano. Come nel caso del grosso lavoro fatto con Archivi del Contemporaneo, attraverso il quale siamo andati a cercare quegli studi d’artista, quegli archivi o quelle associazioni, legati ad un’area compresa tra questo territorio la Svizzera e i laghi. Abbiamo incontrato dei veri patrimoni culturali che per essere valorizzati devono essere messi in rete, cito a titolo esemplificativo, La Fondazione Giancarlo Sangregorio, Il Borgo di Lucio Fontana a Comabbio e più a sud fino a Casa Testori. È una rete che attraverso un festival che si chiama “Archivifuturi”, resiste a questa forza centripeta e risponde con proposte di qualità articolate nello spazio e nel tempo.