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Bianca Felicori

Edifici ritrovati, una comunità che si riscopre abitante dello spazio e convivente dell’architettura

quartiere Corvetto

Scritto da Giorgia Martini il 9 ottobre 2023
Aggiornato il 13 ottobre 2023

Con Forgotten Architecture Bianca Felicori, architetto, giornalista e curatrice, ha riportato i riflettori sulla periferia in senso lato, sia fisicamente, riscoprendo le zone ai margini dei centri urbani, ma anche la periferia dell’architettura stessa, restituendo un nome a progettisti dimenticati. Con un’idea ontologicamente nerd, F.A ha costretto chi la segue ad ampliare l’ampiezza dell’angolo collo-mento, guardando in alto invece che in basso, mentre cammina per strada.

«La percezione delle persone della città cambia totalmente quando ci si rende conto che viviamo l’architettura giorno per giorno: aumenta l’ampiezza del nostro sguardo, che non è più rivolto solo verso il basso, ma si alza anche verso l’alto.»

 

Oggi a Milano definire dove sia la linea che separa il centro dalla periferia è molto complesso. Tu come consideri il Corvetto?

Di base Milano vive una situazione fortunata rispetto ad altre città. Prendiamo ad esempio Bologna, dove sono nata: è ancora forte la distinzione tra centro, periferia e provincia, che i cittadini percepiscono come luoghi molto distanti fra loro, principalmente a causa della mancanza di una rete di infrastrutture che le colleghi. Dieci anni fa, quando sono arrivata qui, si poteva dire quasi la stessa cosa per Milano. Quando hanno aperto Fondazione Prada, ci sembrava lontanissima e invece ora la consideriamo praticamente in centro. Il punto è proprio questo, le politiche urbanistiche che sono state portate avanti sono riuscite a ridurre la percezione della distanza fra centro e periferia, rendendo i diversi quartieri più esterni dei nuovi centri. Per questo Milano è oggi più simile ad una città europea, policentrica, che non alle altre città italiane. Se a Londra Victoria, il quartiere di Buckingham Palace, è considerato centro, lo è allo stesso modo Hartney, così come a Milano è centro il Duomo, ma anche Isola. Noi ora siamo nella nuova area considerata in evoluzione, ad oggi magari il Corvetto non lo pensiamo ancora centrale, o meglio un centro, come può essere per Nolo, ma sicuramente il progetto di espansione della città prevede che a breve sarà così. 

Inglobare la periferia all’interno del centro urbano rischia di eliminare quegli spazi da sempre abitati dalle fasce meno abbienti della popolazione, secondo te la valorizzazione delle zone periferiche sta avvenendo attraverso la riscoperta di ciò che già c’è oppure si prediligono nuove ondate edilizie?

In parte dipende dalle zone, sicuramente in alcune il tentativo di partire da ciò che già c’è è evidente, in altre si è scelto di ricostruire. Il punto è che l’esclusione può verificarsi in entrambi i casi. Pensiamo ad esempio a Isola, fino a vent’anni fa ci trovavi le galline, oggi c’è un centro direzionale, per altro a mio parere architettonicamente anonimo e incoerente con il resto del paesaggio urbano, che ha evidentemente estromesso da quell’area le persone che ci vivevano, per lasciare spazio concettuale e fisico ai “newyorkesi di Milano”. Dall’altra parte prendiamo NoLo, dove non è stato fatto alcun tipo di intervento infrastrutturale, semplicemente si è costruito il rebranding di un’area periferica dandole un nome che la rendesse cool. In questo modo i prezzi sono saliti comunque e le persone che ci vivevano non hanno realmente potuto beneficiare di un aumento dei servizi, che migliorasse nei fatti la loro qualità della vita, giustificando, almeno in parte il rincaro degli affitti. In generale quindi ciò che può evitare l’esclusione economica delle persone dalle aree in espansione della città è principalmente la cosiddetta gentrificazione gentile, cioè quella che parte dall’ascolto dei cittadini, con la consapevolezza che in una stessa area devono poter convivere le case popolari e coloro che intendono spendere 300mila euro per un bilocale. Secondo me qui a Corvetto si sta prendendo questa strada. 

Materialmente come credi possa avvenire la riprogettazione a partire dal patrimonio edilizio esistente? Credi ci siano dei tentativi in corso?

Mi viene in mente ad esempio un progetto che il Politecnico porta avanti da qualche anno per recuperare luoghi abbandonati della città, Riformare Milano, e l’idea è proprio quella di mappare questi luoghi e riprogettarli. In realtà è sempre rimasto tutto nell’etere, probabilmente perché più che affidare ogni anno luoghi diversi a studenti diversi giusto per portare a termine un lavoro di gruppo, sarebbe interessante se ci si concentrasse concretamente su un unico luogo per ripensarlo davvero, studenti e professori insieme, non tanto come caso studio, ma nell’ottica di lavorare davvero per la città. Qualche tempo fa avevo anche proposto a Domus di individuare gli edifici in condizioni più critiche, per trasformarli in luoghi di servizio, ad esempio costruire degli skatepark, così che dei relitti architettonici potessero diventare nuovi poli d’attrazione per la città. Qui a Corvetto c’è questa idea, il comune, oltre ad aver aperto la sua nuova sede, sta lavorando con associazioni di vario genere per riattivare spazi e servizi, zone sportive e centri culturali che già c’erano. 

Il paradosso dell’architettura è che ci abbiamo a che fare per tutta la vita, in modo anche molto intimo, ma allo stesso tempo se la pensiamo come disciplina la sentiamo distante, in modo particolare nelle zone periferiche come Corvetto, dove grandi casermoni spesso fatiscenti sono molto presenti, secondo te con Forgotten Architecture sei riuscita ad aprire le porte dell’architettura ai profani o anche nella sua democraticità interna la comunità resta circoscritta agli addetti del settore?

Forgotten in realtà nasce anche per questo obiettivo. Tutto parte da una mia esigenza personale, comprendere perché l’architettura fosse rimasta nel tempo una disciplina molto elitaria, della quale si discute solo in cerchie ristrette di studiosi e professionisti. Volevo superare i confini dell’Accademia e questo ha prodotto una comunicazione estremamente orizzontale e democratica. Siamo più abituati a concepire l’arte in senso lato come disciplina popolare, nel vero senso della parola, che non l’architettura, per quanto il nostro legame con la seconda sia quotidianamente molto più forte che non con dipinti o sculture. Credo di poter dire che il progetto sia riuscito. Se ci pensi, parliamo di un argomento molto nerd, che apparentemente dovrebbe interessare solo gli addetti del settore e invece, usando toni e modi informali, siamo riusciti a coinvolgere persone di ogni tipo. Cerco di parlare di architettura in modo pop ed è quello che probabilmente ha fatto la differenza. Questo approccio penso sia davvero costruttivo, perché permette ai più di entrare in una relazione consapevole con l’architettura, che volenti o nolenti ci tocca nell’arco di tutta la nostra vita: viviamo l’architettura, la frequentiamo, ogni giorno usciamo da un edificio ed entriamo nella città che è un contesto architettonico. La percezione delle persone della città cambia totalmente quando ci si rende conto di questo fatto. Aumenta l’ampiezza del nostro sguardo, che non è più rivolto solo verso il basso, ma si alza anche verso l’alto. 

Secondo te in un quartiere come Corvetto è possibile immaginare una partecipazione collettiva per ripensare la dimensione urbana, tenendo conto della presenza di comunità molto diverse fra loro e prive di un collante culturale e identitario?

Secondo me è possibile solo se entrano in campo più discipline. In contesti come questo per far sentire la comunità parte attiva del progetto è indispensabile un’analisi delle esigenze che sia fatta concretamente sul territorio, per questo servono non soltanto urbanisti e architetti, ma anche sociologi, antropologi, psicologi, persone che siano in grado di contribuire ad un’analisi composita dell’ambiente socio-culturale entro cui si sta pensando il cambiamento. La città continuerà inevitabilmente ad espandersi, il modo in cui lo farà dipenderà dalla disponibilità delle istituzioni di mettersi all’ascolto delle persone e capire quali servizi vengono percepiti come necessari. Così che la rigenerazione possa essere davvero un’occasione per migliorare la vita delle persone e non per spostare la ghettizzazione altrove. Abbiamo a che fare con l’urbanistica popolare del secondo Novecento, che era concepita proprio per ghettizzare. In questa zona sono molto presenti i cosiddetti blocchi architettonici, dove ogni appartamento ha dimensioni ridotte, per ospitare il più alto numero possibile di famiglie. È evidente che quei blocchi non possono essere modificati più di tanto e non apprezzo particolarmente i tentativi di alcuni architetti di fare micro-migliorie estetiche, come murales o panchine colorate, che poi di fatto non portano nessun vantaggio. Più che un’operazione di facciata, letteralmente, credo che sia fondamentale agire per allineare integralmente le aree di espansione con l’evoluzione della città in termini di qualità della vita, altrimenti ci saranno sempre isole felici con ai bordi contesti di disagio ed esclusione.