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CTRLZAK

Hybrid culture, social hirony, nature\cosmos: l’arte come filtro critico di non-oggetti

quartiere Bovisa

Scritto da Federica Amoruso il 7 aprile 2022
Aggiornato il 11 aprile 2022

Foto di Glauco Canalis

Katia Meneghini e Thanos Zakopoulos, alias CTRLZAK, indagano lo spazio al confine tra filosofia, arte e scienza manipolando l’ironia e l’hybrid culture come materie prime essenziali. Lo studio realizza progetti, crea spazi, oggetti e situazioni, dove le persone vengono spesso coinvolte in un processo relazionale e di interazione. I progetti di CTRLZAK sono creati attraverso l’intensa ricerca delle tradizioni e del contesto culturale, indagando sul passato per dare forma a un nuovo futuro ibrido.

«C’è chi vuole che gli oggetti siano neutri, che spariscano nello spazio, ma lo sappiamo già: non abbiamo più bisogno di questa categoria di oggetti.»

Ciao Katia e Thanos. CTRLZAK: quando, come e perché?

Cerchiamo di mettere tutto ciò che è parte del nostro retaggio di artisti e viaggiatori nel nostro lavoro. Per tanti, ai nostri esordi, eravamo un enigma: i designer pensavano fossimo artisti, gli artisti pensavano fossimo designer e il resto del mondo pensava fossimo architetti. E in effetti abbiamo fatto e facciamo tutt’ora progetti che spaziano tra tutte queste categorie. Al giorno d’oggi ci occupiamo prevalentemente di direzione artistica, che ci permette di integrare tutte queste realtà. Ciò che sta dietro alla tecnica e alla costruzione è sempre il senso di ciò che facciamo. Parafrasando il motto modernista, “form follows meaning”.
L’elemento ludico e l’ironia ci servono come gancio per instaurare una relazione con le persone. Un esempio: se fai un tavolo con quattro gambe di cui una è leggermente inclinata, nessuno lo noterà. Se la fai rossa, sì: questo non serve a creare una discussione, serve a creare quello spazio vuoto da colmare col dialogo, ad avvicinare le sensibilità.
In Form follows meaning, la pubblicazione che esplora la nascita e la crescita dello studio, parliamo di Hybrid culture, ovvero la ricerca del passato, Social irony, che ci caratterizza profondamente, e infine il capitolo più intenso: Nature|cosmos, l’ecologia, il parlare della nostra casa. Nei nostri progetti cerchiamo di esplorare sempre più questa tematica.

Da cosa deriva questa attrazione per le dinamiche del mondo naturale?

Negli ultimi anni questa tematica, da sempre importante, si è fatta sempre più centrale per il nostro sentire. L’uomo non può fare nulla se non prendere ciò che già esiste e trasformarlo. Le leggi dell’universo che capiamo coi nostri sensi si possono applicare dal micro al macro e questo permea tutte le nostre azioni e il dialogo. Il confine tra naturale e artificiale è un miraggio. E tutto il discorso ibrido risuona molto con questo impianto ideologico. Come CTRLZAK ci rifacciamo alle tradizioni rielaborandole in chiave contemporanea. Senza inventare nulla: rimanendo fedeli e rispettosi delle tradizioni ma facendole incontrare. Nel nostro progetto “Flagmented” bandiere miste tessono assieme diverse culture: rielaborazione e ri-creazione.

Con Hybrid siamo partiti dalla dicotomia Oriente-Occidente, partendo dalla storia della porcellana. Già agli albori di questa pratica le culture erano ibride e le forme espresse erano tali. Tanto di quel progetto viene anche dalla nostra intima tradizione. La storia dell’umanità ci insegna come tutto è legato al mondo naturale, solo le espressioni cambiano per via dell’ambiente. Parliamo di una cultura ibrida che non dev’essere una chimera della globalizzazione, bensì il punto di partenza per un futuro più consapevole attraverso la conoscenza del passato dell’umanità. Tutti i nostri progetti, anche quelli più commerciali, cercano di attivare questa riflessione.

L’incontro con la committenza è spesso un punto di partenza di queste riflessioni: lavorando coi tappeti di Cc-Tapis, ad esempio. Loro producevano in Tibet ed è stato naturale lavorare cercando la tradizione tibetana ed europea. La recente richiesta di un lavoro in Grecia ci ha permesso invece di approfondire tematiche storiche proprie di quel Paese. Le situazioni permettono di approfondire alcune culture piuttosto che altre e questo lo dobbiamo anche ai nostri viaggi, che non smettiamo mai di fare e che sono una risorsa essenziale delle nostre conoscenze.

L’evoluzione del progetto Hybrid era anche una riflessione sul colonialismo: gli europei hanno imposto la loro cultura ma in realtà hanno imparato molto di più dalle culture che hanno cercato di annientare che non viceversa.

Alla base di tutto c’era proprio l’idea di decolonizzare la cultura, imparare dalle atrocità commesse nel passato: è assurdo che ancora si parli di conflitti, confini.

È come se ci fosse una distanza incolmabile tra la coscienza collettiva del passato e la consapevolezza attuale. Mi accennavate alla poesia come possibile soluzione di questo bias cognitivo…

Il processo creativo, parafrasando Beuys, esiste in tutti noi. Ciascuno la esprime a suo modo trovando la consapevolezza di farlo. L’unica differenza tra l’arte “come mestiere” e non, è il compiere l’atto creativo in maniera consapevole, e in questo siamo tutti poeti.

Come si sviluppa la vostra metodologia progettuale?

Tutto parte dalla ricerca, che ha radici in realtà nel nostro vissuto e in ciò che ci piace: la ceramica ad esempio. Partendo dal capire cosa fosse, il progetto si è delineato naturalmente perché abbiamo compreso che, in quel caso, il nostro compito era rendere estrinseco un processo attivo già insito nella storia stessa di quella materia. Arrivando dal mondo dell’arte non abbiamo mai aspettato la commissione del pezzo, era la nostra urgenza e necessità di rappresentare concetti e lavorare su determinate forme a fare da traino. Forme che fossero attivatori di domande e interazioni, per creare situazioni di incontro. Alcuni di questi progetti approdavano poi alle gallerie, aziende ci chiedevano di adattarlo alla grande distribuzione… i progetti stessi si completano di tanti altri pezzi: opere, performance (come nel caso di Transustanza, in cui ci interrogavamo sull’utilità di chiese e oggetti partendo dall’ostia). Questi tanti livelli processuali e produttivi creano una stratificazione e fanno parte del motivo per cui oggi come oggi ci troviamo bene nella direzione artistica: non ha senso disegnare nuovi oggetti, edifici e questa è una importante consapevolezza.

Il messaggio che permea e che sta alla base dei nostri progetti è quello del nostro manifesto e si esprime in diversi campi, un approccio trasversale che rimane fedele alla promessa di lavorare col territorio, con la realtà, facendo emergere messaggi non commerciali bensì culturali. I nostri tre pilastri sono creatività, pensiero filosofico, scienza. Unire questi campi d’indagine è fondamentale, io sono appassionato di scienza e mi accorgo che gli stessi scienziati cercano sempre più di avvicinarsi all’arte. Per alterare questo stato attuale delle cose estremamente commerciali in cui viviamo e in cui l’unico spazio da riempire è quello dei consumi, c’è bisogno di ripensare l’arte come filtro critico e strumento quotidiano e la semiotica come strumento di sintesi non di analisi.

L’altra scuola di pensiero vuole che gli oggetti siano neutri, spariscano nello spazio: non abbiamo più bisogno di questa categoria di oggetti. Tralasciando la categoria dell’oggetto funzionale che vive della sua funzione e che è tutt’ora indispensabile, l’oggetto deve essere un simbolo, deve essere materia carica di senso.

Questo riempire di senso, anima i vostri oggetti e progetti è ciò che probabilmente permette loro di sopravvivere al loro tempo.

Assolutamente sì. Il fatto di non avere uno stile riconoscibile è fondamentale, perché quello stile rischia inconsapevolmente di invecchiare e deperire. Il messaggio alle base di ciò che facciamo e che dà forma alle nostre creazioni ci permette anche di fare in modo che queste vivano e persistano, durando nel tempo. Ciò che è stile è superficie.

CTRLZAK e Milano: come è successo? Un amore nato subito o una scelta obbligata?

Un greco e una veneta, conosciuti a Venezia… puoi immaginare. Siamo arrivati a Milano come due pazzi, conoscendola a malapena. Un giorno un caro amico ci preleva e ci fa fare un tour di tutti i quartieri, da Lambrate passando per viale Monza e infine a Bovisa. Che è stata una scelta pratica e lavorativa: è una zona che offre tutti i servizi, comoda, ben collegata per gli spostamenti. Immagina, nel 2009 la metro arrivava solo fino a Maciachini: abbiamo iniziato a camminare a piedi per vedere quale fosse il limite percorribile del quartiere e abbiamo iniziato a guardarci in giro, cercando uno spazio proprio qui. Quelle cose che fai da giovane: abbiamo visto questo spazio e l’abbiamo preso, un colpo di fortuna. Tra l’altro con la consapevolezza che sarebbe arrivata la metro e della vicinanza favorevole al Politecnico. Alla fine qui dentro abbiamo vissuto per anni, progettando, vivendo, ospitando amici. Tre anni fa ci siamo messi a cercare una casa-studio più grande. E lo abbiamo trovato proprio qui di fronte.

Qualche posto del cuore qui in Bovisa?

Il mercato della Bovisa alla domenica mattina: ci andiamo sempre, è il vero mercato hardcore. E la via che ci porta fuori città verso il prossimo viaggio.