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Davide Sisto

Cosa significa morire nell’era della massificazione social media?

Scritto da Andrea Pagano il 25 maggio 2020

Cosa significa morire nell’era della massificazione dei social media? Cos’è la morte ai tempi della digitalizzazione dell’emozione? Ce ne parla Davide Sisto, filosofo, tanatologo e principale studioso italiano di Digital Death (chiederemo a lui di spiegarci esattamente cosa significa). Insegna all’Università di Padova dove contribuisce anche come ricercatore nei suoi studi sulla “Death Education”. È autore di numerosi libri sul tema tra cui il suo ultimo “Ricordati di Me” (Bollati Boringhieri) di cui parlerà alla Milano Digital Week.


Ho avuto modo di fare ricerca su Internet e farmi un’idea di cosa si tratti, ma preferirei sentirmelo raccontare da un esperto (e credo sia meglio anche per i nostri lettori): cosa intendiamo per “morte digitale”? E cosa fa uno studioso di morte digitale?

Il termine “morte digitale” (Digital Death) indica un ambito di ricerca interdisciplinare che si sofferma sulle modalità con cui le attuali tecnologie digitali stanno modificando il nostro rapporto con la morte, l’immortalità, il lutto e la memoria. Si tratta di un campo di ricerca relativamente inedito, che si è sviluppato negli ultimi dieci anni soprattutto negli Stati Uniti e nel mondo anglosassone. Io l’ho introdotto in Italia con il mio libro “La morte si fa social. Immortalità, memoria e lutto nell’epoca della cultura digitale” (Bollati Boringhieri 2018), il quale ha generato molto dibattito nel nostro paese. Lo studioso della morte digitale si sofferma, in primo luogo, sugli effetti prodotti dalla permanenza dei profili social degli utenti deceduti. Per esempio, Facebook è il più grande cimitero virtuale che vi sia al mondo, contando oltre cinquanta milioni di profili di utenti deceduti. Questa spettrale presenza ha, ovviamente, delle enormi ripercussioni sull’elaborazione del lutto, sul modo di intendere il confine tra la vita e la morte e sulla preparazione delle eredità digitali. In secondo luogo, vengono studiate tutte quelle invenzioni scientifiche volte a far sopravvivere i morti sotto forma di “spettri digitali”. Penso ai chatbot come Luka o a progetti come Eter9 ed Eterni.me, i quali cercano di rielaborare tutte le nostre tracce digitali, di modo che diventino autonome e indipendenti una volta che siamo morti. In terzo luogo, lo studioso della Digital Death si occupa delle invenzioni che riguardano la relazione tra la morte e il digitale in senso lato: il trasferimento dei riti funebri all’interno dei social network, il fenomeno dei “cancer blogger”, le molteplici modalità che ci permettono di ripensare il concetto di eredità, il fenomeno dei selfie ai funerali. Si tratta di fenomeni innovativi che, oltre a incidere in maniera profonda sulla Death Education, evidenziano come la dimensione online e quella offline siano del tutto integrate l’una nell’altra.

Si è parlato spesso di come per molti il futuro di Facebook sia quello di un gigantesco “cimitero digitale”, e di come, già oggi, rappresenti per molti versi il cimitero più esteso al mondo. Nel tuo ultimo libro “Ricordati di me” (Bollati Boringhieri) analizzi proprio i nuovi cimiteri digitali, e di come a tendere questi enormi archivi digitali possano rappresentare il modo per ricostruire una “grande autobiografia culturale collettiva”. È un discorso che può sicuramente spaventare, incuriosire o lasciare addirittura indifferenti, tu come ti posizioni nello “spettro emozionale”?

Partendo dal mio precedente libro, “Ricordati di me” evidenzia come attualmente i social network si siano trasformati in archivi digitali o in scrigni tecnologici dei ricordi. Facebook, per esempio, è nato il 4 febbraio 2004 e si è diffuso in Italia tra il 2007 e il 2008. Questo significa che gli utenti molto attivi conservano all’interno del proprio profilo più di diecimila documenti riguardanti la propria vita. Tale materiale va sommato ai contenuti presenti in tutti gli altri social network che utilizziamo. In definitiva, l’attuale epoca storica è segnata dalla registrazione oggettiva delle nostre memorie, le quali sono consultabili in qualsiasi momento della giornata e restano “vive” una volta che siamo morti. L’impatto sul nostro modo di ricordare e dimenticare è talmente profondo da spingere il nostro passato a emanciparsi dal presente, diventando una sorta di realtà autonoma e parallela al presente. Gli effetti di questa indipendenza dei ricordi, di per sé volta a farci vivere in una condizione di quotidiana nostalgia, sono ancora tutti da esplorare. Sicuramente, modificano il rapporto che creiamo con l’autobiografia personale. Kenneth Goldsmith definisce Facebook una “grande autobiografia culturale collettiva”, poiché ogni giorno ciascuno di noi in cooperazione con gli altri registra e rende oggettiva la propria vita quotidiana. Tenuto conto del numero di morti presenti all’interno dei social network, si crea una situazione alquanto paradossale: i social network sono sia enormi autobiografie culturali collettive sia enciclopedie dei morti altrettanto sostanziose. Personalmente, trovo tutto questo molto affascinante, perché ci costringe a scendere a patti con il nostro passato e con i sentimenti della nostalgia e del rimpianto. Di sicuro, la consapevolezza di questi nuovi modi di ricordare e di raccontare sé stessi può spingerci a migliorare il nostro legame con la morte e con ciò che sta alle nostre spalle.

Pare che un grande dibattito sia acceso su come - operativamente - le piattaforme debbano gestire la morte digitale in relazione a quella fisica. Più di social network permette di creare un profilo commemorativo o di nominare (in vita) un contatto erede per la gestione del profilo, in quello che potremmo tranquillamente considerare un “testamento digitale”. Immagino che siano tematiche molto delicate sia sotto un profilo etico che inerente alla privacy. Secondo te dove si posizionano le più grandi criticità del dibattito relative a questi due aspetti?

I problemi maggiori scaturiscono dalla scarsa consapevolezza del ruolo della registrazione dei dati all’interno dei social network. Ciascuno di noi condivide pensieri, immagini e video senza tener conto che, una volta registrati, le loro tracce sono indelebili e incancellabili (in un certo senso, immortali). Se questo crea enormi criticità nella vita di tutti i giorni (pensa al famigerato caso di Tiziana Cantone), ovviamente ciò si amplifica quando ha luogo la morte dell’utente. Pertanto, occorrerebbe innanzitutto essere coscienti che si può morire da un momento all’altro. Sulla base di ciò, in secondo luogo, sarebbe opportuno predisporre anticipatamente, a tavolino, le proprie eredità digitali, di modo da evitare più problemi possibili. Senza la consapevolezza della necessità di predisporre le eredità digitali, si rischia di sopravvivere online, una volta morti, lasciando i nostri spettri digitali nelle mani di terzi in una specie di interazione postuma del tutto arbitraria. Si rischia, quindi, di creare danni emotivi in chi soffre il lutto: sono quotidiane le diatribe familiari tra chi vorrebbe chiudere i profili del morto e chi invece li vorrebbe conservare.