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Paolo Strano

Come possono le tecnologie immersive supportare un contesto delicato come quello della detenzione?

Scritto da Andrea Pagano il 25 maggio 2020

Come possono le tecnologie immersive supportare un contesto delicato come quello della detenzione? Un “carcere aumentato” può estendere la percezione dei detenuti e diminuire le tensioni gestite dal personale? Ce lo spiega Paolo Strano, cofondatore di Economia Carceraria e ideatore del progetto Work(in)Out, in un’anteprima del suo intervento alla Milano Digital Week.


Ammetto di essere molto sensibile ai progetti di riqualificazione della dignità dell’essere umano in ambienti detentivi, anche in ottica di (re)integrazione concreta nel contesto socio-economico. Per questo e per altri motivi ho apprezzato da subito il progetto Economia Carceraria e la sua declinazione web: vuoi provare a raccontarcelo meglio?

Siamo partiti con un progetto che può apparire un po’ eccentrico (in questo contesto) ma calcolato ed efficace: abbiamo realizzato un piccolo birrificio artigianale, Birra Vale la Pena, per formare e includere i detenuti nella filiera della birra artigianale, che ora è diventata una spin-off, e va sulle proprie gambe. L’iniziativa, che si è rivelata faticosa e complessa, ha vinto premi nazionali di innovazione ed impatto sociale, ed è stato attenzionata dalla Commissione Europea fino a presentarla a Bruxelles. Inoltre abbiamo realizzato che come noi, piccoli e in continua difficoltà, ci fossero tanti altri progetti produttivi nei penitenziari italiani di cui non si ha notizia, ma che quotidianamente svolgono un prezioso lavoro per creare opportunità e valore; e abbiamo deciso di metterli in rete, creando una piattaforma di valorizzazione, commercializzazione e sviluppo di questi prodotti, che si chiama appunto Economia Carceraria, e tra poco avrà anche un e-commerce.

Con il vostro Work(in)Out invece (sviluppato in collaborazione con la start-up Keiron) promettete di estendere il concetto di “carcere aumentato” alla dimensione atletico/sportiva: puoi spiegarci di cosa si tratta?

Work(In)Out è un progetto finalizzato ad assicurare una migliore condizione psicofisica per quanti sono ristretti nelle strutture detentive, mediante un’attività estremamente innovativa di Fitness Virtuale con l’utilizzo di visori di Realtà Virtuale e un software realizzato appositamente dalla start-up romana Keiron, grazie al quale i detenuti potranno allenarsi e svolgere attività motoria reale, ma in un contesto virtuale, e realizzare un’esperienza di utilizzo totalmente immersiva e coinvolgente, in grado di farli isolare dalla realtà detentiva che vivono, sperimentando la sensazione di essere in un ambiente diverso. Il progetto prevede l’utilizzo del primo visore completamente autonomo, senza collegamenti, fili o dispositivi esterni, il Lenovo Mirage Solo, che consente di spostarsi velocemente, chinarsi, e muoversi in modo naturale in tutta libertà nell’ambiente virtuale, realizzando un allenamento completo e funzionale, con un allenamento ad alta intensità che offre delle esperienze statiche-isometriche ma anche dinamiche-orientative, stimolando tutte le fasce muscolari.

Un progetto che sicuramente promette di migliorare il benessere fisico e mentale della popolazione detentiva, che potrebbe impattare positivamente anche sul personale penitenziario, riducendo tensioni e conflitti fra detenuti in stati psicofisici più “umani”: avete previsto un periodo di test del progetto per saggiarne gli effetti? Come vi state muovendo sull’implementazione?

Vogliamo dimostrare che questo allenamento, estraniante virtualmente dalla realtà detentiva che vivono, possa migliorare il benessere non solo fisico, ma anche mentale e sociale in un ambiente particolarmente carente di spazi e libertà di movimento come il carcere.
Vogliamo verificare la diminuzione del livello di tensioni e conflitti, il miglioramento della convivenza nell’Istituto penitenziario, e i benefici diretti anche al personale del carcere, misurati con valutazioni pre, durante e dopo l’attività attraverso focus group e colloqui individuali con i detenuti e le guardie carcerarie coinvolte, in un periodo di tre mesi, gestito da due psicologhe comportamentiste, che realizzeranno un output di misurazione dei risultati ottenuti. La vera implementazione che immaginiamo, e sulla quale stiamo già lavorando, è che i visori possano diventare anche uno strumento di fruizione in carcere di contenuti formativi e culturali, che crediamo possano generare una serie di cambiamenti personali virtuosi ed efficaci, per preludere all’uscita di una persona diversa dall’esperienza detentiva, che è spesso paradossalmente criminogena, nel senso che senza percorsi di crescita e in condizioni al limite del rispetto dei diritti umani più elementari, è difficile immaginare un reinserimento.