Se da una parte ci sono gallerie d’arte contemporanea che un po’ scoraggiano la città, perché sentono la necessità di aprire una nuova sede in altri mercati o, nel peggiore dei casi, hanno l’obbligo di trasferirsi in toto per mantenere viva la propria attività, dall’altra ci sono spostamenti che incoraggiano, come quelli che portano da San Lorenzo verso il Centro. Una nuova sede fa festeggiare, una serie di mostre che hanno trasformato la galleria da piacevole scoperta a riferimento che riesce a sorprendere, la White Noise Gallery piace e convince e per questo abbiamo deciso di fare due chiacchiere con i suoi fondatori Eleonora Aloise e Carlo Maria Lolli Ghetti.
Rimettiamo le lancette indietro di quattro anni. Potete raccontare la giornata in cui vi siete incontrati e avete deciso di aprire una galleria? Cosa vi siete detti?
Eleonora Aloise e Carlo Maria Lolli Ghetti: Era nell’aria da tempo, ma ne avevamo sempre parlato con una buona dose di scaramantica ironia. Una sera, alla fine di un lungo aperitivo e lunghissime chiacchiere, ci siamo detti: perché no?
Qual era il vostro obiettivo? È lo stesso oggi, a quattro anni di distanza?
L’obiettivo che ci ha mossi quattro anni fa era la voglia di fare la differenza, la speranza di riuscire a contribuire con il nostro operato allo sviluppo della storia dell’arte. In questi termini crediamo che l’obiettivo sia rimasto immutato. Certamente siamo cresciuti noi, meno sognatori e più pragmatici, è cresciuta la galleria e la sua proposta, ma la mission rimane uguale.
Vi conoscevate già prima dell’esperienza White Noise?
Sì, da diversi anni e grazie a un amico in comune che è ancora oggi il padrino morale della galleria!
A proposito, da dove viene e cosa significa per voi questo nome?
Abbiamo voluto cercare qualcosa che fosse accattivante e al contempo che definisse l’approccio della galleria. Il rumore bianco è dato dalla somma di tutte le frequenze data una certa lunghezza d’onda. La galleria vuole essere in grado di dare una panoramica indipendente e ampia sul contemporaneo. Non privilegiando e né escludendo nessuna delle sua manifestazioni, ma, appunto, captando tutte le sue lunghezze d’onda.
Quali sono state le vostre esperienze nel mondo dell’arte contemporanea precedenti all’apertura della galleria?
Eleonora Aloise: Entrambi abbiamo una formazione scientifica. I primi passi per me sono stati mossi nel 2006 come assistente di galleria per poi arrivare alla gestione e alla curatela. Per Carlo, dopo il Luiss Master of Art, l’esordio è stato nel coordinamento del progetto Garbage Patch State di Maria Cristina Finucci durante la Biennale di Venezia del 2013.
Andando ancora un po’ più indietro, da dove nasce la vostra passione per l’arte contemporanea?
Una grande passione per l’arte è certamente il minimo comune denominatore di tutti coloro che sposano il nostro progetto. Ciascuno di noi ha vissuto le sue sindromi di Stendhal e i suoi incontri folgoranti con determinate opere; incontri talmente forti da spingerci a cambiare i nostri disegni di vita per poter fare un lavoro di questa passione. Su tutti, possiamo fare due nomi che per noi sono stati messianici: Gino de Dominicis e Francis Bacon.
Quando ad amici e parenti avete detto di voler aprire una galleria d’arte contemporanea a Roma, cosa vi hanno risposto?
Ctrariamente a quanto si potrebbe pensare, non abbiamo trovato resistenze, anzi, un incredibile sostegno che dura ancora oggi.
Ci sono state delle gallerie da cui avete preso spunto nel pensare la White Noise?
Certamente il nostro riferimento principale sono stati i grandi galleristi del passato. La sensazione è che i personaggi degli anni Sessanta e Settanta avessero un ruolo definito e forte anche nella costruzione scientifica del lavoro e non solo in quella commerciale. Il nostro modello sono certamente i galleristi-curatori, in grado di scoprire talenti e di dare al contempo un valore aggiunto tangibile e riconoscibile alla loro ricerca.
C’è una galleria di Roma al cui lavoro avete sempre guardato con interesse?
Fortunatamente Roma è una città che negli ultimi anni ha trovato nuove energie nel contemporaneo, grazie all’altissima qualità delle gallerie romane e internazionali presenti sul territorio. Seguiamo diverse realtà:
per citarne alcune, sicuramente Monitor, Lorcan O’Neill e T293. In ambito più ampio, stimiamo molto la ricerca della Fondazione Volume!, Nomas Foundation e Fondazione Giuliani.
Vi ricordate la prima mostra? Ce la potete raccontare?
Non credo che potremmo mai dimenticare la prima mostra: l’atmosfera elettrica, la sensazione di lavorare per qualcosa di grande e l’ambizione di allestire lo stesso progetto nelle sale della Serpentine! La prima mostra fu una personale di Pax Paloscia, artista di grandissimo valore e di spessore umano incredibile, che accettò di esporre da noi letteralmente seduta su un cesto di calcinacci in quella che, nelle nostre teste, sarebbe stata una grande galleria d’arte. Una mostra a cui ripensiamo con grande tenerezza e orgoglio.
Come siete entrati in contatto con Pax e come vi muovete oggi per contattare e ricercare i vostri artisti?
L’incontro con Pax è stato completamente dovuto al caso. Per vie del tutto distinte, a entrambi era stato suggerito più volte il suo nome nello stesso periodo, casualità che si è rivelata davvero fortunata. La maggior parte del nostro tempo è da sempre dedicata alla ricerca, i canali sono molti e vanno dalla rete, alle fiere fino alle Accademie.
Impressioni e pensieri prima e dopo quel primo opening?
Orgoglio e confusione. Ricordiamo solo la forma indefinita di una folla oceanica, la frenesia di mille mani da stringere e l’ubriacante atmosfera di un vernissage riuscito. La storia degli opening della galleria è sempre stata molto positiva, ma certamente nessuno potrà mai competere con quella prima volta. Come i ricordi felici di una recita da bambini: tutto era più bello, più grande, più luminoso.
Parliamo invece della mostra attuale di Michele Gabriele. Immagino sia molto indicativa dell’approccio che avrà la White Noise nei prossimi anni, sia come tipo di ricerca artistica, sia come modalità espositiva, incentrata molto sull’installazione.
Il nostro approccio avrà sempre di più un’anima sperimentale, ma non in maniera forzata. Cercheremo di proporre al pubblico nuovi linguaggi e tutti i progetti saranno in stretta relazione con lo spazio. È importante per noi che la galleria non sia solo un contenitore, ma parte del contenuto.
Una tendenza che già era iniziata in maniera significativa con la mostra Rebirth. Quali sono state le vostre reazioni e quali quelle del pubblico alle opere esposte dai Santissimi?
La scelta della direzione da intraprendere con il nuovo corso di galleria è stata ponderata e pianificata con cura. Il nostro approccio con le opere dei Santissimi avvenne più di un anno fa e, sebbene vederle installate nel nostro nuovo spazio ci abbia commosso, eravamo sicuramente più preparati rispetto al pubblico. La reazione di quest’ultimo è stata sorprendente: tutti hanno colto il nostro desiderio di crescita e la forza di impatto delle opere di Rebirth è stata necessaria per sottolineare il salto quantico che abbiamo voluto compiere.
Pensate che la vostra scelta coincida con una corrente diffusa? In molte gallerie stanno rifacendo capolino quadri e fotografie da salotto, sono pochi quelli che rischiano.
Oggi, per fortuna, esistono molti modi per fare il nostro mestiere, possono dipendere da molti fattori e considerazioni legate al mercato o alle ambizioni personali. Il nostro orientamento è figlio delle esperienze maturate in questi anni, guardando molto all’estero per quanto riguarda una maggiore fluidità della proposta, ma cercando di mantenere l’innovazione sempre in equilibrio con un approccio italiano nell’essere curatori e galleristi.
Oltre agli artisti appena citati, quali sono gli altri italiani – e di Roma in particolare – di cui apprezzate il lavoro?
Eviteremo per correttezza di parlare dei “nostri” artisti – sebbene non citare il lavoro di Carotti, Gabriele e Manzo sia un gran peccato. L’Italia è un palcoscenico vivo e dinamico pieno di giovani professionisti di grandissima caratura. Artisti come Piangiamore, Nasini o realtà come Claire Fontaine e Invernomuto sono esempi virtuosi di italiani che possono reggere qualunque palcoscenico. In realtà – e per fortuna – di nomi ne potremmo fare a decine e questo è certamente un buon segno per il sistema dell’arte italiana.
Parlando di Roma, cosa ne pensate, in rapporto all’arte contemporanea?
Roma sta conoscendo un periodo di crescita, non solo dovuto alle gallerie private, ma anche alla grande vitalità delle accademie nazionali, delle fondazioni e, soprattutto, grazie a un pubblico pronto a recepire con curiosità ciò che viene proposto. Avremmo bisogno che le istituzioni incrementassero la loro funzione di “centro gravitazionale”, per convogliare iniziative e proporre collaborazioni fra le strutture del settore. Questo percorso di rinnovamento è iniziato anche grazie a nuovi dirigenti che hanno saputo rivitalizzare molte istituzioni prestigiose, pensiamo allo splendido lavoro di Cristiana Collu alla Galleria Nazionale.
Qual è il suo pregio e quale il suo difetto, sempre in rapporto all’arte contemporanea?
Il pregio principale di Roma è nel suo infinito bagaglio culturale che permette a tutti gli artisti contemporanei di instaurare immediatamente un dialogo con la città e la sua storia. Il suo difetto è probabilmente quello di essere coinvolta e dominata da dinamiche socio-culturali dal sapore vagamente felliniano, che spesso le impediscono di ambire a un ruolo realmente significativo nel panorama contemporaneo mondiale.
Manca una fiera o comunque un importante appuntamento legato all’arte contemporanea, dei musei solo il Maxxi rimane in piedi. C’è il rischio di isolamento?
In assenza di una fiera e di grandi eventi, speriamo che la nuova vita della Quadriennale possa e voglia farsi carico di un rinnovato rapporto con il territorio, per rendere Roma un punto di riferimento assoluto anche a livello internazionale. Il rischio di isolamento esiste, ma non si tratta di una mancanza di volontà, quanto di una responsabilità politica, che solo la politica può decidere di risolvere, capendo le potenzialità reali di questo settore, sia in termini di turismo che di risorse.
L’impressione che ho è che il numero di artisti attivi e interessanti in città, parliamo ovviamente degli artisti giovani, stia sensibilmente aumentando: è così?
Senza un sistema in grado di sostenerli, non possono esistere/resistere nuovi artisti. La crescita nel numero di ragazzi di talento, che hai giustamente riscontrato, è figlia di un impulso forte e positivo che sta avendo il sistema romano in questi ultimi anni. La presenza sul territorio di giovani realtà di ricerca, unita al lavoro di grandi galleristi e all’apertura di sedi romane da parte di nomi altisonanti come Emanuel Layr o Gavin Brown, certamente crea l’humus fondamentale perché possano germogliare nuove proposte.
Alcune gallerie, invece, aprono doppie sedi in altre città o si trasferiscono in toto. Ci sono poi anche gallerie estere che, dopo un’esperienza a Roma, se ne sono tornate nel paese d’origine. Che città è Roma, attualmente, per un gallerista? Bisogna restare e insistere o è giusto pensare a un piano b?
Per noi è importante restare: l’Italia e Roma hanno ancora un bagaglio di credibilità spendibile all’estero di cui essere fieri, anche se aprire sedi in altre nazioni è certamente l’ambizione di tutti. Per chi fa il nostro mestiere non serve solo un piano b, ma almeno altri dieci!
Avete mai pensato a una vostra doppia sede o a un trasferimento?
Pensiamo spesso alla possibilità di aprire una seconda sede nel futuro e francamente ci auguriamo di dover affrontare il problema sulla location il prima possibile. Non crediamo, però, che la decisione ricadrebbe nuovamente su una città italiana. La realtà italiana è importante ma non polare per il sistema dell’arte contemporanea e, dovendo sognare, probabilmente ci piacerebbe aprire una sede in un mercato nuovo e più dinamico.
La vostra sede si è spostata, ma da un quartiere all’altro di Roma. Qual è la storia della prima sede?
La prima sede era a San Lorenzo, storica sede di Radio Città Futura negli anni 70. Era uno spazio su tre livelli, molto diversi fra loro per conformazione e scopo. Uno dedicato all’esposizione tradizionale, mentre il cuore curatoriale era nella project room interrata, dove gli artisti erano chiamati ad allestimenti site specific dalla forte matrice sperimentale. Quest’ultimo approccio lo abbiamo trasferito per intero nello spazio della nuova sede.
Come vi siete trovati nel quartiere che la ospitava?
Benissimo. Aprire la prima sede a San Lorenzo è stato logico, vista la storia del quartiere, ma anche azzardato, considerando le sue caratteristiche attuali. San Lorenzo è uno dei quartieri più “romani” di Roma e questo è stato molto interessante per il dialogo che la galleria e gli artisti hanno potuto portare avanti con lo spazio e il contesto che li circondava.
La nuova sede com’è?
È uno spazio più maturo, più strutturato e, per certi versi, più complesso, ma per questo stimolante. Avevamo bisogno di una nuova pelle che fosse adatta alla nostra ricerca futura, dopo molto tempo abbiamo trovato quella perfetta.
Perché avete scelto di andare in centro?
Dovevamo dare un segno di cambiamento e crescita. In questo particolare quadrante del centro storico la concentrazione di gallerie è esponenzialmente superiore rispetto agli altri quartieri. Nel nostro mestiere le logiche di distretto possono essere molto funzionali e oggi siamo a dieci minuti a piedi da tutte le gallerie più importanti di contemporaneo a Roma.
Ci dite una mostra che avete visto di recente e vi è piaciuta particolarmente?
Sicuramente il Padiglione Italia curato da Cecilia Alemani della scorsa Biennale di Venezia ha segnato per noi una traccia nel modo in cui bisogna pensare e proporre il contemporaneo. Rimanendo a Venezia, l’incredibile visione di Damien Hirst. Per quanto riguarda Roma, Mircea Cantor alla Fondazione Giuliani e il progetto Spazi aperti all’Accademia di Romania.
Un artista su cui scommettere per il futuro?
Giusto perché siamo a fine intervista ci concediamo un approccio più spavaldo. Pescate un nome a caso dalla nostra programmazione del 2018 e siamo pronti a giurarvi che si tratta di un cavallo vincente.
Tra cinque anni sarete felici se?
Se avremo la stessa voglia di oggi di pensare ai prossimi cinque!