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Francesco Librizzi

Lo spazio raccontato da chi lo spazio lo fa

quartiere Centrale

Scritto da Piergiorgio Caserini il 9 febbraio 2022
Aggiornato il 17 febbraio 2022

Foto di Luca Grottoli

Quando si pensa a che cosa sia lo spazio non si ha mai una risposta definita. Si circoscrive lo spazio con tanti nomi, tante storie, basti pensare come l’Occidente lo pensi in funzione del tempo e della percorrenza. C’è chi dice che lo spazio sia un’invenzione per geometri, ed effettivamente è vero. Francesco Librizzi è architetto e teorico dello spazio nonché direttore artistico di Fontana Arte, e qui sotto ci ha raccontato una storia. Di sensazioni e attitudini, di sguardi e sorvoli, di relazioni e di che cosa significa “fare architettura”. Non poteva che abitare in Stazione Centrale, affacciato al Pirellone e al Montedora di Gio Ponti, in una casa che rifiuta di essere chiusa, con l’idea di una città dei quartieri che è la visione dai voli di bassa quota tra Palermo e Pantelleria.

«A me piace danzare con lo spazio.»

 

Partiamo da un'espressione che si trova sulla tua biografia e che mi ha incuriosito molto, perché testimonia forse un modo di gettare lo sguardo sull'architettura: la "tettonica" dello spazio. Una visione a sorvolo che a me ha ricordato Virilio, e fa dello spazio una dinamica di flussi, perciò: cos'è per te lo spazio?

Guarda, mi stai fregando. Io insegno space design in diversi posti, e questa è la domanda che faccio ai miei alunni al primo giorno, per fotterli. Perché nessuno sa dare la stessa definizione. E quindi ti rispondo come rispondo a loro, per fare il figo: lo spazio non esiste, ma si può costruire

Pensa che mi ero detto che se mi avessi risposto "lo spazio non esiste" io avrei rilanciato su Lefebvre con la “Produzione dello Spazio”, e allora chiederti come si definisce, chi è o chi sono i suoi inneschi!

[Ride] Ti rispondo con le stesse parole che mi orientano per progettare lo spazio. Giocando su questo doppio senso di “definizione”: da una parte circoscrivere, definire un’area; dall’altra è farne un’enunciazione, un’asserzione di qualità. Insomma, io so che il mio mestiere è dare una definizione dello spazio. Riconoscerne una porzione e lavorare sulla sensibilità, considerando ogni luogo come un “paesaggio zero” e quindi trasformabile – per quanto finito. Può essere un deserto, un appartamento, un bar. Il mio lavoro è vedere altre configurazioni. Per questo mi muovo su diverse categorie, pensando lo spazio per componenti. 

Quali sono?

La prima è il “suolo”: ciò che resiste alla gravità e lo spazio così come lo viviamo. Un tema di topografia ma anche politico, poiché il suolo ha una nazionalità, dei confini, una giacitura, una composizione, una stratificazione temporale. La seconda è quello del “campo”: lo spazio definito dalle sue regole e proprietà piuttosto che dalla sua fisicità; uno spazio definito come campo è un campo di gioco (come a dire: all’interno di questa linea bianca si fa questo o quest’altro) per cui non importa troppo la sua composizione fisica ma le sue regole. Allo stesso tempo è anche un campo acustico, e quindi si può definire un rapporto tra ricevitore e ricevente, una distanza massima di un segnale che definisce un territorio. Poi arriviamo agli “oggetti”, a ciò che occupa lo spazio. Sono presenze, e quindi influenze spaziali (se mettiamo un sasso repellente in mezzo allo spazio ci giriamo attorno). Ma ci sono anche oggetti impalpabili come l’aria, che ha delle qualità, una densità, una composizione – pensa alla progettazione della microelettronica. Un altro è il tema degli “impianti”, che preferisco sempre trattare in maniera astratta. Impianto elettrico, idrico, acustico, termico, in fondo tutti rendono disponibile – in qualunque punto dello spazio – una fonte che non è altrimenti disponibile localmente. L’acqua nel deserto, la luce nella notte, sono sistemi di allocazione. Arriviamo poi alle “strutture”, che è il tema della tettonica. Le strutture ti consentono di interpretare la forza di gravità, distribuendola. Pensa banalmente a un tavolo con quattro gambe. Ecco, questa interpretazione crea spazio, definisce percorrenze e flussi fisici. Da qui, arriviamo al tema dei “filtri”, o involucri, ovvero il modo in cui si determina lo spazio sul limite. Muri, finestre, porte… ma al di là del dogmatismo dello spazio, il filtro è una decisione arbitraria che lascia fuori qualche cosa e dentro dell’altro. Insomma, a me piace danzare con lo spazio. Volendomi muovere liberamente, queste definizioni mi consentono ogni volta, anche tatticamente, di avere una risposta adeguata alle condizioni dello spazio in cui mi trovo. 

Andiamo nel dettaglio: molti parlano di casa tua in Centrale, che si affaccia sul Pirellone e il Montedoria di Gio Ponti. Ce la descrivi a partire da queste intuizioni?

Sicuramente c’è un lavoro sul suolo molto forte, una sorta di campionatura dello spazio esterno che dialoga con i materiali delle architetture su cui s’affaccia. È una specie di loggia urbana, molto finestrata e apertissima, non una tana o una capanna, ma un avamposto urbano, che si proietta verso l’esterno, e questo ha influenzato i materiali dell’interno. La prima reazione è stata infatti sulla superficie del suolo, che è a metà tra un seminato e un terrazzo: una grande superficie di cemento con dei grani di marmo nero e grossi pezzi di marmo colorato disposti in posizioni strategiche rispetto alle palette a cui si approssimano. Bisogna pensarlo come un gioco ottico in cui il pavimento è la pellicola: la città entra dalle finestre e impressiona la casa, e allo stesso modo chi entra in casa rimbalza sul pavimento e vede un’immagine della città. 

C’è un tuo progetto che ha lasciato un segno indelebile sul modo di intendere lo spazio?

C’è stato un progetto che ha cambiato il mio modo di pensare ma anche le maniere con cui gli altri si sono rapportati a me: il primo progetto di una serie di scale per l’architettura. Ancora oggi, quel progetto di quindici anni fa – in un’epoca in cui quindici anni sono tanti – è vivo, circola, mi ritorna addosso. Fu un progetto molto liberatorio per me. Non soltanto perché lo avevo ricercato, ma perché è sgorgato. Da lì, a un certo punto mi sono ritrovato autorizzato a fare architettura per come mi veniva di farla, ed è stato un grande privilegio. 

Casa C
Casa G

In che senso “autorizzato”?

Nel senso che c’è una totale mancanza di innocenza nella disciplina, e io invece ho avuto il privilegio di fare di questa innocenza, di un pezzo forse, un modo di lavorare. Di poter eseguire una vocazione con ingenuità, e di essere autorizzato a farla. Insomma, quello facevo con quell’energia piaceva. Infatti, dopo quella scaletta, ho fatto l’allestimento alla Biennale di Venezia del 2010 del padiglione Italia – che è un po’ come essere convocati in Nazionale. Insomma, in quel periodo tra i miei 28 e i 35 anni ho potuto seguire tutto un filone di architettura che potremmo chiamare “spontanea”, una vera botta di culo diciamo. Sono stati anni che hanno lasciato un segno. Al di là della capacità di continuare a generare forme nuove, se c’è una cifra significativa che un autore può tirare fuori penso che la mia possa essere quella. 

È un'immagine poetica questa dell'ingenuità, senza sovrastrutture vincolanti. Ed è rara, perché paradossalmente più etichettabile (se si può dire) agli artisti.

Esattamente. Significa sia saper sentire e vedere, ma anche avere una certa predisposizione. E poi un terreno pubblico che ti dice: please, do it.

Tu abiti nel pieno di Centrale. Come ne descriveresti gli spazi?

Quartiere Centrale rappresenta una delle caratteristiche più proprie di Milano: la possibilità. Io sono Siciliano d’origine, vivo qui da quasi vent’anni perché immediatamente, appena arrivato, mi sono trovato dentro a una condizione di prossimità. Non solo con le persone, ma con le cose che amavo più nella mia vita. Design, architettura, e una certa dinamica di confronto sociale. D’altronde siamo in una città magica: un grande attrattore, che mi ha permesso di incontrare molte persone che avrei voluto conoscere. Così Centrale rappresenta un po’ questa prossimità, che è il grande facilitatore di Milano: un avamposto su Milano, sugli aeroporti, su Bologna… e non è un tema di servizi, ma di sentimento. Io vivo a Milano perché non avrei voluto sentirmi lontano dalla mia vita. 

Cosa ne pensi invece di questa esplosione del tema dei quartieri?

Mi piace moltissimo, perché è un volo a bassissima quota. Non so se ti è mai capitato di volare così, per esempio da Palermo a Pantelleria. La cosa bella è che voli più basso, vedi il territorio da vicino. È uno sguardo stupendo. Mi sembra che modo di guardare alla città sia una specie di volo raso… oppure potrei risponderti così: in una mostra di cui ho fatto l’allestimento in Triennale su Gino Sarfatti, c’era una teca con all’interno un numero di una vecchia rivista d’architettura di fine anni Cinquanta. Non ricordo il nome, ma sul retro di copertina c’erano gli indirizzi e i numeri di telefono degli architetti di Milano. Li ho fotografati tutti, c’era Albini, c’erano i BBPR… ecco, l’operazione sui quartieri mi sembra questo. Una specie di “tutto città”, che guarda dentro e fuori da ogni quartiere