Gli archivi non sono solo faldoni e scaffali scorrevoli, scale e corridoi, guanti e cautela. Sono anche automatizzazione, braccia meccaniche, metallo e motori che spostano delicatamente chilometri di documentazione cartacea in migliaia di vasche, come in Bicocca. È la Cittadella degli Archivi: 70 km lineari di carta, il braccio robotico Eustorgio, mostre ed eventi per il patrimonio documentale dell’intera area metropolitana.
«Se tutte le istituzioni culturali facessero questa attività io sono sicuro che comincerebbero a riemergere i grandi talenti e i grandi capolavori.»
Presentazioni: chi è Francesco Martelli?
Attualmente sono Direttore della Cittadella degli Archivi del Comune di Milano, docente di Archivistica alla Statale e Advisor degli Archivi del Museo del Design Adi – Compasso d’Oro.
Che cosa fa il Direttore della Cittadella degli Archivi del Comune di Milano?
Si occupa in gran parte di gestione della struttura, del personale, di gare, appalti e manutenzioni, logistica degli spazi… e si arrabbia, perché come buona parte dei dirigenti pubblici è in costante rapporto con una burocrazia che rende tutto complicato e fa perdere moltissimo tempo. Diciamo che il 20% del tempo poi, per fortuna, lo occupa nel fare il suo vero “mestiere”. Quindi più strettamente la questione archivistica, il coordinamento delle ricerche d’archivio in base alle richieste che ci arrivano e anche l’organizzazione della parte culturale, di mostre ed eventi che ospitiamo in Cittadella, che è la parte più bella del lavoro.
Quante persone lavorano in Cittadella?
Ci sono 25 dipendenti comunali. Poi ci sono alcuni dipendenti distaccati di società partecipate, tirocinanti, cooperative, più o meno 35 persone in tutto.
E poi ci sei tu, che se ben ricordo ti sei «trovato» a lavorare lì. Com’è stato il primo impatto quando sei arrivato in Bicocca?
Il primo impatto è stato un impatto da Google Maps; l’Università Bicocca la conoscevo, così come conoscevo l’intervento di Gregotti, molto discusso e in effetti discutibile. Quello che mi lascia perplesso di questi interventi è la loro dimensione così integrale e integralista, per noi italiani sono difficilissimi da digerire. Comunque, il primo impatto: ricordo che fu lo stabile di via Gregorovius con la torre di cemento armato completamente screpolata che sembrava cascare a pezzi. Prima impressione quindi abbastanza tragica: però ricordo anche che la prima volta che sono andato fisicamente in Cittadella me ne sono innamorato.
Da funzionario comunale facevi poi un bel salto: dal centrissimo dove avevi l’ufficio, alla periferia all’estremo nord della città.
Lavoravo in Piazza della Scala, nel palazzo della Ragioneria Comunale. Erano stati in passato gli uffici di rappresentanza della Banca Commerciale, realizzati dal Beltrami. Il mio ufficio era stato quello del banchiere Raffaele Mattioli, quindi 80 m², soffitti a cassettoni dorati, un parquet meraviglioso… Figurati che nell’ufficio dell’Assessore al Bilancio – credo l’ufficio più bello di tutta Milano – c’è una sedia che si narra usata da Napoleone.
Via Gregorovius, tra Niguarda e Bicocca, era ed è un altro mondo: ma quindi come ci sei arrivato in Cittadella dieci anni fa?
Il capo del personale di allora mi fece una proposta: «Ma perché non vai a occuparti di questo progetto nuovo?» e mi disse, molto sinceramente, «Potrebbe essere un angolo morto, ma potrebbe anche avere delle potenzialità».
Le aveva: come sono andati i tuoi primi dieci anni in Cittadella?
Molto bene: da un lato tutto è andato esattamente come l’avevo progettato, ma allo stesso tempo anche in un modo molto diverso da come me l’ero immaginato. Abbiamo archiviata l’intera storia di Milano dall’Unità d’Italia e il nostro vantaggio è che essendo il Comune coinvolto in quasi tutto quello che succede in città, troviamo materiale su qualunque cosa sia successa. Parlando poi del “luogo Cittadella” diciamo che se ti trovi nell’ufficio di Mattioli è difficile poter fare qualcosa di nuovo, mentre in Cittadella avevo praticamente carta bianca. E questo è un tema interessante, perché chi gestisce sedi prestigiose all’interno del centro cittadino ha invece dei vincoli stringentissimi.
Immagino, non si potrà spostare uno spillo.
Si tende a gestire quelle sedi con un approccio conservativo e meno con un approccio didattico-interattivo e innovativo, che invece è applicabilissimo alle realtà periferiche. In Italia poi c’è questo meccanismo perverso per cui se una cosa ha più di settant’anni non la puoi toccare: ma non vuol dire niente. Ci sono cose che hanno duecento anni e nessun valore e cose di quarant’anni che ne hanno moltissimo.
Come saranno i prossimi dieci anni di Cittadella, con il MiMA - Milano Metropolitan Archive?
Il MiMA è il punto di arrivo. Diventeremo per dimensione il secondo archivio d’Europa in assoluto dopo gli Archivi Nazionali di Francia e saremo probabilmente l’archivio meccanizzato più grande del mondo. Andremo ad allargarci in un capannone dismesso che abbiamo all’interno e svilupperemo in altezza la meccanizzazione, al punto di riuscire a custodire il doppio di quello che abbiamo adesso in Cittadella. I lavori dovrebbero cominciare in autunno di quest’anno, credo che per gli inizi del 2025 saranno conclusi.
Sei anche un collezionista d'arte.
Sono un piccolo collezionista, nel senso che compro volentieri, ma poco. Poco perché essendo un onesto dipendente statale (in questa città ormai costosissima) non posso permettermi quasi niente di quello che vorrei. Quindi quando posso compro piccole cose, di artisti molto giovani, con un filo conduttore: tutte le opere che compro devono essere state realizzate nel periodo milanese dell’artista, a Milano.
Quanto incide Milano sull’artista?
L’idea è proprio questa. Cercare di vedere come una città incide sul lavoro: se un’artista torna da Berlino più o meno ha avuto un periodo espressionista, se va a New York, torna che è pop, se va a Parigi tendenzialmente torna un pochino impressionista…
E se lavora a Milano?
Il colore è il primo tratto comune, perché Milano è una città italiana, e l’Italia è il colore, per tutti gli artisti. L’altro dato di fatto è che Milano è una città molto europea e quindi insieme al colore, si porta dietro un po’ di astrattismo, un po’ di espressionismo, un po’ di minimalismo. C’è molto eclettismo nei lavori degli artisti nel periodo milanese.
Hai voluto portare i giovani artisti in Cittadella sia con le opere che ci sono all’interno, sia con le opere sui muri che la circondano.
Sì, perché dobbiamo ricominciare a capire che anche la quantità di arte che produciamo deve tornare fondamentale nel nostro Paese. La quantità. A me non interessa che gli artisti che lavorano sui muri della Cittadella siano grandissimi artisti. Non mi interessa che facciano “il capolavoro”. Però, se il progetto Cittadella dura trent’anni, in trent’anni ha fatto lavorare supponiamo trecento artisti: se tutte le istituzioni culturali facessero questa attività io sono sicuro che comincerebbero a riemergere i grandi talenti e i grandi capolavori. Serve anche la quantità, promuovere la produzione di arte. Questa è un’altra cosa che il settore pubblico ha parecchio abbandonato negli anni: non è più committente. Tantomeno la Chiesa è più committente, e così l’artista è lasciato al proprio talento, o al massimo al rapporto con una galleria o con un curatore. Ma non basta.