La storia del cocktail a Milano coincide con quella del Bar Basso e del suo proprietario Maurizio Stocchetto, nato a Cortina d’Ampezzo nel 1960 ma milanese d’adozione – suo padre Mirko rilevò il bar nel 1967. Siamo andati a trovarlo un tranquillo pomeriggio d’estate e, dopo averci preparato un bel Negroni Sbagliato, ci ha raccontato un bel po’ di aneddoti su se stesso e sul suo locale, oltre a un interessante punto di vista sulla nuova scuola di barman che lavorano coi misurini.
Puoi raccontarci la storia del Bar Basso?
Giuseppe Basso aprì l’omonimo bar nel 1933 in Porta Vigentina; nel ’46, dopo la guerra, si spostò nell’attuale sede: lo gestì con successo fino al ’67, quando lo rilevarono due barman veneziani che avevano reso celebre l’Hotel Posta di Cortina: Renato Hausamann e Mirko Stocchetto, mio padre. L’obiettivo era diffondere i cocktail in una città dove, salvo rare eccezioni, non si bevevano: lo centrarono grazie a un periodo storico favorevole – c’erano ottimismo, soldi, il ’68 e la controcultura, ma anche un po’ di ingenuità che non guastava – e a un pubblico composto da onorevoli, banditi, poliziotti, industriali (alcuni clienti negli anni 60 erano soliti prendere il volo Aeralpi da Cortina a Linate per bere un drink qui), Presidenti della Repubblica – la foto di Pertini che esce dal bar nel 1981 è lì a testimoniarlo, ndr – e gente comune. Negli anni 80 fortunatamente non abbiamo vissuto il fenomeno della Milano da bere, piuttosto è cominciato il rapporto spontaneo – mi piace pensare che furono attratti dal nostro bicchiere del Negroni – con designer come, James Irvine, Ron Arad, Erica Calvi, Jasper Morrison, Stefano Giovannoni e tanti altri, rapporto che ci ha portato a essere il luogo preferito da molte aziende per gli eventi del Fuorisalone.
Quando ti sei avvicinato al bancone?
Ho cominciato a lavorare al Bar Basso a sedici anni, ma solo d’estate e qualche sabato sera per pagarmi la benzina ed essere indipendente, non certo per un interesse spontaneo per il mondo del bar. Era un’altra epoca, i ragazzi allora non avevano quasi mai soldi in tasca. La mia mancia era di 20.000 lire a settimana! Fu durante il periodo universitario che cominciai a interessarmi ai cocktail, grazie a un viaggio in California: gli americani bevevano drink, mica vino, e mi innamorai dei cocktail anni 50, del post punk e della new wave di San Francisco.
Qual è il primo cocktail che hai preparato?
Penso un Gin Fizz o un Paradise Classic… andò bene comunque.
Qual è stato il miglior cocktail che tu abbia mai bevuto?
Un Old Fashioned al Bix di San Francisco a inizio anni 90, soprattutto per una questione sentimentale e di atmosfera.
Qual è l’oggetto al quale non rinunceresti mai mentre lavori?
Sicuramente lo stir, un piccolo bastoncino di metallo che è un’estensione della mano e mi permette di intervenire sui cocktail: tra l’altro è molto più discreto di una pinza e di un cucchiaino.
Cosa consiglieresti a un ragazzo che vuole diventare un bravo barman?
I cocktail come tante altre arti vengono creati su lavori di persone che c’erano prima di noi, per cui studiate quello c’è stato fino ad adesso – un po’ come nella musica jazz: è anche una questione di rispetto! Viaggiate tanto e imparate le lingue: si impara sul campo, da un buon maestro, ma non si finisce mai di studiare. Certo, ci vuole una buona base (quella rimane sempre, mentre le nuove tendenze cambiano). E poi ci vuole l’umiltà di mettersi in discussione, ma quella purtroppo non si insegna.
É un periodo parecchio favorevole per il mondo dei bar e dei barman a Milano: qual è il tuo punto di vista?
Sicuramente negli ultimi anni c’è un’attenzione maggiore anche da parte del pubblico nei confronti della miscelazione. Lavorando praticamente tutte le sere, non saprei farti dei nomi nuovi a parte quelli di locali che sono delle certezze in città come il Rita, il Nottingham Forest, il Radetzky e il Cape Town. In generale, apprezzo molto l’approccio storico dei giovani barman verso il mondo dei cocktail con spunti da Jerry Thomas al Proibizionismo, fino a Sex and the City o Mad Men. Sono invece perplesso riguardo l’uso dei misurini che sembra essere diventato indispensabile. Deve essere una questione generazionale: nella “vecchia scuola” si impara a dosare usando il polso e in seguito alla ritualità di compiere sempre gli stessi gesti, usando sempre gli stessi bicchieri o strumenti per anni si acquisisce l’abilità di dosare gli ingredienti; usando il “jigger” mi sentirei come un acrobata che va sul trapezio agganciato a una fune, oppure un motociclista che si presenta alla griglia di partenza con le rotelline.
C’è qualche novità al Bar Basso?
É da tanto tempo che stiamo pensando di avere un piccolo laboratorio di cucina: è un’esigenza anche per i clienti, che spesso si trovano nella condizione di dover cambiare locale dopo un paio di bevute. Ora ci siamo quasi, non vediamo l’ora!
Qual è il rimedio per riprendersi da una sbronza?
Be’, sicuramente pensarci prima! Generalmente, la nostra missione è quella di non portare mai il cliente a quel punto… Ma se vieni al Bar Basso ti preparo un Prairie Oyster: succo di limone, Worcester, tabasco, sale, pepe, succo di pomodoro, un rosso d’uovo e un goccio del il distillato che hai bevuto la sera prima (oppure vodka che va sempre bene). Va bevuto tutto d’un sorso: l’uovo copre tutto lo stomaco e puoi ricominciare a bere.