Lo chiamavano “il quartiere degli artisti”. Oggi dopo anni di gentrificazione, movida-food-and-beverage e l’esplosione della “Borgata Boredom”, il Pigneto (nella sua versione estesa, che si allunga fino verso Torpignattara), è ancora il quartiere della resistenza: quella della “musica off”, quanto quella di comitati cittadini che lottano per tutelare un’area verde o una scuola multiculturale. Tra i pilastri che hanno reso il Pigneto il cuore della musica alternativa e scoppiata a Roma, c’è il Trenta Formiche: uno dei simboli dell’associazionismo che non demorde, che fa rete con le altre realtà del quartiere, attivo ormai da 10 anni, promotore di suoni distorti italiani e internazionali e di un modo di vivere la produzione culturale indipendente in maniera inclusiva e avventurosa. Una sintesi di tutto ciò che ha reso forte questo territorio, così urbano, stratificato, multiculturale e, nonostante tutto, ancora creativo. Della storia che ha portato alla nascita del Trenta Formiche, delle sue intense relazioni con il territorio e di come, qui, ci si possa ancora sentire nel posto giusto al momento giusto, ne parliamo con il fondatore e direttore artistico del Circolo, Giuseppe Giannetti.
Da dove vieni e da quanto abiti al Pigneto? Come mai hai scelto questo quartiere a Roma?
Vengo da un paesino Lucano, da cui sono partito una notte nel settembre del 2002 con una valigia e le idee molto confuse. Le prime ore a Roma le ho trascorse su una panchina sulla Tuscolana, perché al mio arrivo gli amici compaesani più grandi, che mi avrebbero ospitato di lì a qualche settimana, dormivano con tutti i telefonini Omintel spenti. Musicisti… Ho vissuto sempre nel quadrante Est di Roma, tra Prenestina e Casilina. Per gli studenti squattrinati iscritti alla Sapienza quelle erano le strade di sfogo, i più fortunati riuscivano ad accaparrarsi una stanza in un palazzo fatiscente di San Lorenzo. Dopo quattro anni a Centocelle di fronte al Forte Prenestino, nel novembre del 2006 mi sono trasferito al Pigneto, in un bellissimo appartamento tutto storto ricavato su un terrazzo, al sesto piano senza ascensore ma con una vetrata splendida a 25 metri dalla zona pedonale. Eravamo in due. L’altro – un carissimo amico con cui dopo quattro anni fondammo il Trenta Formiche – viveva al Pigneto già da un anno, e quando cenavamo a casa sua ci capitava sempre più spesso di rimanere lì in zona a trascorrere nottate su qualche gradino dell’isola pedonale senza avvertire più l’esigenza di spostarci a San Lorenzo – il quartiere che frequentavamo di default quando non c’erano eventi al Forte Prenestino, al Villaggio Globale, al Traffic, al Sinister Noise, al Rialto, all’Init o al Circolo degli Artisti. Posti – tutti abbastanza lontani tra loro, eccetto gli ultimi due – fondamentali per la formazione di un gusto musicale personale, che fin da quel momento era limitato a ciò che la provincia lucana poteva offrire. Cacciato da quell’appartamento – probabilmente per le troppe infinite cene – il mio amico si mise a cercarne uno, obbligatoriamente in zona. E quando lo trovò io non esitai ad aggregarmi. Per me significava avvicinarsi a San Lorenzo e all’Università, percepivo qualcosa di piacevole in quelle strade ma non immaginavo che di lì a poco i miei spostamenti all’esterno si sarebbero ridotti drasticamente. All’epoca, anche per gli abitanti, il centro nevralgico del Pigneto era l’isola pedonale – seppur molto diversa da come la vediamo oggi. C’era un Vini e Oli, il ristorante Infernotto, il kebbabbaro all’angolo e i due alimentari di Arafat e Nabir aperti apparentemente senza restrizioni orarie, ma d’altronde non si dava fastidio a nessuno. Qualche secchiata d’acqua la rischiavi se cacciavi fuori una chitarra (e giustamente a mio avviso), eravamo scappati da San Lorenzo perché ormai saturo di contraddizioni ma anche e soprattutto per le chitarre dei fricchettoni.
La zona pedonale del Pigneto all’epoca era più punk, si vedevano ancora creste e borchie, e la cannabis non era l’unica droga che girava: il recente passato di quelle stradine legato allo spaccio di eroina si percepiva ancora. Una stradina pedonale con una sola panchina e un’atmosfera intima ma totalmente outsider. Rimanevamo lì finché non venivano lasciati incustoditi per un’oretta gli scarichi del mercato che avrebbe aperto di lì a poco e spesso quelle cassette contenevano “casualmente” gli ingredienti del nostro pasto notturno. Erano gli anni in cui Sten aveva sdoganato la tecnica dello stencil e noi provavamo indisturbati le nostre microscopiche opere su tutte le pareti delle stradine, anche partendo dai viadotti ferroviari che attraversano tutt’ora la zona, mentre a San Lorenzo diventava sempre più difficile tra guardie e competitor ambiziosi. Di giorno il Pigneto si trasformava in un quartiere coloratissimo, i toni dei murales esplodevano alla luce del giorno; il carattere multiculturale del quartiere si palesava soprattutto al mercato, che mescolava in modo naturale persone provenienti da ogni parte del pianeta ma che ormai erano vicini di casa da anni, i ritmi erano lenti e a misura d’uomo, in netto contrasto con l’isteria della Prenestina e della Casilina. All’epoca ritenevo quelle strade il miglior esempio tangibile di integrazione ben riuscita, basato su una povertà diffusa e condivisa: anche gli italiani che vivevano lì da sempre sicuramente non godevano di privilegi economici, altrimenti avrebbero lasciato il quartiere da molto tempo, dalla crisi delle fabbriche di zona degli anni 70 e 80. Oggi non ne sono più molto convinto, ma non so se quella mia impressione fosse distorta da una conoscenza ancora superficiale delle dinamiche di quartiere o fosse reale e quell’equilibrio sia stato irrimediabilmente scosso da fattori esterni che sarebbero subentrati prepotentemente di lì a poco, favorendo tensioni sociali a 360°. Fu comunque in quel periodo che decisi di non voler più lasciare quel quartiere, molte cose sono cambiate ma sono ancora convinto di essere al posto giusto nel momento giusto.
Oltre a vivere al Pigneto sei tra le persone che che più lo animano con i concerti, le serate e le attività del Trenta Formiche, che peraltro quest'anno compie 10 anni. Intanto come prima cosa che tipo di attività svolge il Trenta sia in relazione al quartiere, se c'è una vocazione/rete territoriale, sia in relazione alla città?
All’inizio del nuovo millennio il Pigneto viene soprannominato il quartiere degli artisti. Iniziano a spuntare articoli giornalistici che parlano di un quartiere situato a non troppe centinaia di metri dal centro, profondamente popolare e ancora vivibile come ormai a Roma non ce ne sono più. Una dimensione a misura d’uomo dove artisti e intellettuali trovano conforto. In realtà all’epoca ce n’erano molto pochi, però questa denominazione e la descrizione perfettamente calzante del quartiere ha convinto molti attori, musicisti, fotografi, scrittori, illustratori, ma anche aspiranti tali o solo appassionati, studenti e fuorisede a frequentarlo e poi a trasferircisi. Ovviamente ci sono fattori storici, geografici e urbanistici che hanno favorito questa invasione: il mito di Pasolini e Rossellini ha fatto il resto. Tutti questi nuovi arrivi avevano bisogno sempre di più spazi, dove conoscersi innanzitutto, ma anche dove veicolare le prime ispirazioni, sotto casa, senza impegno, senza sovrastrutture e tra amici. Con il Trenta Formiche abbiamo fin da subito cercato di non escludere però quella parte di Pigneto composta dagli autoctoni, ovvero dalle famiglie che hanno sempre vissuto lì e che non sempre vedono di buon occhio i cambiamenti. Ahimè forse non totalmente a torto. Abbiamo cercato di favorire l’incontro tra le due anime del quartiere che tutt’ora convivono non sempre serenamente, basando quindi le nostre iniziative sulla promozione dell’arte ma anche sulla promozione di una socialità alternativa ma inclusiva. In questo senso i rapporti con i comitati di quartiere Casilina Vecchia/Mandrione e Pigneto hanno portato discreti frutti. Abbiamo cercato di ospitare iniziative di molte associazioni e/o collettivi di zona, favorendo così la costruzione di una rete che è da sempre un punto di forza per tutta la comunità. Oltre alla nota sfilza di concerti – circa 100 ogni anno provenienti da ogni parte del mondo – negli anni ci siamo distinti anche per le rassegne di teatro sperimentale e queer di Formicola Teatro, per le mostre promosse da Trenta Formiche Contemporary Art e per le rassegne scoppiate e ricercatissime del CineTrenta. A cui poi vanno aggiunte una serie di iniziative per la valorizzazione del territorio che ci ospita, volte a pressare le istituzioni a investire nella qualità della vita dei cittadini all’interno degli spazi comuni. L’alienazione casalinga è il nostro primo nemico. Chiaro che questi sono intenti condivisi da molte associazioni attive tra Pigneto e Torpignattara con le quali ci confrontiamo tutt’ora. Penso che l’associazionismo puro, accanito, quasi competitivo, che in queste strade è riuscito a esprimersi nel migliore dei modi, sia stato l’unico processo che abbia contrastato, seppur perdendo terreno, il fenomeno della gentrificazione. Il Trenta Formiche dunque nasce come punto di ritrovo nel quartiere, per dare un riferimento fisico a una comunità in crescita all’interno di un contesto preesistente, nel rispetto dello stesso. Negli anni poi abbiamo intercettato l’interesse di persone che vivono sparse per la città e che si ritrovano parte di una scelta che non può riguardare un solo quartiere, così si diventa il punto di riferimento di qualcosa che va al di là dei gusti musicali, cinematografici e artistici, ma quasi un’interpretazione pratica della realtà che prescinde da regole e ideologie ma che si basa sulla condivisione. Ecco, penso che i nostri soci che quasi quotidianamente percorrono chilometri in auto per venire al Trenta non abbiano trovato nulla di simile per strada.
Il Pigneto resta, ancora da anni, il quartiere per la musica "off" a Roma. Da quando ci vivi a oggi quali sono stati i momenti secondo te cruciali, di passaggio, che hanno segnato il territorio? Anche magari i collettivi e gli spazi che hai visto nascere (ed eventualmente morire), oltre a periodi/trend che comunque, come è normali, ci sono stati...
Già nel 2006 non era difficile percepire che per le strade, nelle case, sull’Isola Pedonale e in piazzetta stava nascendo qualcosa non meglio decifrato. E questa sensazione si rinforzava giorno per giorno. In realtà andando poi a studiare gli ultimi anni di storia del quartiere era un processo iniziato a fine Novanta con il recupero di una zona sottratta al controllo che la criminalità organizzata aveva esercitato per tutti gli Ottanta e parte dei Novanta. Il primo momento cruciale – nonostante io non fossi ancora neanche a Roma – penso sia stata l’apertura nel 1995 del ristorante “Infernotto”, sulla zona pedonale che ha portato qui i frequentatori di un affermato ristorante del centro, tra cui giornalisti e intellettuali che hanno diffuso all’esterno le qualità del quartiere e le possibilità che il momento storico offriva: nel 1995 qui ci abitava solo chi ci era nato e tantissimi immigrati attirati dai bassissimi prezzi, un fattore determinante che regalerà al Pigneto da subito la targa di quartiere multiculturale che vive le influenze esterne come una ricchezza – con tutte le difficoltà sociali che ne derivano. Comunque, nel 2006 iniziavano a rendersi palesi i primi segnali di un processo iniziato una decina di anni prima, con l’apertura di una serie di spazi che provavano ad interpretare questo cambiamento. Ancora in quegli anni si andava al Pigneto solo per i concerti del Circolo degli Artisti e dell’Init, che hanno rappresentato molto per la musica dal vivo a Roma ma che erano totalmente staccati da queste dinamiche di quartiere: cioè, al Circolo ci sarei andato anche se fosse stato sulla Nomentana. Chi è riuscito a interpretare in modo naturale i cambiamenti del quartiere e poi più in generale della città è stato il Fanfulla 101. Ci eravamo trasferiti da poco, quando uno dei pochi amici che vivevano al Pigneto – poi passato alla storia come Grip Casino – ci segnalò l’imminente apertura di un “locale” in zona. Sia di giorno sia di notte, le stradine iniziavano a riempirsi di visi curiosi, spaesati e quasi imbarazzati. C’erano gli immigrati, i residenti di sempre e poi noi, noi non ben definiti (fuori sede? Artisti? Studenti?) eravamo in continuo aumento, affascinati senza risposte, ci riconoscevamo ma le possibilità di incontro vero e di scambio erano davvero rare, finché nel giro di pochi mesi ci incontrammo gradualmente tutti al Fanfulla 101 e scoprimmo di avere molto in comune.
Era nata una scena, o meglio, la scena era nata anni prima però il festival rappresentava un traguardo concreto, così come il disco Borgata Boredom dell’anno precedente ci permise di presentarci e imporci al sottobosco culturale di tutta la penisola. Penso che quest’esperienza sia stata un altro passo fondamentale nella storia del quartiere, non tanto di per sé, visto che è durata solo due edizioni, ma per la consapevolezza che alcuni spazi avevano ormai raggiunto sull’importanza di una rete basata sui principi dell’associazionismo; una rete che aveva cambiato un quartiere e che ambiva a presentarsi alla città come un nuovo modo di fare le cose, dopo essere riuscita a difendere i tratti più umani del Pigneto dalle mire borghesi della gentrificazione. Non a caso di lì a poco nascono una serie di associazioni, molte affiliate Arci, che in modi diversi interpretano le esigenze di quartiere e valorizzano il concetto di associazionismo alla base di ogni comunità consapevole che tende a percorrere strade inesplorate dei linguaggi artistici. Seguirono gli anni d’oro per la scena musicale locale che sentivamo nostra, quella scoppiata punk noise, ma anche per tantissime altre realtà nate nel frattempo.
Se l’apertura del Fanfulla 101 aveva segnato in qualche modo la nascita di qualcosa di speciale, la chiusura del DalVerme dopo quasi 10 anni segnò la fine di un processo, o meglio la sconfitta in battaglie non decisive ma importanti. Infatti la chiusura del DalVerme si colloca all’interno di una serie di altre chiusure di spazi culturali importanti all’interno della città, che ha mostrato tutta la fragilità di un mondo in cui avevamo trovato tutti conforto. Il sonno di una sola persona veniva messo indiscutibilmente davanti alle esigenze di centinaia di altre persone, era inaccettabile! Il sonno di una sola persona ci svegliò dai nostri sogni e ci sentimmo tutti più in pericolo. Ci furono mobilitazioni ma non portarono a nulla di fatto. Iniziammo ad avvertire l’urgente necessità di rivendicare la nostra esistenza e la nostra utilità sociale. Fu come aprire gli occhi e rendersi conto che le politiche culturali della città a salvaguardia di spazi come associazioni e centri sociali erano state pressoché nulle negli ultimi anni, portando a un lento indebolimento di molti spazi che fu facile poi chiudere o sgombrare nel giro di pochi mesi. Mentre all’interno dei nostri spazi si festeggiava in nome di una libertà d’espressione e una condivisione inarrestabile, fuori la politica ci consumava, favorendo il processo di gentrificazione anche al Pigneto. Nato come quartiere popolare, animato da artisti e alternativi, diventato di moda grazie alla loro vivacità, invaso infine dalla borghesia guardona, che insegue una creatività che non ha, e cerca di comprare e vendere tutto. Tutto ciò ha portato alla chiusura di molte associazioni e all’apertura di spazi prettamente commerciali legati alla somministrazione di food e beverage – per dirla alla moda. Resistono a oggi le associazioni più grandi che godono di una forte identità (spesso legata all’originalità della proposta musicale), le librerie storiche, ma un vero ricambio generazionale non c’è stato. Il Trenta Formiche resiste grazie alla musica e ai soci che ne seguono la proposta, ma attingiamo sempre meno al fermento autoctono e ospitiamo sempre più spesso band non romane o addirittura straniere: se questo da una parte mescola ancora di più il calderone degli stimoli, dall’altra è un netto segnale di come il ricambio generazionale non sia stato all’altezza – almeno in zona e almeno per i linguaggi che più ci appartengono – e temo che il processo di gentrificazione stia raccogliendo anche in questo senso i suoi frutti marci. I maggiori agitatori culturali sono sempre gli stessi da anni, seppur con qualche eccezione. In questo clima mantenere una forte identità riconoscibile, creare momenti di fruizione dell’arte innovativi e rari, ergersi a difensori di una controcultura libera e ribelle diventa sempre più importante per non omologarsi a qualsiasi costo, ed è questa convinzione che ci tiene in vita e ci continua a regalare soddisfazioni, oltre a un concetto di socialità inclusiva che non ha mai subìto stop.
Il Trenta Formiche si trova in un punto molto particolare, lo stesso spazio lì sotto la ferrovia è quasi espressione di alcune caratteristiche urbanistiche e sociali inseparabili con la vita del territorio. Avete avuto la possibilità di sceglierlo, lo trovi particolarmente rappresentativo, ci siete particolarmente legati? C'è qualche storia divertente legata alla collocazione in quel punto quasi di confine?
Nel 2010 cercavamo senza grosso impegno uno spazio, per creare la nostra associazione. Ma il passaparola non aveva portato a nessun risultato. Così iniziammo a contattare i numeri delle agenzie sulle saracinesche. Via del Mandrione 1-3 fu il secondo. L’impatto visivo all’esterno ci aveva convinto ancor prima di varcare la soglia. Digerire l’interno fu molto più difficile visto che ci si palesò davanti praticamente una stalla, l’agente provava ad affittarlo come magazzino ma non ci riusciva perché le auto non passano attraverso le porte. Quindi fu nostro. Praticamente siamo nelle fondamenta di un palazzo che si erige tra due ferrovie, accanto a un tunnel sopra il quale passano tutti i treni che da Roma vanno verso Napoli. Uno scenario industriale metropolitano di cui ci siamo innamorati subito, visto che venivamo da anni di via vai tra Berlino e Londra in cui si faceva a gara a chi scopriva spazi sconosciuti ma fatiscenti e musicalmente weird. Finalmente anche noi avevamo una scena artistica underground da valorizzare, in uno spazio decisamente underground lì a un chilometro da casa in un magazzino anonimo che fino a quel momento avevamo a mala pena notato. Certo, all’epoca non ne eravamo così consapevoli ma è quello che poi è successo. A parte la questione puramente estetica, la peculiarità della location si arricchisce anche di caratteristiche storiche.
Siamo al numero uno di via del Mandrione: una via che dal punto di vista urbanistico e artistico è unica nel suo genere, unisce Tuscolano e Casilino destreggiandosi tra Acquedotto Felice e uno snodo ferroviario imponente. Storicamente ricordata per aver ospitato negli anni 50, 60 e 70 una baraccopoli simbolo di una povertà trascurata dall’Italia del Boom – anche se geograficamente molto centrale. Non a caso fu una delle realtà più di inspirazione per il Neorealismo grazie a Pasolini, Elsa Morante e il fotografo Franco Pinna. Anche se navigavamo a vista, nel 2010 avevamo ben chiaro che il processo di gentrificazione stava trasformando velocemente il quartiere, e che il fermento culturale si sarebbe spostato presto verso Torpignattara, dove la massiccia presenza di immigrati d’ogni provenienza garantisce tutt’ora prezzi più stabili ma anche uno stimolo continuo a confrontarsi quotidianamente con altre culture. In realtà per fortuna non ci fu un vero spostamento, ma quasi un ampliamento: i due quartieri adiacenti hanno mescolato caratteristiche, abitudini e attitudini almeno per quella comunità di cui sopra. Oggi ai miei occhi i due quartieri appaiono un tutt’uno e continuano a rappresentare assieme il cuore pulsante di Roma Est. La cosa più simpatica è che essendo Il Trenta Formiche in una terra di mezzo – in quanto la ferrovia è il confine naturale di due municipi (V e VII), via del Mandrione rimane nel V solo per il nostro civico – per i primi anni i vigili si sono rimbalzati la responsabilità di controllo di uno spazio che iniziava a far sentire la sua voce. È durato poco ma ci ha fatto molto comodo!
Con che tipo di realtà collabori, sia come Trenta Formiche, sia individualmente? C'è una rete di attività legate alla cultura e alla socialità dal basso particolarmente attive e che contribuiscono ad arricchire e dare specificità al Pigneto?
Tutto quello che abbiamo fatto, anche singolarmente, lo abbiamo fatto a nome del Trenta Formiche – anche se non sempre è stata coinvolta tutta l’associazione. Sicuramente la rete dei Circoli Arci sul Pigneto ha rappresentato una crescita netta per tutti, per i singoli Circoli, ma anche per il comitato di Arci Roma. Se vivi al Pigneto non puoi non avere la tessera Arci. Ma se vivi a Monteverde puoi permettertelo. Abbiamo anche contribuito a dare una maggiore identità e riconoscibilità al “Circolo Arci”, almeno su questo territorio. Fermo restando che esistono tantissimi Circoli Arci anche da prima di noi che hanno caratteristiche molto diverse. La collaborazione con Circoli adiacenti è naturale e solida: Snodo, Sparwasser, Fanfulla 5/a e Pianeta Sonoro. Ma lo è stata anche con tutti quelli che in questi anni si sono succeduti e purtroppo hanno chiuso, Belleville e DalVerme in primis ma anche Kino, 2n, Calzoleria, Clockwork. Poi ci sono tutte le altre realtà che Arci non sono, ma con cui condividiamo obiettivi di volta in volta. In questo senso molto significativa fu l’esperienza di Spazio Comune Cinema Aquila: un insieme di associazioni attive sul territorio tra cui Scuup, Comitato di Quartiere Pigneto, Csoa Ex-Snia, Kino e DalVerme, che nel 2017 si riunirono per riaccendere i proiettori del Nuovo Cinema Aquila che da tempo non aveva assegnazione. Il nostro intervento finì con una rottura con l’amministrazione municipale, ma sono sicuro che contribuì ad accelerare le operazioni di riassegnazione che portarono alla riapertura ufficiale del cinema. Come ho già detto la nascita di molte associazioni con scopi diversi ha contribuito alla creazione di una rete che nei momenti di bisogno è pronta a farsi carico di azioni concrete a difesa di una comunità consapevole. Non ci sono regole né ideologie, ma la sensazione di far parte di questa comunità per me è molto chiara, non penso sia così scontato in una metropoli come Roma per uno che poi romano non è. È chiaro che per natura le realtà con cui collaboriamo di più si occupano principalmente di produzione culturale indipendente e oggi per fortuna sopravvivono realtà ancora molto vivaci che hanno dato tanto all’intera città e continuano a farlo.
Secondo te ci sono dei "simboli" caratteristici del Pigneto, a cui sei affezionato o che trovi particolarmente rappresentativi?
Beh sicuramente la Tangenziale rimane uno scempio architettonico ingombrante: costruita quasi 50 anni fa, a mio avviso ben disegna il disagio che questo quartiere ha vissuto e che continua a vivere in altre forme. Fino al secolo scorso il Pigneto rimaneva una delle zone più povere della capitale, pur essendo relativamente centrale. Oggi non è più così, forse non è un caso che si stia proprio in questo momento concretizzando il progetto di abbattimento. Personalmente, pur comprendendo le problematiche di chi ci vive sotto, la sopraelevata ha sempre rappresentato quell’immaginario duro, metropolitano e grigio che ha un sapore romantico al quale sono molto affezionato e che si sposa perfettamente con quello che il Pigneto è ed è stato. Poi sicuramente un altro simbolo è il Lago dell’Ex Snia, una storia quasi bizzarra lo rende uno spazio pregno di significato, un raro caso di vittoria della natura sul capitalismo. Un lago nato lì tra snodi ferroviari, fabbriche abbandonate, tangenziali, incroci a sette semafori e con un rudere al centro è qualcosa di magico. Solo qui poteva realizzarsi.
Quali credi siano le maggiori criticità e i maggiori punti di forza del quartiere?
Il punto di forza resta il concetto di associazionismo, che qui si esplicita ben al di là del comitato di quartiere, e che tende non solo a risolvere problemi comuni e contingenti ma anche e soprattutto a stimolare una comunità creativa producendo arte anche per scopi lavorativi. Una comunità che attraverso associazioni, librerie, spazi occupati, collettivi, laboratori è decisa ad affrontare tematiche complesse anche a livello nazionale come l’immigrazione, i diritti lgbqt e la sostenibilità ambientale. Le criticità derivano dal fatto che essendo diventato anche a livello internazionale un quartiere trendy sono nati tantissimi contenitori vuoti, mode importate dal centro, hipsterismo dilagante, dinamiche prettamente commerciali travestite da passione e da consumati linguaggi artistici. Per chi ci vive da anni è facile comprendere la natura delle cose, ma è impressionante vedere come di anno in anno il vuoto sopravviva alla sostanza.
Pensi che da quando è arrivata la leggendaria metro C la percezione del Pigneto sia ulteriormente cambiata? Si trova parcheggio più facilmente?!
Sicuramente alla lunga la metro è uno di quei fattori che violenta l’intimità dei quartieri e li snatura come successo altrove, ma sinceramente a oggi non ho notato grossi cambiamenti, anche perché le due fermate Pigneto e Piazza Malatesta non mi sembrano frequentatissime. Anzi a impatto visivo la fine dei lavori e quindi lo smantellamento dei cantieri ha aperto spazi ampli rendendo due piazze più vivibili. Il parcheggio no, assolutamente. Continuo a sognare di tornare a casa e trovare un posto libero accanto al portone. Continua a rimanere un sogno.
Quale credi sia l'anima e l'identità del quartiere? Penso ci siano vari livelli di interpretazione: la musica underground, la gentrificazione, i locali per mangiare e bere fichetti, la rete di supporto sociale che credo sia emersa ancora di più durante l'emergenza Covid...
Se fossimo stati nel 1998 ti avrei facilmente risposto che il Pigneto è essenzialmente un quartiere popolare e ospitale. Oggi la situazione è molto più complessa, perché è evidente che ci siano più anime che convivono e che trovano pochi momenti di incontro. Ci sono gli autoctoni, coloro che vivono qui da sempre che continuano a dare un respiro popolare alle strade, come in una borgata di periferia. Si conoscono tutti, frequentano gli stessi bar, le stesse macellerie, le stesse pizzerie da 60 anni. E non tutti sono propriamente entusiasti dei cambiamenti subiti dal quartiere negli ultimi 20 anni. Sono quasi tutti nostalgici degli anni 60 e 70, quando le fabbriche di zona erano aperte e gli operai animavano botteghe e artigianato locale. Sono molto meno orgogliosi degli anni 80 e 90, segnati per lo più da delinquenza e diffusione dell’eroina. Con i loro eredi ci sono pochi e rari contatti, la maggior parte si sono spostati, perché nel loro immaginario il Pigneto è rimasto una borgata povera da cui bisogna scappare appena possibile per trasferirsi magari in un villino a Capannelle. Non subiscono decisamente lo stesso fascino di coloro che hanno deciso consapevolmente di viverci. Ci sono gli immigrati, le comunità senegalese, quella indiana e bangladese hanno dato tanto al quartiere ma purtroppo l’aumento dei prezzi negli anni ha portato a un graduale spostamento verso Torpignattara di molti stranieri. Ci sono gli avventori, coloro che attirati dai tanti locali che promuovono una proposta raffinata e ricercata di food e beverage – talvolta totalmente fake – intasano di sera le stradine. Utili a monetizzare, ma poco sensibili a un approccio costruttivo per il quartiere.
Infine c’è quella comunità che ha iniziato a formarsi e a crescere costantemente circa 20 anni fa: quella comunità anche un po’ presuntuosa che è nata attorno a vocazioni artistiche condivise, che ha reso il Pigneto il quartiere degli artisti, della musica underground e dell’arte indipendente; quella comunità che ha creato molteplici possibilità di incontro, scambio e crescita collettiva, che ora è cresciuta non solo in termini di consapevolezza ma anche in termini di maturità e voglia di autodeterminarsi. Una comunità che ha messo ormai radici, i primi arrivati ora hanno figli e stanno modernizzando anche il sistema scolastico tra Pigneto e Torpignattara, favorendo processi di integrazione e politiche multiculturali. Non credo che accada in tutta Roma. Nonostante i duri colpi della gentrificazione, nonostante l’invecchiamento di una scena di artisti con scarso ricambio, nonostante la morte di alcuni sistemi associazionistici preziosi, nonostante spesso si senta puzza di borghesia, penso che ormai questa comunità abbia cambiato le viscere del Pigneto e che le abbia cambiate sostanzialmente in meglio – seppur con tutte contraddizioni del caso. Noi dal nostro canto continuiamo sulla scia di quelle dinamiche che fecero scoppiare la scintilla, godiamo ancora di quell’esplosione e con rara follia e incoscienza proviamo a provocarne altre grazie ad un approccio naif, immaturo, autentico e curioso su cui si basa la nostra ricerca e proposta artistica, soprattutto musicale. Per me il Pigneto resta questo, nessuna ideologia, nessuna sovrastruttura, nessun intermediario, nessun capitale ma libertà di espressione e condivisione.
Quali sono i luoghi che frequenti di più? Sapresti indicarci un percorso di posti di fiducia che raccomanderesti?
Chi lo conosce, sa che il Pigneto è diviso principalmente in due dal famoso “ponticello”. La zona pedonale oggi è decisamente votata al commercio senza anima di food & beverage, e non ci andrei mai se non fosse per Mezzo – il miglior cocktail bar in zona -, Tuba e Lo Yeti. Non me ne vogliano magari altre realtà che non conosco bene, ma nessuno può negare che l’aspetto dell’isola è stato sfregiato da un nuovo approccio dozzinale dell’offerta commerciale. La sera attraverso il guado solo per raggiungere il Nuovo Cinema Aquila, a cui sono particolarmente affezionato perché ne ho seguito la costruzione dal balcone della prima casa. La programmazione è spesso discutibile, ma rimane l’unica sala attiva e raggiungibile a piedi e comunque spesso dà visibilità a produzioni autoctone anche se poco commerciabili. Io vivo invece dall’altra parte, verso Piazza Malatesta per intenderci. E dunque il mercato di riferimento è quello di via da Giussano – consigliatissimo il banco del pesce. La colazione non può non realizzarsi nel cornetto alla ricotta di Fattori. Birreria di riferimento e principale punto di ritrovo pre-serata è Hop Corner, anche se rimane un po’ più defilato verso Torpigna. Altrimenti si vira per vino e spuntini di Casa Mangiacotti o Vigneto. Per una passeggiata nel verde il Parco delle Energie con laghetto annesso, per spulciare i dischi si fa la spola tra Blutopia e Radiation Records – entrambi distanti poche centinaia di metri dall’abitazione in cui vivo ormai dal 2011. La sera preferisco i concerti del Trenta Formiche, le proiezioni del CineTrenta o le performance di Formicola Teatro…! A parte gli scherzi, la proposta musicale nostra, del Fanfulla e del Klang resta tra le più interessanti della città. Punto di ritrovo 365 giorni all’anno e h24 è la piazzetta di Piazza Nuccitelli.
Qual è la storia, l'aneddoto, la cosa che ti è successa o che hai sentito raccontare più esilarante o rappresentativa sul Pigneto?
Ce ne sarebbero tanti, però sicuramente mi ha segnato un episodio che anche col senno di poi trovo molto significativo in relazione alla storia del Pigneto. Estate 2012, il Municipio ci concede lo spazio del Parco del Torrione per organizzare il primo festival estivo della nostra storia: Pigneto Spazio Aperto. Saremmo approdati poi a Villa Ada gli anni successivi. La concessione ci permetteva di chiudere i cancelli con catene generiche e iniziare a montare le strutture senza nessun appoggio logistico istituzionale. Ci ritrovammo dunque dopo il primo giorno di montaggio nella spiacevole condizione di non poter lasciare incustodite le strutture per la notte, in uno spazio tra l’altro frequentato da persone riconducibili in qualche modo allo spaccio nell’adiacente zona pedonale. Saranno state considerazioni dettate da pregiudizi provinciali, ma in ogni caso non potevamo rischiare. Per farla breve, nel mezzo della notte ci ritroviamo protagonisti di una sassaiola – ovviamente non provocata da noi – con coloro che pretendevano di usufruire di uno spazio che avevano usato per dormire fino alla notte precedente. Riuscimmo a difendere l’accesso con onore e coraggio. Nonostante il reale pericolo prendemmo l’accaduto con molta leggerezza, quasi divertiti, con l’incoscienza di chi vive una nuova avventura e accecati dall’entusiasmo che provoca ogni nuovo progetto. Tra l’altro in quell’occasione nacque una preziosa amicizia con i ragazzi del Belleville. Ma a parte questo, nei giorni, nei mesi e negli anni successivi mi è capitato spesso di ripensare a quell’episodio e di analizzarlo in chiave più socio-politica: al di là dell’inadeguatezza delle istituzioni – la cui idea di politiche culturali si riduce a firmare un foglio, poi vada come vada – è ovvio che non spettava a noi “liberare” il parco. Così favorisci lo scontro tra cittadini e le tensioni sociali. Ma vabbé, ormai siamo rassegnati. Il passaggio successivo fu più autocritico. Noi ci credevamo paladini di una promozione culturale preziosa, seguita e indispensabile. Ci credevamo dalla parte giusta, senza se e senza ma. La valorizzazione del parchetto pubblico passava dal nostro impegno e dalle nostre capacità. Ma poi ho iniziato a farmi varie domande: quei ragazzi dove avrebbero trovato riparo? Erano davvero spacciatori? O eravamo succubi di una retorica fascista? Noi avevamo più diritto di loro di occupare quello spazio? E perché? Perché avevamo un foglio firmato dal politico di turno? Non sono proprio queste le iniziative che favoriscono i processi di gentrificazione che tanto denunciamo? Noi portavamo fieri la bandiera della riqualificazione di uno spazio effettivamente abbandonato – riqualificazione che però colpiva persone che probabilmente non avevano molte altre possibilità – per restituirlo alla comunità anche nelle ore serali e per diffondere i nostri gusti musicali e quella che per noi era cultura indipendente. Alla fine proprio coloro che avrebbero dovuto apprezzare il nostro impegno, a cui erano rivolti i benefici più diretti di questa “riqualificazione”, si schierarono contro la manifestazione con raccolte di firme e denunce continue sottolineando più volte che i “tossici non fanno rumore”… Questa presa di posizione mi gelò: iniziai a pensare che forse avevamo sbagliato qualcosa, che quei cittadini meritavano lo spaccio sotto casa e gli spacciatori non meritavano di essere cacciati da lì.