Foto di Alessandro_Calabrese

Irene Crocco è veneziana d’origine ma lombarda d’adozione e, pur molto legata alla laguna, vive a Milano da sempre. La incontriamo in quanto fondatrice di VIASATERNA, galleria nata nel 2015 che si ispira alla via Saterna del Poema a fumetti di Dino Buzzati (1969), un luogo immaginario e misterioso, dove si incontrano e costruiscono realtà altre. Recentemente ha contribuito alla concezione della rete Zona Monti, che mette in dialogo gli spazi del quartiere dedicati alle arti, da gallerie private ad archivi, passando per un’officina ceramica. Prima ancora è stata co-fondatrice, insieme a Giorgio Rossi Cairo, di Fondazione La Raia – arte cultura territorio, progetto che ha l’obiettivo di indagare il tema del paesaggio attraverso i contributi di artisti, filosofi, architetti, di volta in volta coinvolti per la realizzazione di un’opera permanente. Una vita tutta dedicata all’arte e alle sue relazioni con l’umano e il mondo, che siamo andate a farci raccontare.

Credo che gran parte del mio lavoro fino ad oggi sia stato così, molto impegnativo, ma spontaneo e felice.

 

Mi racconti la tua formazione e la nascita del tuo rapporto con l’arte?

L’arte mi ha sempre seguita e io ho seguito lei. Tutto è iniziato con due genitori che mi portavano nei musei e proseguito con studi d’arte. Ho avuto la fortuna di conoscere Luciano Fabro a Brera, vengo da quella situazione speciale in cui, quando ero solo una ragazzina, ho conosciuto Gino De Dominicis, Mario Merz e Dadamaino. Studiavo all’Accademia di Brera ma non volevo fare l’artista, però sentivo di voler essere dove c’era l’arte e, ti dirò, forse ci sono anche capitata un po’ per caso. A diciott’anni come si fa a sapere esattamente cosa si vuol fare? Prima di incontrarla non avevo idea di cosa fosse l’Arte Povera e che si potesse respirare lì, dove ero io. Ho conosciuto artisti, critici e curatori militanti. Brera era un contesto felice, per me speciale, ancora oggi ne parlo sempre benissimo!

E dopo Brera, come sei arrivata a voler aprire una galleria d’arte?

Dopo l’Accademia ho fatto la mia gavetta: sono stata a Venezia alla Fondazione Bevilacqua La Masa e allo stesso tempo all’ASAC – l’Archivio Storico della Biennale. Sono lenta ma alla fine arrivo! Rientrata a Milano, aspettavo la mia bambina, ho cominciato a lavorare: scrivevo per delle riviste, insegnavo al Politecnico a Piacenza e ho mosso i primi passi nelle gallerie. Prima da Antonio Colombo, poi con Filippo Maggia da Nepente. Quest’ultimo mi ha sospinta verso il mondo della fotografia che stava assumendo un ruolo sempre più importante per gli artisti della mia generazione. Dopo di che, nel 2011, ho inaugurato un progetto indipendente all’interno della mia casa, un formato ibrido, una mostra ma anche salotto, concluso da una cena tutti insieme: si intitolava Da vicino [a cui seguiva il nome dell’artista, ndr]. Al tempo avevo una casa strutturata in modo da permettermi di ritagliare uno spazio per queste sperimentazioni, dove stavamo tutti gomito a gomito: ci davamo subito del tu, riuniti intorno all’artista. Se ci penso oggi si tratta di un’esperienza simile al lavoro che facciamo con Volvo Studio, perché ogni volta presentavo un singolo artista che interagiva con uno spazio dato, connotato. Questa esperienza è durata circa quattro anni, in un periodo credo infelice, dal punto di vista culturale, per Milano: tutti erano a Londra o a Berlino e Da vicino nasceva anche con l’intento di riunire chi era rimasto. Durante una di queste serate ho incontrato un giovanissimo Francesco Zanot, già un punto di riferimento per tanti di coloro che utilizzavano la fotografia, e poi Selva Barni e Massimo Torrigiani, scoprendo che lavoravano insieme da Fantom. Così quando ho avuto la possibilità di avere questo spazio in affitto ad un prezzo non certo di mercato – diciamo le cose come stanno – ho chiesto loro una mano. Ho avuto un po’ paura: non era più casa mia ma una galleria aperta al pubblico, che ho inaugurato quindi nel maggio 2015 con la mostra collettiva Picture perfect, curata proprio da Fantom.

Quindi hai aperto la galleria Viasaterna collaborando con Fantom in quanto collettivo curatoriale?

Esatto, avevo bisogno di una squadra. Non volevo essere sola ma aprire dialoghi, una rete di collaborazioni. Uno dei primi grandi fotografi che ho esposto, grazie anche all’incontro con Fantom, è stato Guido Guidi, uno dei più importanti maestri della fotografia del secondo Novecento, del quale stiamo organizzando ora una grande mostra in Corea. Con Fantom ho collaborato per due anni, anche se mi dicevano che era un po’ strano avere un legame fisso con un curatore, ma loro erano un micro collettivo, era molto stimolante. 

Ah, mi sono dimenticata di raccontarti che, ben prima della galleria, ho collaborato ad uno spazio espositivo aperto da un gruppo di artisti. Eravamo in via Savona, in un bellissimo loft di Caterina Aicardi. Ebbe vita brevissima, eravamo molto giovani, ma anche questo fu un momento bello, che ho condiviso con Caterina, Gianni Caravaggio, Alessandro Dal Pont e Roberto Borghi, che, come me, aveva una formazione da teorica.

L’idea di lavorare insieme sembra appartenerti molto. Sono curiosa, cosa avete pensato per la mostra che ha aperto le porte di Viasaterna?

Si trattò di una mostra di fotografia che ne parlava senza presentare alcuna fotografia, ad eccezione di una bellissima di Hans Peter Feldmann (ahimé appena scomparso) che mi prestò Massimo Minini. Il discorso era sul concetto di fotografico all’interno di altri media. La seconda mostra è stata sì di fotografia, di Guido Guidi, come ti accennavo.

Quindi un debutto molto forte che connotava Viasaterna come galleria dedicata alla fotografia. In questi otto anni come è maturata?

Ha fatto un percorso che mi corrisponde. Oggi sono meno ortodossa sulla fotografia, la includo in una rosa di media. Vengo dalla compagine dell’Arte Povera, e non mi sono mai sentita di tagliare fuori nulla della produzione artistica, il discorso sul fotografico non è mai stato esclusivo. Sai, anche gli artisti stessi non cercano più la distinzione tra fotografia, pittura, eccetera, sono tutti strumenti. È l’Arte che mi interessa.

Com’è nata la tua collaborazione, in quanto galleria, con Volvo Studio Milano?

Sono entrata in contatto con Volvo Studio Milano lo scorso anno, grazie a Mara Sartore di My Art Guide che aveva aperto una collaborazione sul tema dell’arte contemporanea. Lei mi chiese allora di proporle dei portfolio di artisti con cui lavoravo, dai quali è stato scelto Alessandro Calabrese, che ha quindi realizzato una serie di opere fotografiche allestite poi negli uffici. 

 

Ecco, una cosa bella che voglio sottolineare fin da subito è che Volvo Studio ha sempre sostenuto la produzione delle opere, un dettaglio molto importante soprattutto per gli artisti, che siano più o meno giovani. Questo per noi è stato sicuramente molto stimolante e positivo. 

 

In quest’ultimo periodo Volvo Studio si sta focalizzando sul radicamento in città, a Milano, e così anche la collaborazione con noi è diventata continuativa, coltivata da un approfondimento della reciproca conoscenza. C’è stata una visita qui in galleria, che sì, è una realtà commerciale, ma dove cerchiamo di fare tanta ricerca, e questo è un atteggiamento che ci è stato riconosciuto. Da parte dell’azienda, in particolare dalla figura della colta e infaticabile Chiara Angeli, riceviamo degli input sui loro progetti, obiettivi e interessi attuali; di conseguenza proponiamo degli artisti e delle idee creative. Non è obbligatorio che abbiano già avuto occasione di lavorare con me in galleria che possano stimolare e approfondire nella stessa direzione. Tutto è nato, e prosegue, in modo molto naturale e felice.

Quindi non c’è un programma prestabilito a inizio anno, ma un dialogo che si sviluppa tappa per tappa?

In realtà noi siamo sicuramente il lato meno strutturato del team, tra tutte le realtà che collaborano dentro Volvo Studio Milano. Chiara ci riconosce la creatività, ma allo stesso tempo i limiti sulle questioni più tecniche! Quindi non c’è un programma rigido, nero su bianco, ma quest’anno siamo inseriti fin da gennaio nel calendario delle loro attività, con quattro appuntamenti. Dopo Alessandro Calabrese e Martina Corà, in questo momento è la volta di Barbara De Ponti. Ma ti dico, sull’artista che presentiamo a settembre stiamo ancora lavorando!

Con che format lavorate?

Il format è costante e prevede un’esposizione negli uffici, accompagnata da un evento di presentazione che varia, questo sì, di volta in volta. Ovviamente sono opere diverse e interventi diversi, Alessandro ha inscenato una performance, Barbara De Ponti ha realizzato un’installazione murale mentre Martina Corà ha fatto una tenda colorata che trasformava continuamente l’ambiente grazie ai cambiamenti di luce provenienti dall’esterno.

Che tipo di opportunità vengono fuori per galleria d’arte privata da questa collaborazione con un marchio automobilistico?

Trovo molto bello e significativo lavorare su progetti ad hoc, sono committenze con una visione a lungo termine che raramente come gallerista mi sono trovata a trattare. Ma non è tanto il marchio a fare la differenza – anche se ammetto che mio padre guidava solo Volvo! – quanto le persone, capaci di lavorare insieme ad un obiettivo intelligente e condiviso. E questo Volvo lo fa e lo è.

Ti saluto con una domanda che in questo periodo faccio sempre: che rapporto hai con Milano?

L’ho sempre amata molto e ci ho sempre creduto, scommesso. Ti faccio solo l’esempio di Zona Monti, rete di quartiere che abbiamo pensato e poi attivato durante gli anni di aperture e chiusure a causa della pandemia. Tutto è nato con Laura Borghi di Officine Saffi, poiché da un po’ di tempo cercavamo di coordinarci per le aperture delle mostre nei nostri spazi. Abbiamo iniziato a fare ricerca, telefonare, incontrare di persona tutti i direttori delle altre istituzioni culturali, dalle gallerie o associazioni, archivi, case d’artista. Abbiamo bussato alla porta di tante realtà diverse. E la risposta è stata fantastica, tutti si sono attivati in modo propositivo. Zona Monti è oggi una realtà che cammina da sola, grazie alle persone che la alimentano. Il primo appuntamento, ancora in periodo di contagi, oltre alla visita delle mostre in tutti gli spazi che hanno concordato l’apertura, si è risolto con una passeggiata che univa tutte le realtà coinvolte dall’esterno, durante la quale Marco De Michelis e Maria Vittoria Capitanucci raccontavano la meravigliosa architettura del quartiere. Sono poi seguiti altri cinque appuntamenti e c’è stato anche un Natale in cui ci siamo trovati tra noi “attivatori” per fare un giro per le nostre gallerie e poi brindare tutti quanti, per dirti quando anche questa sorta di circolo sia nato in modo molto spontaneo e felice. Credo che gran parte del mio lavoro fino ad oggi sia stato così, molto impegnativo, ma spontaneo e felice.