«L’ansia è una reazione d’allarme che non solo non interferisce negativamente, ma al contrario potenzia le capacità operative del soggetto nel risolvere una situazione»
Questa è un’accezione positiva del sentimento di ansia che ho imparato durante i miei studi di psicologia; ANSIA è anche il nome dell’etichetta di Piezo, moniker di Luca Mucci, producer e dj marchigiano di base a Milano. Ci siamo trovati a condividere la definizione in apertura nel bel mezzo di un viaggio in macchina verso una sua gig al Bunker di Torino, durante il quale ho pensato di cogliere la palla al balzo e di intervistarlo. In queste due ore scarse di viaggio abbiamo parlato soprattutto della sua label, freschissima di uscita con la sua ANSIA006, ripercorrendo storia e tratti caratteristici.
Dance ma weird.
Ci siamo inoltre ritrovati inevitabilmente a fare paragoni tra il mercato della musica UK e quello italiano, considerata la sua esperienza pregressa a Bristol e la sua connessione indissolubile con la musica oltremanica, per chiudere la chiacchierata proprio come ti aspetteresti da una persona che tende a preoccuparsi per le sue cose.
Tommaso Monteanni: Partiamo dalle basi: quando e dove nasce ANSIA?
Piezo: ANSIA nasce nel 2016 a Bristol, dove ho vissuto per tre anni circa e durante il mio ultimo anno di permanenza là. Parte come focus sul vinile 12” con l’estetica classica delle white label inglesi, dopo una serie di input e incoraggiamenti da parte di artisti della scena di Bristol, in particolare mi farebbe piacere citare Lamont e Boofy che hanno dato una spinta fondamentale. Inizialmente prende vita sotto il cappello del distributore Rewind Forward (RWDFWD), gestito dal mio amico e artista Ossia; il processo lavorativo con loro era molto comodo, poiché si occupavano di tutto quanto, dalla manifattura alla distribuzione, io dovevo solo mandare le tracce. Con loro ho fatto le prime due uscite dell’etichetta, avvenute a cavallo tra la mia dipartita da Bristol e il mio ritorno a Milano nel 2017, poi le cose a distanza sono diventate più complicate da gestire, anche per colpa della Brexit, e di conseguenza ho dovuto cambiare distributore. Ecco una cosa interessante in questi termini può essere il processo di evoluzione dell’etichetta, che dall’essere totalmente UK, a partire dalla musica e dalle altre componenti appena elencate, è diventata quasi completamente italiana, anche a livello di manifattura. Questa evoluzione è stata una conseguenza degli ultimi anni, tra COVID, il mio ritorno in Italia, ma, di nuovo, soprattutto la Brexit, che ha fatto davvero un casino per tutti, ma principalmente per loro.
TM: Considerando che hai vissuto a cavallo di questo cambiamento, quali sono secondo te le principali implicazioni della Brexit sul mondo musicale con cui sei a contatto?
P: A livello di vendita di dischi è successo un disastro, a partire dalle spedizioni, che è diventato il problema più grosso: ogni cosa che va avanti e dietro è sottoposta a dei costi doganali e spesso non sai neanche se arriverà. Nel mondo della musica in generale si è sentito molto un atteggiamento di protezionismo da parte del Regno Unito, che di base hanno sempre avuto in quanto isola, ma che si è accentuato nettamente in conseguenza alla combo letale composta dalla Brexit insieme al COVID. Il business è rimasto sempre molto operativo, e anche a livello underground non è crollato, ma la maniera in cui non l’hanno fatto crollare è concentrandosi sulle loro label e sui loro artisti: nelle serate vedi suonare principalmente gente inglese e dall’altro lato i miei amici inglesi suonano molto di più in Inghilterra rispetto a prima. Di base il mercato inglese, che non era di sicuro tra i più aperti, è diventato ancora più chiuso. In tutta onestà una cosa bella che in risposta sta succedendo in europa è che si sta tornando ad avere un occhio sulle scene locali: nell’ultimo anno ho avuto la fortuna di suonare veramente tanto in Italia, cosa che non avevo mai fatto. Quindi apprezzo che si sia risvegliato il “support your local scene”, al contempo per me il discorso UK rimane un problema considerando che la mia fascia di interesse principale è concentrata lì.
TM: Parliamo ora invece del sound della label e del conseguente processo di selezione della musica: è più basato su una cerchia di artisti che stimi e con cui hai rapporti quotidiani o più su un processo approfondito di digging e di ricerca di musica e artisti con cui non hai necessariamente a che fare?
P: Premessa, ANSIA non è un progetto discografico, è principalmente un outlet per me e per la mia musica. Banalmente come fanno tantissimi altri artisti, quando ho della musica che ritengo valida e non ho voglia di stare dietro a dinamiche e tempi di attesa tipici di etichette più impostate, ANSIA è la mia via d’uscita. Poi col tempo ho capito che non avrebbe avuto molto senso tenerla esclusivamente per me, e a partire dalla terza uscita ho utilizzato questo format che è quello delle quattro tracce Various Artists (VA), replicato anche in ANSIA005. Ad esempio la prossima su cui sto lavorando, ANSIA007, sarà sempre un VA ma senza di me. Ad ogni modo il vincolo assoluto per la selezione è il sound, è quello il punto della label. Anche l’attitudine influisce sulla selezione, ma prima di tutto la musica deve rientrare in un sound specifico rispettando una serie di canoni, ossia: deve essere una cosa dance ma weird; ci deve essere una discreta dose di sound design pazzo; l’attitudine deve essere poco dark, non deve essere una cosa che si prende troppo seriamente.
TM: Al contrario del nome dell’etichetta - sorrido, NdR.
P: In realtà l’ansia se la prendi in modo terapeutico non è dark.
TM: È vero, nei termini giusti è un potenziatore di performance, ai giusti livelli di attivazione diventa la tua migliore amica.
P: Esattamente. Chiaro che la scelta del nome ANSIA deriva dal fatto che nel mio caso spesso mi trovo a tendere all’esagerazione tale da farla diventare un problema, ma il mio modo di conviverci è scherzarci: prendere la tua stessa problematica per i fondelli in modo da conviverci più serenamente.
TM: A giudicare dagli artwork, disegnati o in stile cartoon, sembrerebbe che l’attitudine giocosa ricada anche su questa scelta estetica.
P: Partiamo dal fatto che mi è sempre piaciuta l’estetica della white label, e fino a che ho potuto ho fatto i timbri, timbrando personalmente ogni singola copia delle trecento di cui si costituiva l’uscita. Poi per complicazioni di produzione, dal farsi fare il timbro all’assicurarsi di essere fisicamente nello stesso posto insieme a tutte le copie per poi ridistribuirle…Insomma a una certa è diventato insostenibile, quindi le ultime due uscite le ho fatte stampare, ma l’estetica è rimasta la stessa: niente caratteri sul centrino, solo disegno. Nelle ultime uscite mi sono trovato bene con Andrea De Franco – in arte FERA, NdR – che ha disegnato a mano l’artwork di ANSIA005 e ANSIA006, e con cui mi trovo assolutamente allineato a livello estetico.
TM: Ritornando al sound, in quest’uscita ho sentito una significativa influenza di "sunytty", nome-categoria a cui si rifanno diversi artisti ed etichette dei nostri amici comuni per definire il loro sound, tra i quali, Artetetra quindi Babau che hanno coniato il termine, e Pampsychia quindi Reptilian Expo e Señor Service. Confermi la mia percezione? Si può dire?
P: Assolutamente si può dire! Mai rinnegato questo tipo di ispirazione. A differenza dei ragazzi però io cerco più il compromesso con la parte functional, che significa che il pezzo deve avere un certo effetto in pista. Che poi l’effetto sia spiazzante, rinvigorente, o che te la fa salire, non importa. Come direbbero gli inglesi deve essere “no nonsense”. Per me il gioco è trovare l’equilibrio per rimanere al bivio tra l’avere un pezzo functional e la weirdata più pazza con una ricerca sonora che non sia banale. Diciamo che il compromesso spesso lo trovo attraverso ritmiche strane: ad esempio il pezzo di Siete Catorce in ANSIA005 è un pezzo incredibile di cui mi sono innamorato al primo ascolto. Fun fact, è anche il pezzo che ha venduto meno in tutto il mio catalogo bandcamp, nonostante sia il mio preferito. Ma è normale così. Un’altra vibe tipica delle mie uscite è quella dell’utilizzo del framework techno/house che viene smontato e “preso per il culo”: sempre sulla 005, anche il pezzo di Metrist, LB Steaua, fa esattamente quella roba la.
TM: E ti piace suonare i pezzi della tua etichetta durante i tuoi set?
P: I pezzi degli altri li suono sempre, coi miei faccio più fatica, non mi fa impazzire suonarli.
TM: Quindi ANSIA è un’etichetta one man band?
P: E sci fra, se non io non c’è nessuno – leggere con accento marchigiano, NdR. C’è questa collab che avanti con l’altra ANSIA di Milano, brand di vestiti, con cui ho una partnership per fare il merch, quindi di base cappelli e magliette. C’è un buono scambio di energie e di pubblico, ci portiamo gente a vicenda che non conosce una delle due ANSIA ma in ogni caso sì, a gestire l’etichetta sono completamente da solo.
TM: Dopo aver parlato ampiamente della tua etichetta volevo farti una domanda su Milano, com’è la città agli occhi di un abitante di una scena musicale distante da quella mainstream?
P: Il covid più Macao che non esiste più, per quel che mi riguarda e che mi interessa, hanno ucciso la città. Poi per fortuna è rimasta la gente, che è lovely e interessante. Credo che qua a Milano ci sia veramente tanta gente di talento, molto di più rispetto a tante altre città se la pensi in maniera “pro capite”; a parte le capitalone, l’unico altro posto che mi viene in mente è Bristol, dove in 300 mila abitanti c’è una quantità di talento senza senso. Statisticamente non ha senso, ma è un eccezione. A Milano c’è un botto di gente di talento. Facciamo un po’ di fatica a venderci, a parte i nomi veramente grossi. Quello che manca a Milano ad oggi è un posto che faccia da gatherer, un centro focale per tutti quelli che operano in una certa maniera, aka quello che era Macao. Per quel che riguarda invece la differenza con le altre nazioni, penso appunto che la cosa in cui noi facciamo più fatica è curare l’aspetto business delle pratiche underground. È un discorso veramente lungo e complesso, detto ciò quando vado in Inghilterra mi fa sempre stacco vedere come essere un dj underground anche a livello pubblico è percepito come un lavoro a tutti gli effetti, non risulta assolutamente strano che qualcuno facendo quella cosa ci riesca a campare – parliamo comunque di vivere normalmente, non di “fare i soldi” – qua da noi, al contrario, lo sembra. Ecco quanto ho detto non valeva minimamente all’interno di Macao, era una bolla, un’isola magica dove tutti questi discorsi non avevano senso, e questa cosa era bellissima. Dal momento che quel posto non c’è più, bisogna misurarsi con altre regole, quindi è inutile negare che se non si cura l’aspetto di sostenibilità di quello che si fa, non si riesce ad andare avanti. Questo aspetto dovrebbe essere svecchiato e si dovrebbero trovare delle vie di mezzo che permettano di rendere la vita di chi lavora con un certo tipo di musica un po’ più sostenibile.
TM: L’anno scorso a Terraforma hai fatto un set memorabile: l’energia in pista era elevatissima e anche te avevi l’aspetto di uno che si stava divertendo e non poco. Come è stato?
P: È stato senza dubbio un momento magico. Ogni tanto succede…non sempre, ma capita che ti trovi nel posto giusto al momento giusto, il pubblico è ricettivo, e si crea quello scambio di energie in cui non c’è più confine tra palco e folla e si balla tutti assieme. Dal momento che arrivi con delle idee e la gente è pronta a tutto, si tratta solo di mixare decentemente.
TM: Siamo in chiusura con un’ultima domanda, oltre a ricordarci la data di uscita del disco, vuoi aggiungere qualcos’altro?
P: Il disco esce il 28 aprile, always support your local shops, infatti da Serendeepity ci saranno delle copie, e per chi non abita a Milano c’è sempre l’opzione Bandcamp, e non mi sforzerò mai abbastanza di dire che Bandcamp è un posto importante e che va supportato; anche gli zarri dovrebbero comprare su bandcamp. Comunque ora stoppa perché non vorrei che dopo perdi la registrazione.