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Tommaso Marasma

La voce che parla dal Tempio, il Futuro che divenne Perduto, e il tempio ritrovato

quartiere Chinatown

Scritto da Marco de Lucia il 18 settembre 2021
Aggiornato il 30 settembre 2021

Foto di Carolina Lòpez Bohòrquez

Tutti conoscono il Tempio del Futuro Perduto. Tutti ci sono andati a far serata almeno una volta (ad andar bene), ma non tutti questi sanno che il Tempio nasce, percorre e traccia dei percorsi di militanza e solidarietà, di cittadinanza attiva. Nell’immaginario comune al Tempio “si va a fare serata”, ma c’è tutto un aspetto fondativo di socialità che comprende, senza limitarsi, la musica. È un futuro nobile, quello del Tempio, e ce ne ha parlato Tommaso Marasma, tra i fondatori.

«Il Tempio è il risultato di un organismo multiforme. Non c’è una visione unica, non esiste un’organizzazione verticista, tutte le decisioni vengono prese insieme.»

 

Ciao Tommaso, ho conosciuto il Tempio del Futuro Perduto come un luogo occupato, tuttavia ho sempre pensato che si volesse scostare da questa descrizione. Per quale motivo è nato? Qual è il pensiero?, e quagli gli intenti condivisi tra i partecipanti più attivi?

Il Tempio è nato come esperienza che voleva essere legale. L’idea era di parlare con il comune e partecipare ai bandi per appropriarsi dello spazio in via Nono. Tuttavia, in Italia, non esisteva (e non esiste, purtroppo) una normativa di riferimento che permettesse la cogestione dei cittadini ai beni pubblici. Al tempo rappresentavo l’associazione “Intelligenza Electronica”, con cui rivendicavamo il bisogno fare, di mettere in piedi iniziative. Era un progetto di socialità attiva, e per andare avanti nel migliore dei modi avevamo deciso di occupare lo spazio di via Nono. 

Il Tempio è il risultato di un organismo multiforme, assolutamente variopinto. Non c’è una visione unica, non esiste un’organizzazione verticista, tutte le decisioni vengono prese insieme. Piuttosto che riconoscersi in fazioni, l’idea era nata con l’intento di dare spazio realizzativo a tutte le iniziative dei ragazzi che, come me, stavano per andare a vivere all’estero. Avendo provato a fare qualcosa di nuovo ci trovavamo – e ci troviamo tutt’ora – a essere irriconoscibili da qualsiasi fazione (infatti siamo stati attaccati da destra e da sinistra). Non vogliamo essere autoreferenziali e incappare nel rischio di chiuderci noi stessi. Diciamo spesso di essere uno strumento della società, proprio perché in generale ci riconosciamo in aspetti comunitari, di condivisione, d’inclusione e di grande solidarietà. Che poi sono aspetti intrinsechi della costituzione italiana. Paradossalmente seguire la costituzione oggi è di per sé è un atto rivoluzionario, e a tal proposito ricordiamo sempre l’articolo 118 che afferma che “Stato, Regioni, Città metropolitane, Province e Comuni favoriscono l’autonoma iniziativa dei cittadini, singoli e associati, per lo svolgimento di attività di interesse generale, sulla base del principio di sussidiarietà”.

Quindi quale rapporto si è delineato tra voi e il comune? Credi sia difficile organizzarsi in realtà socioculturali? Se sì perché?

L’unico problema che ci separa da una legalizzazione è dovuto alla mancanza, come dicevo, delle normative. Questo perché in maniera informale godiamo anche di un certo rispetto e ammirazione da parte delle istituzioni. Non siamo una minaccia e riconoscono il nostro valore per la cittadinanza. Capiamo benissimo che per i politici non sia facile trattare questa materia particolare ed esporsi in maniera netta (ci vuole e servirebbe più coraggio). Inoltre, il tema occupazioni è un tema molto allargato: esistono occupazione abitative, politiche e di estremismi politici. Il nostro è riuscire a creare un precedente legale per cui si possano regolare tante realtà sociali simili alla nostra, presenti a Milano e in Italia. Tutto ciò può accadere solo grazie a una politica coraggiosa. 

Quali sono state le iniziative portate avanti che hanno avuto maggior riscontro e successo?

In parte il successo è determinato dall’aspetto mediatico. È difficile scindere dall’iniziativa sociale il suo successo in termini di comunicazione e ricezione. In questo senso, tra le migliori iniziative, sicuramente ha avuto molta eco “Il muro della gentilezza”: il progetto è consistito in una parete alla quale abbiamo appeso dei ganci, in seguito chi voleva e chi poteva, appendeva degli indumenti per metterli a disposizione delle persone che non posseggono nulla per coprirsi. È una cosa che voleva essere utile e non aveva alcuna ambizione di successo, un semplice esempio di socializzazione urbana, che però ne ha fatti nascere una ventina, in giro per tutta Italia, e il nostro, come primo, ha avuto grandissimo riscontro mediatico. Come iniziativa più divertente e goliardica, mi piace citare il dj set più lungo del mondo, durato la bellezza di 340 ore. Anche quello avevo il suo scopo sociale: intrattenere le persone durante la prima quarantena. Il tentativo era di dire ai ragazzi “va bene, siamo chiusi in casa e ci restiamo, va bene il lockdown, ma almeno cerchiamo di alleggerire questo momento così brutto tutti insieme anche se distanti”.

 

Il quartiere Sarpi è un intreccio di culture e mondi a volte estremamente opposti. Come si interfaccia il Tempio con questa realtà? Sono più le cose in comune o le differenze? Le differenze sono in comune?

Il tempio è un luogo di accoglienza e d’incontro tra le “differenze” per eccellenza. Prendendo proprio d’esempio la comunità cinese, abbiamo ricevuto la richiesta da alcuni ragazzi del quartiere di organizzare le prove per un festival di danza tradizionale cinese; e noi facciamo di tutto per dargli gli spazi adeguati. Esiste poi una parte di residenti del Tempio, costituita da un collettivo di designer cinesi, che ha ridisegnato i sotterranei del tempio rendendoli studi di fotografia e video. Loro sono la nostra connessione interna a Chinatown, un esempio che può sembrare banale: quando mangiamo insieme, loro ordinano dai ristoranti cinesi a cui può accedere solo chi sa il cinese, e perciò accediamo in maniera privilegiata a una loro sfera culturale e tradizionale – rappresentata dal cibo – che altrimenti ci sarebbe preclusa. Ma ovviamente a livello culturale è veramente interessantissimo il continuo dialogo che instauriamo con loro rispetto a tutte le realtà nuove e differenti che per loro sono tradizione. Questa condivisione vale anche per chi magari è la prima volta che viene a Milano ed è accolto al tempio; si passa da chi si ritrova deluso perché si aspettava magari una metropoli pazzesca e sconfinata a chi, al contrario, ha trovato perfettamente la sua dimensione all’interno del mondo milanese. Tentiamo di aprire le porte a tutte le persone che vengono a Milano e hanno bisogno di una guida, in questo quartiere multiforme l’accoglienza è facilitata; alla fine è nella nostra formazione culturale credere che non esista veramente il diverso, siamo tutti “diversi” chi per un motivo o per un altro.

Il Tempio del Futuro Perduto porta questo nome idiosincratico perché spinge a riappropriarsi del futuro: quali sono i futuri progetti del tempio in questa prospettiva?

Il tempio originariamente si chiamava tempio del futuro. È diventato “perduto” quando l’occupazione è diventata necessaria. Appena sarà legalizzato tornerà a chiamarsi tempio del futuro.
Il nostro primario interesse ora è creare una rete tra tutte le realtà simili alla nostra; una rete che si faccia testimone di nuove pratiche sociali, politiche, artistiche e che davvero si faccia artefice di un cambiamento che ridia al paese quello che è stato tolto; che assuma un ruolo pedagogico per la politica stessa e insegni nuovamente cosa significa fare del bene alla cittadinanza. Il nostro futuro obiettivo a breve è sostenere la creazione di altri muri della gentilezza. Per farlo vogliamo spedire in tutta Italia i ganci – fatti in plastica eco-compatibile – usati nel muro della gentilezza, prodotti nello studio di design (tenuto dal collettivo bench collective) del Tempio, attraverso la nostra stampante 3D.