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Xin Alessandro Zheng

Guardare alla Cina da Milano tra lingue e generazioni su pellicola

quartiere Chinatown

Scritto da Marco de Lucia il 27 settembre 2021

Foto di Carolina López Bohórquez

Xin Alessandro è un giovanissimo regista classe 1996. Milanese di nascita in quel di Segrate, l’essere figlio di seconda generazione da Wenzhou l’ha sempre portato al confronto con ciò che è il suo passato. Con il clash tra tradizioni, un clash di comunicazione. L’abbiamo conosciuto con il suo corto “Where the leaves fall”. Presentato alla Biennale, Xin racconta del rapporto con la Cina e le sue tradizioni, di quel bussare alla porta del passato che chi si muove si porta sempre con sé.

«Vedo Sarpi come un ragazzo milanese. A dire la verità penso che anche un ragazzo cinese la veda allo stesso modo.»

 

Il tuo corto racconta il legame tra la tradizione cinese e quella italiana, come ragazzo di seconda generazione con una genealogia tutta cinese mi chiedo quale sia stato il tuo primo approccio che ricordi alla cultura cinese.

Il mio primo approccio al cinese è stato attraverso, ovviamente, i miei genitori, che mi parlavano in lingua; i primi anni sono cresciuto conoscendo il cinese e poco l’italiano, durante le elementari e le medie noi ragazzi di origine cinese eravamo soliti frequentare i corsi di lingua cinese, era quasi un dovere seguirli. In casa, come ora, i miei genitori mi parlavano in cinese: se da piccolo però rispondevo nella stessa lingua, adesso a loro rispondo in italiano, proprio perché il cinese lo capisco ma sento di non riuscire più a parlarlo. Crescendo, ho vissuto con compagni di classe che parlavano tutti italiano e questa cosa mi ha fatto sentire a disagio, e pian piano ho iniziato a dimenticare il cinese.

Durante le vacanze invece era una formalità andare a visitare i nonni. Allora d’estate andavamo a Wenzhou nella provincia dello Zhejiang, nella loro casa d’origine, ovviamente lì ero immerso completamente nella cultura cinese.

Ed è qui che hai deciso di girare qui il tuo corto, come mai? Ti è venuta qui l’idea per il progetto?

Sì, durante l’estate del 2019 mi sono reso conto che erano 8 anni che non andavo a trovare i miei nonni nella loro terra d’origine. Quindi ho deciso di prendere con me il mio cuginetto, il quale sapeva meglio il cinese di me e assieme abbiamo deciso di girare buona parte della Cina, siamo partiti dal sud e siamo passati per Wenzhou. Ci siamo persi tantissime volte, ci siamo tenuti compagnia nelle sventure mentre andavamo da Shangai verso sud. Per una settimana poi, a causa di un tifone, siamo dovuti rimanere fermi a casa dei miei nonni. Quando sono arrivato lì ho provato lo stesso disagio che avevo esperito con i miei compagni delle elementari, però al contrario: i miei nonni infatti parlano un dialetto stretto e con loro non avevo modo di comunicare in italiano, perciò mi esprimevo poco con loro, per lo più a gesti. In più per scappare da questa situazione stavo praticamente segregato in camera e uscivo solo per andare a fare video e foto. Questa incomunicabilità si è tramutata in nostalgia, ho proprio pensato “Io sono venuto qui dopo 8 anni solo per trovare i miei nonni, quando poi i miei nonni non ci saranno più probabilmente questa stessa città non la vedrò più”. All’inizio, nel tentativo di consolidare nella memoria quel luogo e il suo significato, ho iniziato un compulsivo lavoro di raccolta foto e video; in un secondo momento, tornato in Italia, ho voluto strutturare ancora di più questa emozione, allora ho pensato alla possibilità di girare il corto, insieme ai miei compagni della Naba.

 

Com’è Wenzhou per te, cosa ti ricorda e ti ha ricordato? Sapevi già degli eventi – che mi hanno ricordato tanto i balli di paese nelle province dei paesi orobici – e dei luoghi del corto?

A Wenzhou il primo riferimento che ho è la casa dei miei nonni. L’appartamento era ed è datato; quando son stato lì durante il tifone, dovevo far la doccia e lavarmi i denti al balcone. In tutto ciò il tifone mi faceva compagnia: come puoi intuire si moriva di freddo, se non ci fosse stata acqua calda saremmo crepati. Ai miei nonni la casa piace così, l’unico ammodernamento è stato riuscire a collegare il wi-fi. Da piccolo la odiavo Wenzhou: fuori faceva caldissimo, rimanevo perciò in casa a guardare la tv col tubo catodico a 6 canali. Ogni volta che uscivo inevitabilmente prendevo colpo di sole e mi portavano in questi ospedali campagnoli, molto spartani. A ripensarci ho chiaramente la malinconia a mille anche se sono momenti che non rivivrei volentieri! L’ultima volta che son tornato ho provato una grande emozione, ma non me la sentivo di stare in casa durante le riprese: abbiamo infatti soggiornato in un hotel vicino. 

I balli non sapevo ci fossero anche qui vicino. Rispetto ai balli di Wenzhou che si vedono nel corto io ci scherzavo sempre dicendo che c’erano la West coast e la Est coast del fiume, la mia nonna materna conosceva tutti i gruppi di ballo, dovevo solo scegliere quale parte di costa stare e lei avrebbe chiamato gli amici di una o dell’altra riva.

L’approccio al tuo corto mi è sembrato minimale, c’è poco di esplicito. È come se il fruitore del film dovesse porsi in modo attivo, deve in un certo senso interpretare e capire. Questo fa parte anche dell’incomunicabilità e del rapporto tra un nonno e un nipote e il tentativo del primo di ricollegare gli anelli di una catena che si è spezzata a causa di un padre assente?

Anche io la descrivo proprio come una catena, una linea che collega il nonno, il quale non è mai uscito dalla Cina, al padre che sta a metà – quest’ultimo ha un rapporto debole sia con il suo stesso padre che con il figlio – e infine Giacomo, questo figlio che sempre è stato lontano sia fisicamente che mentalmente dalla Cina, nonostante sia cinese.

In qualsiasi caso, rispetto ai dialoghi, al fine di rendere ancora di più l’incomunicabilità una delle prime idee era quella di non farli parlare addirittura. Questo mi ricordava anche la mia realtà, il mio rapporto con i nonni, con cui parlo a gesti: loro mi parlano sì in dialetto e io capisco, ma rimane tutto poco parlato e/o silenzioso. C’è un rapporto allo stesso tempo caldo e freddo e questo anche nel film. Nonostante il contesto emozionale della scena del ballo, il dialogo tra nonno e nipote rimane ancorato a semplici e timidi gesti, quella scena voleva rendere proprio la difficoltà di esprimere, a livello implicito, l’amore nei confronti dei propri parenti. Giacomo non è nato lì, ma in Italia (proprio come me) e a suo nonno mette subito in chiaro che lui è lì di passaggio, e tuttavia viene catturato dai racconti del nonno e dalla tradizione che gli viene raccontata. Il tentativo poi era di sciogliere la tensione col finale: un abbraccio a volte vale più di mille parole. 

Com’è Sarpi per un ragazzo di seconda generazione?

La vedo come un ragazzo milanese. A dire la verità penso che anche un ragazzo cinese la veda allo stesso modo. In Sarpi vado spesso con amici cinesi, solitamente andiamo a bere qualcosa, a fare un aperitivo. Tendenzialmente vado sempre con amici che sanno il cinese, perché ovviamente mi parlano tutti in cinese. In qualsiasi caso penso che sia il primo luogo dove prendono piede moltissime iniziative della comunità cinese, un posto dove andare a cercare la tradizione attraverso la sua cucina, le sue forme d’arte e culturali