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The Virus Diaries – Quinta parte

Un racconto della serie di ZERO 'Propagine. Storie del contagio'

Scritto da Marina Zucchelli il 30 marzo 2020
Aggiornato il 12 maggio 2020

Illustrazione di Roberto Alfano

 

FLOW

Entrati nella terza settimana siamo già più quieti: ci siamo abituati. Fratello 2 manda tracce techno dal piano di sotto, da quel posto che noi chiamiamo rustico, dove un tempo c’era una cucina per le cene in cui mio padre organizzava partite di poker fino a tarda notte, e prima ancora c’era una cantina in cui mia nonna metteva a sfumare le salsicce. Il bambino sente la musica e mi chiede con gli occhi imploranti di poter scendere: come chi voglia qualcosa fortissimamente, alza le braccia per farmi capire che vuole ballare. Quei bassi sembrano i passi pesanti di qualcuno che sta per arrivare. La televisione al piano di sopra, in cucina, trasmette tutto il giorno qualcosa che aveva a che fare col virus, alternando terapie intensive a bambini che giocano sedati nei loro salotti. Succede che su una rete il contagio viene tenuto sotto controllo, e su un’altra le bare sono ammassate. Iniziarono ad arrivare dalla Spagna le immagini dei contagiati sbattuti per terra, lungo i corridoi senza neppure una coperta, stesi così. Quando nel pomeriggio a mia madre viene l‘emicrania si riposa in camera sua, stesa sotto una coperta che tiene ai piedi del letto. Accendendo la tv su un’altra rete, completa una triangolazione sonora: la musica techno, la tv della cucina e quella della stanza di mia madre mi danno una piccola vertigine e il virus diventa una cosa reale, di cui si parla ovunque ma in modo molto diverso, e qualsiasi cosa sia in qualche modo è tra noi, e questo dà senso alla nostra quarantena. Porto il bambino al piano di sotto, dove balla alle spalle di Fratello 2 che sta al cellulare e siede su una sedia da ufficio. Fratello 1 pure sta al cellulare, sul divano. Ha cominciato a piovere, il bambino segue il suo stesso flow, e poi sempre ballando come farebbe una piccola papera va verso gli adesivi dei locali attaccati sul tavolinetto basso, e si mette a fissarli come un archeologo, studiando tutte quelle serate, reperti di un mondo di club e coffee shop e festival estivi che non esistono più. Infine alza gli occhi a riordinare le idee e fare chiarezza dentro di sé, e va verso la porta vetrata, davanti cui dorme il cane acciambellato. Il cane Rokko, solido e saggio come la catena montuosa, avverte la presenza del bambino e si volta, si alza sulle zampe e spinge il muso contro il vetro, leccandolo. Il bambino lo imita. Fuori piove una pioggia dolcissima.

Anch’io e mio marito stiamo così, come un cane e un bambino che si leccano a vicenda attraverso un vetro.

Sento i miei reni strizzarsi, e le mie mutande tra le cosce bagnarsi di sangue mestruale, ma rimango immobile a fissare lo schermo del mio cellulare, e i miei fratelli fanno lo stesso.

PIOGGIA

Mia madre continua ad andare al supermercato quasi ogni giorno, e se non va al supermercato va in farmacia, e se non va in farmacia va all’alimentari in paese, o in lavanderia, o dalla vicina per vedere se ha un po’ di bieta. La vicina lascia una busta di bieta appesa al cancello, come impiccata sotto la pioggia, e mia nonna va a prenderla dicendo che la farà bollire, nel caso tra quelle foglie ci fosse il colléra. Il paese, a guardarlo, rimane immobile e sereno, la natura è indifferente, prima il sole poi la pioggia, il giorno poi la notte, il via vai di auto quasi lo stesso, il virus è solo dentro di noi. Giovedì sistemo gli scaffali del salotto di mia madre. La grande libreria, che lei ha riempito nei primi anni Novanta con dei libri comprati tramite una brochure che ti vendeva dieci, venti, trenta, quaranta romanzi a un prezzo speciale. Titoli di presunti bestseller americani con copertine rigide, che ti inviavano via posta, per riempire quei bei mobili nuovi in mogano vero, con le maniglie dorate, che tutti avevano allora, che tutti avevano appena comprato. Poi nella libreria ci sono anche alcuni libri miei, romanzi che mi avevano regalato o avevo comprato io al liceo. Ci sono due saggi sull’antico Egitto, un catalogo tascabile di Klimt. Due enciclopedie, di cui una di cucina, La Buona Cucina, 12 volumi; e dizionari, che servono solo a ricordarmi di quando chiedevo a mio padre cosa significasse una parola e mio padre mi diceva: Vai a prendere il vocabolario. In questi giorni ci siamo abituati a vedere in tv gli intervistati collegati via Skype, alle loro case, le librerie dietro di loro.

Tutti si collegano davanti alla propria libreria, a sostenere la ragionevolezza delle proprie parole.

Giornalisti, scrittori, scienziati, ma anche sindaci e medici, responsabili delle asl, esperti vari. Parlano ogni giorno, in collegamenti disturbati, continuamente interrotti, balbettanti, che saltano sempre nel momento in cui stanno per dire qualcosa di importante, darti una risposta a una domanda che non ti eri ancora fatto. La tua testa è occupata dalla questione, una massa percepibile che occupa tutta la scatola cranica, perché il virus interessa tutte le declinazioni dell’esistenza, e ogni cosa che viene detta è inesatta, cioè è vera, sì, ma mancante e non risponde a nessuna delle questioni. I decreti ministeriali, poi le circolari, lasciano disattese parecchie domande. Tutti però stanno dicendo tutto, collegati da casa, protetti da schiere di libri che si sfaldano giorno dopo giorno, poiché le persone che vengono intervistate diventavano meno titolate. I medici diventano infermieri, i sindaci assessori, i ministri vice ministri. Ora era una studentessa italiana che viveva a Shanghai, ora un’infermiera di Senigallia, ora un volontario che porta le medicine agli anziani in motocicletta. Alla terza settimana le librerie sono quasi scomparse, o assomigliano a quella di mia madre: pochi libri e molte foto, molte foto di bebè.

Ai ripiani bassi mia madre tiene ammassati libri e quaderni di scuola miei e dei miei fratelli, che io riordino, classifico, divido per tipo. La seconda elementare, il terzo liceo, diari con tutti i compiti annotati giorno per giorno; quello che dovevamo fare conservato dentro ai diari di scuola. I giorni in cui pioveva restavamo così: a sistemare vecchie cose. Spuntavano fuori cartoline comprate in luoghi di mare e mai spedite, appunti, mappe concettuali, bigliettini passati da un banco all’altro, foto ritagliate, giornali (Anna Falchi ha preso la patente), poesie natalizie scritte dalle maestre perché i bambini non sapevano ancora scrivere.

Ritornavamo al passato, ci consolavamo così, dandoci delle scuse per portare avanti un’altra giornata, ma tutto quello che trovavamo era inservibile, tutto quello che facevamo era inutile.

E mentre miliardi di fatturato bruciavano da qualche parte nel mondo magico della finanza, le piante di fiori, milioni di piantine fiorite ormai al massimo del loro splendore, venivano mandate al macero; così la BCE continuava a stampare soldi e soldi e soldi, fogli larghi, grandi come tavoli, di un giallo al limite del fluorescente, che si vede pure al buio, quello delle banconote da 200 euro, e noi ci sentivamo protetti ma colpevoli. Poi un giorno il papa disse che ci avrebbe assolti tutti.

LA TEMPESTA SEDATA

Il papa parlò della barca, pure lui. Disse proprio che eravamo tutti sulla stessa barca. Usò il vangelo, alla maniera degli ecclesiastici, per dirci cose immense e semplificate. La simbologia era quella pasquale: il bianco, l’oro. La gente nelle case si sentiva in un mondo compatto. Ci sentivamo al sicuro, tranquilli, dentro l’effetto del miracolo mediatico globale, dentro la forza di un vecchio silenzioso seduto sulla sua poltrona mentre pensa, mentre crede in quello che sta pensando. Il telegiornale subito dopo non ci informava più dei calciatori di serie A e dei calciatori di serie B che erano risultati positivi al virus, e l’apocalisse ci sembrava già passata. I numeri erano in calo; i morti crescevano, è vero, ma i contagi diminuivano. La pioggia stessa stava spegnendo i focolai.

Ci sentivamo perfettamente a nostro agio dentro quel linguaggio che ormai ci apparteneva, che non descriveva più una cosa terribile, ma anzi un processo che poteva essere vissuto, persino con una certa calma.

Il vangelo, come i romanzetti in edicola, stava rispondendo a quelle cose che non avevo il coraggio di affrontare, e mi pigliava per i capelli, da dietro, come quando ero bambina e seduta al banco ascoltavo quello che i discepoli avevano detto, e avevano detto cose che io non avevo ancora considerato. Uno di loro chiedeva a Gesù, nel lago in tempesta: Maestro, non t’importa che moriamo? Io quella sera spezzettavo il cibo nel piatto di mio figlio affinché lui potesse mangiarne, e persino il mio pensiero si era fatto come quello degli evangelisti: conforme. Mi lasciavo consolare dalla religione, e contemporaneamente aiutavo mio figlio a usare il cucchiaino, che lui voleva usare solo le mani. Questo la sera del papa in tv, che usava per la milionesima volta Gesù come metafora, perché aveva detto ai marinai: Passiamo all’altra riva.

The Virus Diaries: prima, seconda, terza, quarta parte.