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Andrea Lissoni

Con la mostra su Philippe Parreno Lissoni chiude in bellezza gli anni dell'HangarBicocca e di Milano

quartiere Bicocca

Scritto da Angela Maderna e Lucia Tozzi il 13 ottobre 2015
Aggiornato il 13 dicembre 2022

Foto di Filipa Ramos

Attività

Curatore

Curatori ce ne sono tanti, alcuni molto bravi, altri meno, pochi con una visione. Andrea Lissoni è tra quei pochi e lo ha dimostrato con coerenza. Non è di quelli che espongono una tesi: Lissoni preferisce mostrare un immaginario, e il suo appare scorrendo la lista dei nomi degli artisti con cui lavora e ha lavorato, tra cui Jimmie Durham, Apichatpong Weerasethakul o Mike Kelley, ma anche giovani italiani come Invernomuto, Moira Ricci, Riccardo Benassi. Ma cosa c’è stato prima dell’HangarBicocca (periodo che noi milanesi ricorderemo per un po’) e della Tate Modern, dove da un anno ricopre la carica di Senior curator, International Art (Film)? Andrea è partito studiando storia dell’arte, è passato per una borsa di studio al Pompidou, poi ci sono stati il festival Netmage a Bologna, la mostra Circular nello stadio San Siro, la Live Arts Week, l’insegnamento a Brera, la Fondazione Buziol, la Fondazione Ratti, un PhD in Audiovisual Studies.
Andrea ci piace per tanti motivi, anche perché è uno che a Milano ha fatto molte cose, l’ha vissuta e osservata con sguardo acuto e perché – ometterlo passerebbe per falsa modestia – è amico da sempre di Zero, che con lui ha dato vita a Cujo, una collezione di libri d’artista. Così, prima della sua ultima mostra da curatore dell’HangarBicocca (una personale di Philippe Parreno), gli abbiamo fatto qualche domanda.

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Zero: Con Parreno chiudi un ciclo glorioso all’HangarBicocca. Sei soddisfatto?
Andrea Lissoni: Glorioso è un po’ esagerato. Spero lo sia stato almeno per HangarBicocca. Soddisfatto e dispiaciuto.

Dispiaciuto perché è finito o perché avresti voluto fare qualcosa in più o di diverso?
Dispiaciuto perché è difficile abbandonare una situazione di così grande privilegio e un team eccellente. E ovviamente perché l’esperienza si conclude.

Che cosa ti è piaciuto di più in questi anni di collaborazione?  
La possibilità di costruire un programma che desse identità a un luogo. Un programma all’interno del quale ci sono delle precise scelte di poetica dello spazio e desideri su come può essere percepito. Riuscire a sposare queste scelte con gli artisti che più rispetto – Joan Jonas, Tomás Saraceno, Micol Assaël, Céline Condorelli – è stato un privilegio. Anche la fortuna di un management che ha sempre supportato le scelte artistiche, non interferendo mai. E il dialogo con Vicente Todolí, un curatore che come pochissimi ama l’arte, è in grado di distinguere la qualità a prescindere da media, mode, generazioni e, soprattutto, agende.

Philippe Parreno, Welcome to Reality Park, 2003-2005. Framed light jet print, 123.6 x 145.3 cm. Courtesy of the artist and Pilar Corrias Gallery
Philippe Parreno, Welcome to Reality Park, 2003-2005. Framed light jet print, 123.6 x 145.3 cm. Courtesy of the artist and Pilar Corrias Gallery

Quando ti sei imbattuto nel lavoro di Parreno? Cosa ti ha colpito e cosa ti piace del suo lavoro?
La prima volta in assoluto a Milano, da Marconi, per una mostra intitolata La dimanche de la vie, in cui presentava un curioso video a quattro mani con Pierre Joseph intitolato Snaking. Poi ancora a Milano, da Fac-simile, poi il film Vicinato da Guenzani, fino alla rivelazione della mostra Alien Nation, all’Arc, a Parigi.  Mi ha colpito che abbia sciolto il fantasma del cinema nello spazio. Mi piace il fatto che spinge molto in avanti i limiti dell’arte.

 

Philippe Parreno (con Carsten Holler e Rirkrit Tiravanija) , "Vicinato" (frame dal film). Courtesy Studio Guenzani, Milano
Philippe Parreno (con Carsten Holler e Rirkrit Tiravanija) , “Vicinato” (frame dal film). Courtesy Studio Guenzani, Milano

Insegnare ti piace?
Molto

Meglio la vita da curatore indipendente o all’interno di un’istituzione?
Per me intendi?

Sì per te.
La seconda. È quello che ho sempre desiderato fare.

Al di là di Expo e delle mostre più istituzionali, come vedi la scena artistica indipendente a Milano? Ti sembra ancora una città propositiva?
Non sono sicuro che indipendente sia ancora un concetto esistente. E rispetto a Milano no, penso di no. O meglio, può darsi, ma non mi è noto. C’è però ptwschool che mi sembra un segnale molto curioso di informazioni di mondi attivi e proattivi.

Esistono persone e luoghi a Milano che in questo momento producono nuove possibilità per artisti fuori dai circuiti riconosciuti?
Lo spero.

Sei uno dei fondatori di Vdrome. Come funziona?
È un cinema online.  Ci  interessava forzare la logica di archivio tipica della rete e reintegrare quella del cinema d’essai,  che programmava un film dal mercoledì alla domenica della settimana successiva, per una decina di giorni. I film apparivano e scomparivano, e così è su Vdrome. Nasce però dall’intenzione di mostrare film o video alla fine del loro ciclo di vita primario, cioè dopo i festival di cinema o le mostre importanti, a cui ha accesso un pubblico relativamente ristretto. È una gioia sapere che un’opera costata mesi di lavoro viene vista su Vdrome da 3-5000 persone, un numero bassissimo per la rete, ma altissimo per quel tipo di opere. Inoltre, volevamo poter condividere opere che scopriamo in continuazione e che però  in quei circuiti non entrano. Ancora, ci interessano solo opere che forzano i generi del cinema o le convenzioni del cinema d’artista, estendendo o comunque interrogando la finzione o il documentario. Vogliamo che ne scrivano persone vicine agli artisti e non i soliti sospetti.  Ed è l’unica cosa che, alla fine, resta su Vdrome.  Discutiamo moltissimo di linguaggio, di posizione dell’autrice/tore rispetto ai materiali che tratta, soprattutto di qualità. Ci divertiamo. E ci sforziamo dannatamente per l’opera di agosto e per quella di Natale. La bestiola di Ian Cheng ci manca tantissimo.

"Notes for a Time/Bank" screening on Vdrome
Julieta Aranda and Anton Vidokle, “Notes for a Time/Bank” screening on Vdrome

Ti manca questa città? Torni sempre solo per lavoro o riesci ancora a fare qualche giro?
Devo dire non tanto, forse questa volta ci sono rimasto anche troppo, quasi dieci anni, spezzati solo dalla parentesi a Gorizia/Venezia. Di fatto torno solo per HangarBicocca ormai.

Immagina una giornata in cui ti trovi a Milano in uno stato di totale libertà: che fai?
Vado alla Pinacoteca di Brera.

E ti fermi davanti a un’opera in particolare?
No, è un gioco al compenso con le visite precedenti. A questo punto spendo meno tempo di fronte agli ovvi.

Dicci un bar/locale e un ristorante a cui sei molto affezionato.
Il Dopolavoro Bicocca e Giannino l’Angolo d’Abruzzo (o Dongiò).

Chi sono le persone che cerchi a ogni costo d’incontrare quando passi da Milano anche per poche ore?
Andrea Amichetti.

Se puoi te lo compri un biglietto per San Siro?
Sempre.

Meglio se gioca l’Inter, il Milan o è indifferente?
In realtà contano di più gli avversari. Ci sono giocatori o squadre che voglio vedere  almeno una volta. In generale comunque più il Milan.

Ormai è noto che ami il Monumentale, San Satiro, il quartier generale della Mondadori, Shame-Less ecc. C’è ancora qualche chicca che puoi rivelare a Zero?
Aha, a chi è noto?

Ahah. A noi che abbiamo letto molte delle tue interviste.  
La Fondazione Magistretti. È geniale la scelta di aprire lo studio così com’era usato e far immaginare dove nasceva il pensiero della più elegante ed austera modernità milanese. E lasciare tutto il resto all’incontro e alle parole, senza vetrine o accrocchi multimediali.

Ti piace ancora l’Isola?
Non troppo, mi ricorda troppe persone e cose che non ci sono più.

Potresti o vorresti tornare a vivere a Milano in un futuro?
Sospetto di no.

Bless/Guixé at Lima, doppia installazione dell’ex-designer Martí Guixé e delle fashion designer tedesche Bless (Desiree Heiss e Ines Kaag), allo Spazio Lima di Milano, 2006
Bless/Guixé at Lima, doppia installazione dell’ex-designer Martí Guixé e delle fashion designer tedesche Bless (Desiree Heiss e Ines Kaag), allo Spazio Lima di Milano, 2006

Torniamo indietro: ci racconti dello Spazio Lima?
Dipende da cosa volete sapere esattamente. Non abbiamo fatto un libro, forse meglio così. Danzavamo con l’effimero e tale è restato. Era un progetto orbitale di Xing. Siamo stati ospiti e abbiamo quindi ospitato, questa era la filosofia. Solo quello che non c’era e ci sembrava importante ci dovesse essere. Sempre forzando codici e costumi della città. C’è stata moda, ma era Bless, design, ma era Marti Guixè, cinema, ma era Anna Sanders, musica, ma erano i With Love. Abbiamo aperto con Solid Sea di Multiplicity, l’opera sulla tragedia di Portopalo apparsa a Documenta e che in Italia non avrebbe trovato altro luogo. L’immagine più intensa, e che meglio lo rappresenta, è una nuvola informe, una nebbia umida di gin tonic che inebriava, rendeva il pavimento scivolosissimo e, una volta svanita, lasciava l’intero ambiente come carta moschicida. Era un’opera di Martì Guixè.

A Bologna invece c’è Xing: com’è lavorare con Silvia Fanti e Daniele Gasparinetti? Discutete molto sulle scelte?
Discutevamo molto. In questo momento è quello che mi manca di più.

Qual è la mostra più bella che hai curato?
Per l’esperienza di lavoro tutte.

"Circular", San Siro, Milano 2004
“Circular”, San Siro, Milano 2004

E la più folle?
Circular, allo stadio di San Siro.

Il progetto più piacevole che tu abbia seguito?
Tutti i Netmage e i Live Arts Week.

Carsten Nicolai live at Netmage 06
Carsten Nicolai live at Netmage 06

Ci racconti la situazione più entropica in cui ti sei trovato per una mostra o un evento?
Uhm, non sono sicuro di capire bene la domanda, ma potrebbe essere il venerdì prima che aprisse On Space Time Foam di Tomás Saraceno nel Cubo di Hangar Bicocca.

Non è difficile immaginarsi il perché ma se ti va di raccontarcelo…
I materiali erano arrivati tutti. I tecnici anche. La cornice lignea era pronta. Ma come “portarli su” non proprio e ci si era affidati ad una visione troppo meravigliosamente Monty Python. Siamo entrati in stallo. Come dare forma solida e abitabile ad un territorio effimero? È diventata una curiosa questione geopolitica: la tecnica degli inglesi, la fermezza dei tedeschi, l’irrequietezza degli italiani (con varie sfumature regionali, dall’evanescenza milanese, al disincanto siciliano, all’esistenzialismo friulano, alla rudezza  bergamasca), l’infaticabilità rumena e la visionarietà argentina. Ma non faceva ridere, faceva paura. Ed era da risolvere in 48 ore. Alla fine, la cooperazione ha generato il miracolo. È molto raro vedere l’idea assumere forma di opera. Con On Space Time Foam abbiamo avuto quella fortuna. Direi che è così anche con Hypothesis (la personale di Philippe Parreno – n.d.r.).

Tomás Saraceno, "On Space Time Foam", Hangar Bicocca 2012
Tomás Saraceno, “On Space Time Foam”, Hangar Bicocca 2012

Quando tutto sembra perduto tu perdi la testa o sei Mr. Wolf?
Dipende di cosa parliamo. Generalmente sul lavoro Mr. Wolf.

Quali sono i festival imperdibili, vecchi o nuovi?
Lollapalooza, FidMarseille, Ficunam, Sonar, Performatik, Colour out of Space, Berlin Documentary Forum, Videobrasil.

Sónar 2015
Sónar 2015

Qual è la festa (legata a una mostra o a un evento artistico) più bella a cui sei stato? Chi c’era? Chi suonava?
Il party al Morion durante la Biennale di Venezia del 2007 organizzato da Nero Magazine. Suonava Carsten Nicolai e i Gelitin performavano. Non so se è la più bella, ma è stata indimenticabile.

Che musica ascolti?
Sempre? Domanda impossibile. Leggo la lista dei cd impilati ora a fianco allo stereo: Kelela, Raury, SBTRKT, Panda Bear, Arto Lindsay, FKA Twigs, Daft Punk, Momus, Lichens, Las Malas Amistades, Laurel Halo, Connan Mockasin, Fatima AlQadiri, Vessels, Planningtorock, Nozinja, His Clancyness, Kendrick Lamar, James Ferraro, The Nag’s Head, Emily Hall.
Ok, sbattendomi davvero oltre i miei limiti usuali ho cavato una playlist, una cosa che non facevo da quando avevo 14 anni. Diciamo che è un regalo che faccio a Zero a cui devo tanto.

Non è intelligente, ipercontemporanea, astuta, ammicchevole né purtroppo globale o rispettosa delle diversità. Non ci sono amici, conoscenti, classiconi, italiani né milanesi del secolo scorso. Pazienza. È semplicemente quello che sto ascoltando in questo momento. Ho spostato dei cd dalla mensola senza troppo sforzo. Lo sforzo è stato cercare i pezzi online e metterli in fila, in un ordine che mi piacerebbe ascoltare se avessi del tempo che non ho. Anzi, lo farò forse quando andrò a prendere mia zia a Luino con l’auto di mio padre, guidando lungo le tre valli varesine, per la cena della vigilia (di solito ascolto R’n’B, e sospetto il nuovo Frank Ocean sarà un terribile concorrente). In fondo qui a Londra sembra quasi Natale (o forse sembra sempre quasi Natale). E la mostra di Parreno è davvero natalizia. E musicale. È l’una e mezza e mi ci sono messo alle dieci. E stanotte non c’è neanche l’eclissi, quindi direi può bastare così.

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Philippe Parreno, Fraught Times: For Eleven Months of the Year it’s an Artwork and in December it’s Christmas (October), 2008. Cast aluminium, paint, musical score, 272 x 205 cm. Courtesy of the artist and Pilar Corrias Gallery. Photo: Thierry Bal

A cosa stai lavorando al momento?
Alla mostra di Philippe Parreno; a If Arte Povera was Pop, tre giorni di film che interroga la seconda metà degli anni ‘60 fra Torino e Roma e che si conclude con Morire Gratis di Franchina; all’allestimento della collezione per quando aprirà il nuovo edificio di Tate e a un group show situato nel tempo.