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Otta (Orsola Capretti)

Hip hop, jazz, soul, funk: il Biko è la casa della black music 'di qualità' a Milano. Quest'anno lo spazio alla Barona festeggia (senza troppi proclami) dieci indefessi anni di attività - che per certi versi potremmo definire anche 'politica'. Ne abbiamo parlato con uno dei due direttori artistici, Orsola Capretti, per tutti 'Otta'.

Scritto da Chiara Colli il 14 dicembre 2017
Aggiornato il 15 dicembre 2017

Foto di Francois-Xavier Gbre

Luogo di nascita

Brescia

Luogo di residenza

Milano

Attività

Direttore artistico

Fuori dai lustrini e dagli abbagli del giro mainstream. Dentro, fin da tempi non sospetti, a un certo tipo di black music – quella internazionale, attenta alla contemporaneità ma anche a chi di questi suoni ha scritto la storia. Il Biko – nome preso da Stephen Bantu Biko, fondatore del Black Consciousness Movement – è il classico posto che «se non ci fosse bisognerebbe inventarlo». Lo capisci scorrendo la programmazione degli ultimi anni: da Pete Rock & C.L. Smooth ai The Internet, da Apollo Brown agli Heliocentrics (a più riprese), da Oddisee a Ebo Taylor passando per svisate turche e qualche incursione nel rock indipendente italiano e non. Ne hai la conferma quando ci metti piede già la prima volta: le pareti colorate, l’atmosfera accogliente, il palco che annulla la distanza tra artista a pubblico. Da due lustri, il Biko è la casa delle contaminazioni fra generi a Milano. Hip hop, jazz, funk, world music, elettronica; musica nera a 360 gradi, in passato soprattutto nella sua dimensione più notturna e ballabile, oggi con un assetto soprattutto da live club. La tentazione di includere tra le sue caratteristiche atipiche anche il fatto di avere un direttore artistico donna, Orsola Capretti nota a tutti come Otta, è forte. Ma “il tema caldo” è freddato con una risata. «Il mondo della musica è molto, molto maschile. E quello hip hop lo è all’ennesima potenza. Comunico spesso con gli artisti via email e il mio soprannome, “Otta”, non è definibile dagli stranieri, che quando arrivano all’aereoporto si aspettano un uomo e poi… Oooops! Si ritrovano una donna. Glielo leggi in faccia che vengono colti di sorpresa». Quest’anno il Biko ha spento le sue prime dieci candeline: sebbene la ricorrenza non sia stata rimarcata con alcuna autocelebrazione “di rito”, questi anni di attività indefessa, per certi versi “politica”, non sono passati inosservati. Ce li siamo fatti raccontare da Otta.

ZERO: Prima di arrivare alla nascita del Biko, raccontaci qual è stato il percorso che ti ha portato a Milano e a lavorare con la musica.
OTTA: Sono nata a Brescia, ma vivo a Milano da un sacco di anni. Nel mezzo c’è stato un passaggio a New York, una città di cui mi sono innamorata subito e dove si è sviluppato il mio interesse per l’hip hop e la musica black in generale, che è quella che sento di più e che mi emoziona sopra ogni cosa. Andai lì a fine Anni 80, dopo il liceo, in un periodo meraviglioso per viverci… A New York succedeva di tutto e la musica era costantemente interessante, anche per me che allora non ero una super cultrice di questo ambito. Poi però i soldi sono finiti e sono tornata in Italia, a Milano, per continuare a studiare. Non credevo che mi sarei fermata qui, e invece la mia vita ha preso un corso inaspettato… Come spesso accade questa città mi ha in un certo senso intrappolata. Ho lavorato a lungo come illustratrice, dedicandomi anche a scenografia, decorazione e in seguito al web, insieme ad Alem (Abay, NdR), che poi è diventato cofondatore del Biko insieme a me.

Ma qui siamo ancora un po’ lontani dalla nascita del Biko, che avviene nel 2007…
Alem e io ci conosciamo ormai da 30 anni, siamo stati anche fidanzati per un sacco di tempo: abbiamo sempre lavorato insieme per quello che era il nostro progetto di grafica e web – lui veniva da architettura – che aveva già una forte componente creativa e autodidatta. Però condividevamo anche un lavoro sociale. Alem è eritreo ed è stato rappresentante della comunità giovanile eritrea per molti anni, in casa nostra abbiamo fatto per anni attività con i ragazzi: cinema, workshop di grafica e arti applicate, un sacco di roba per dare una mano a questi giovani che erano sparpagliati a non far molto, un po’ dispersi… A un certo punto ci hanno parlato di uno spazio che si liberava, era un Circolo Arci all’Isola, in via De Castillia, che si chiamava Matatu, noi eravamo un po’ stanchi del lavoro di grafica con le agenzie pubblicitarie, volevamo fare qualcosa di più interessante e a contatto con le persone. Ci siamo informati e nel giro di una settimana avevamo le chiavi di uno spazio. Era bello, l’Isola è stato un quartiere che abbiamo sempre frequentato, anche perché c’era La Pergola: da quando sono arrivata qui ho vissuto soprattutto nella scena dei centri sociali, girando per concerti. L’Isola era un quartiere che conoscevamo bene e ci piaceva provare ad aprire un’associazione in una zona che amavamo tanto. Da lì abbiamo iniziato con totale incoscienza, perché già il primo Biko ce lo siamo costruito con le nostre mani e lo abbiamo aperto sebbene, in realtà, non sapessimo neanche gestire un bar.

Facendo musica sei spesso oggetto di critiche, perché muovi persone, generi disturbo nelle ore notturne… Ora la città è cambiata, ma qualche anno fa non era per niente facile, si viveva sempre con molta ansia

Com’era la situazione a Milano per la musica quando avete aperto?
Be’, a mio avviso per molti aspetti oggi siamo usciti da tempi bui: quando abbiamo iniziato con il Biko nel 2007 a Milano c’era ancora come vicesindaco De Corato, che è stato il nemico numero 1 degli spazi associativi e culturali… Pensando ad allora, ancora ci stupiamo di essere arrivati al decimo anno: facendo musica sei spesso oggetto di critiche, proteste, perché muovi persone, generi disturbo nelle ore notturne… Ora la città è molto cambiata, è ripartita bene, ma qualche anno fa non era per niente facile, si viveva sempre con molta ansia. A metà Duemila non c’era molto movimento a Milano, i centri sociali erano in un periodo di stanca e tanti posti andavano chiudendo, quindi il Biko ha preso piede come piccolo club, in prima battuta soprattutto per i dj set. Era uno spazio più piccolo di quello che abbiamo adesso, molto più underground proprio per come era strutturato. E lì siamo partiti facendo serate, era un posto di ritrovo col bar e la musica funk soul. In una città e un Paese che è molto rock/indie/pop sembravamo un progetto che si sarebbe esaurito in poco tempo. Invece le cose sono andate avanti, forse perché abbiamo riempito uno spazio che era libero – anche perché coinvolge una nicchia di pubblico che non è enorme e quindi probabilmente non c’avevano pensato in molti, era evidentemente un po’ rischioso, non c’era la prospettiva di fare tanti soldi!!

Otta e Alem (foto di Laura Fantacuzzi)
Otta e Alem (foto di Laura Fantacuzzi)

 

E a proposito di soldi: sotto questo aspetto come è stato l’avviamento e la sopravvivenza nei primi anni?
Quando siamo partiti il fatto di essere Arci e non uno spazio pubblico ci ha permesso di poter sopravvivere – l’avviamento è stato lungo ed economicamente faticoso. Noi siamo totalmente sganciati da sponsorizzazioni, il Biko è sempre vissuto delle sue forze quindi i primi anni sono stati sempre a stipendio zero, ad animarci sono state incoscienza e passione, altrimenti non saremmo riusciti a restare in piedi. Negli ultimi anni la black music è diventato un genere più seguito in italia, forse anche perché in America l’hip hop oggi è molto più contaminato, tutto si fonde insieme: il jazz, il soul, l’hip hop. Quindi riesci a raggiungere un pubblico molto più ampio che in passato.

Poi però, a un certo punto, il vecchio Biko chiude. Cosa è successo?
È successo che ci hanno buttato fuori: avevamo uno spazio all’interno di un palazzo abitato, quindi per quanto avessimo insonorizzato, facendo musica eravamo di disturbo a degli inquilini del palazzo. In realtà eravamo in una via abbastanza triste, desolata e malfamata dell’Isola, quella dove adesso sorge il bosco verticale di Boeri, ma che al tempo sembrava una strada di Beirut. Poi con l’avvio di tutti i cantieri di Isola e Garibaldi è iniziata anche una speculazione immobiliare, sono arrivati nuovi inquilini e investitori e noi non eravamo più adeguati alla zona. Sono riusciti a buttarci fuori con misurazioni dell’Arpa, le solite cose. Questo è successo a metà del 2009, là siamo stati due anni e mezzo finché ci hanno dato questo calcione nel sedere per via del quale ci siamo trovati senza lavoro, senza spazio, senza soldi e molto, molto abbacchiati. Però avevamo in mano un progetto che aveva preso piede ed era diventato conosciuto, quindi invece di andare via da Milano mi sono messa alla ricerca forsennata di uno spazio; c’ho messo quasi un anno ma alla fine l’ho trovato. Siamo ripartiti con l’autocostruzione, abbiamo riavviato il Biko a soldi zero, ce lo siamo costruito tutto con le nostre mani. Il pavimento, i muri, l’insonorizzazione. E siamo ripartiti. Col senno di poi, ci han fatto quasi un favore a farci chiudere, nonostante allora fossimo estremamente tristi: qua abbiamo potuto cominciare a fare cose più interessanti, più grandi.

In una città e un Paese che è molto rock/indie/pop sembravamo un progetto che si sarebbe esaurito in poco tempo. Invece le cose sono andate avanti, forse perché abbiamo riempito uno spazio che era libero

Cosa significa a Milano cambiare “venue” e quartiere? Che tipo di cambiamenti hai notato in questi anni, sia spostandovi da una zona all’altra, sia negli ultimi anni di attività nel nuovo Biko?
Cambiare quartiere, qui, significa ricominciare quasi da zero: per quanto Milano sia una piccola città, le persone si spostano malvolentieri. Va anche detto che ora non siamo più uno spazio che lavora troppo sul territorio, siamo un Circolo ma con caratteristiche di una sala concerti: apriamo per gli eventi e non c’è un’attività diurna – anche se c’è stato un periodo in cui abbiamo avuto tutta una parte di progettazione anche extra serate; ora a lavorare fissi siamo in 4/5, quindi le energie si concentrano sui live. Il Biko di oggi è alla Barona, uno storico quartiere considerato “pesante”, anche se poi in realtà Milano non è una città difficile, non ha delle periferie così tremende e resta un piccolo centro con un’economia spinta, le sacche grosse di disagio a Milano non ci sono. La strada è abbastanza tranquilla, sebbene ci sia una nomea del tipo “La Barona non perdona”: ci vivono famiglie e il quartiere è piutosto economico, anche per questo a mio avviso sono arrivate nuove persone, soprattutto giovani. Questo credo sia il cambiamento più evidente di questi ultimi anni, insieme al fatto che il Biko è frequentato da parecchie persone che arrivano proprio da fuori, dalla provincia.

A-F-R-O, al Biko nel novembre 2016 (foto di Michael Yohannes)
A-F-R-O, al Biko nel novembre 2016 (foto di Michael Yohannes)

 

Se dovessi indicare un momento di svolta per il Biko, sarebbe semplicemente il cambio di venue o qualche concerto o avvenimento in particolare?
Quando all’inizio ci siamo trasferiti qui in via Ettore Ponti ancora non avevamo un impianto adatto per i live, quindi siamo ripartiti soprattutto con dj set e pochi concerti. La svolta è arrivata progressivamente dopo. In primo luogo quando siamo stati adocchiati da dei promoter di Roma: abbiamo iniziato a fare concerti con la collaborazione di Afrodisia di Mauro Zanda e con Re::Life di Marco Saurini. Quest’ultimo, in particolare, ha visto le potenzialità del Biko e ne è diventato un frequentatore assiduo. Marco lavora con molti spazi, festival, non è una persona che lavora solo su Roma ma molto sul territorio nazionale. Poi a un certo punto è successo un piccolo miracolo. C’è stato dato in usufrutto un impianto molto più professionale con cui abbiamo potuto cominciare a fare concerti più grossi. Meeting Project, un’azienda audio video di Milano che lavora con La Scala e per molti eventi e strutture, aveva un impianto inutilizzato che voleva dare a un’associazione perché venisse impiegato e non rimanesse sugli scaffali; noi a quel tempo stavamo cercando di migliorare il suono e le due cose si sono incrociate, proprio quando stavo trattando per un concerto degli Herbaliser, gruppo jazz hip hop londinese piuttosto importante che pretendeva uno standard di suono professionale. Le cose sono andate insieme e da allora siamo partiti con i concerti. Era il 2012.

heliocentrics-biko

Al Biko, nella sua dimensione più notturna, negli anni sono nati anche vari collettivi di dj…
Sì, oggi la parte di dj set ha lasciato spazio a un’attenzione maggiore per i live – e in realtà dovremmo tornare a curare questo aspetto perché i dj set fanno comodo, portano più incassi e richiedono molto meno sbattimento – ma negli anni qui sono nati vari collettivi. A parte Soul Finger, dj set di soul a 45 giri anni 50/70 – quindi cose anche un po’ di nicchia – che nasceva al Biko oltre sette anni fa e continua a suonare da noi, qui sono nati collettivi funk, alcuni che sono andati già scomparendo, altri che poi hanno cominciato a suonare anche altrove. Penso a Funkish!, Well Founded che faceva una contaminazione tra jazz e soul aperto all’elettronica, e poi Future Ground (Daniele D’Andrea) e Tommy Turbojazz, che oggi sono confluiti nel collettivo Lobo, insieme a DNN.

Ci sono stati dei posti che hai frequentato più di altri a Milano, che hanno fatto parte della tua “formazione” o che già prima del Biko davano spazio alla black music meno, per così dire, commerciale?
Primo su tutti, mi ripeto, per me è stato Pergola: un centro sociale che oltre a essere uno spazio di incredibile bellezza ha portato nei primi dieci anni di attività, dal mio punto di vista, la musica più interessante che passava in città. Poi, anche se meno, il Leoncavallo, il Gola, uno spazio occupato in via Gola dove facevano soprattutto reggae e il Bar Rattazzo, dove si faceva sosta prima dei concerti. Per quanto riguarda l’hip hop e l’r’n’b, a Milano c’erano il Soul to Soul in via San Marco e il Bataclan in piazzale Biancamano, ma ancora non c’erano tutte queste serate funk e soul. E devo ammettere che, arrivando da New York, a Milano rimasi sconvolta perché la musica che andava era completamente diversa: l’hip hop e la musica black in generale c’hanno messo un sacco di tempo ad arrivare qua. Va detto però che nei Novanta qui c’erano comunque un sacco di concerti, avevi l’imbarazzo della scelta. Poi sono arrivati la techno e i rave ed è un po’ sparita la scena live, erano diventate grosse feste elettroniche – che a me hanno appassionato meno – piuttosto che concerti.

Apollo Brown al Biko (foto di Davide Hugo Manea)
Apollo Brown al Biko (foto di Davide Hugo Manea)

 

Il Biko non ha una programmazione fittissima, ma ha sicuramente una direzione artistica, diciamo pure un’identità sonora definita e riconoscibile. Come costruite la programmazione, come scegliete gli artisti da ospitare?
In primo luogo, la programmazione del Biko è condotta da me e Alem con particolare attenzione alla musica internazionale perché è quella che ci ha sempre appassionato – anche se devo ammettere che mi è capitato di scoprire artisti folk o rock che non conoscevo e che magari sono stati portati qui in passato da Via Audio, realtà con cui collaboravamo soprattutto in precedenza e che oggi segue artisti un po’ più grossi. Ad esempio, mi sono emozionata tantissimo e inaspettatamente a concerti come quello di Sun Kil Moon o Vincent McMorrow. Personalmente non ho mai lavorato per agenzie, navighiamo a vista, seguiamo molto il nostro istinto. E poi la cosa bella è che, nel tempo, abbiamo scelto di collaborare con persone con cui si è creata un’amicizia e una condivisione della passione per la musica di qualità. Oltre a informarci parecchio sul web, a cercare e ascoltare novità e magari spingere i promoter a inseguire certi nomi – io non faccio booking direttamente, è un lavoro complesso, non è il mio – lavoro con persone con cui parlo, discuto e litigo di musica sempre. La programmazione del Biko nasce grazie a una collaborazione a 360 gradi tra le persone più presenti. Alem e io ci occupiamo di decidere cosa entra definitivamente in cartellone, confrontandoci molto con Re::Life, quindi Marco Saurini, Soulfood Promotion nella persona di Steve Dub – che qui suona spesso come dj, ha una lunga storia di djing hip hop ed è un enorme conoscitore della musica black. Nell’ultimo periodo abbiamo incrociato molto Ponderosa, con cui quest’anno abbiamo lavorato insieme per alcune date al Biko di JazzMi.

Un tipo di festival molto affine alla dimensione “contaminata” del Biko…
Quando quest’anno abbiamo iniziato a parlare con loro ci dissero che era assurdo che non ci fosse dentro il Biko. È stato molto bello e costruttivo lavorare con loro in questa seconda edizione. Sono stati estremamente aperti alle nostre proposte non puramente jazz: hanno accolto un nome come Oddiseee, un artista fondamentalmente hip hop che però rappresenta la cultura afroamericana in toto – sul palco sono una band di otto elementi che butta dentro il funk, il jazz, il soul, l’hip hop ed è la parte interessante della musica afroamericana contemporanea, quella più conscious e meno commerciale… Un’apertura continua alle contaminazioni, l’incrocio di più generi. Avrebbero potuto escludere il secondo nome che avevamo proposto, Masego, considerando che la sua musica è definita “trap jazz”, espressione che potrebbe far venire l’ansia a qualcuno… Invece da Ponderosa hanno mostrato subito molto entusiasmo. Da parte loro hanno proposto di far suonare da noi Makaya McRaven, giovane jazzista di Chicago aperto a un sacco di sonorità diverse. Da qui abbiamo iniziato ad aprire un bel dialogo con Ponderosa, che è un’agenzia con una qualità rispetto alla scelta degli artisti molto alta.

Al Biko tutto avviene nella sala, gli artisti passano in mezzo al pubblico per entrare e uscire e questa vicinanza secondo me genera un rispetto automatico, nessuno fa cazzate, nessuno invade gli spazi

Com’è il pubblico del Biko?
Un pubblico che viene per la musica, un pubblico molto attento che durante i concerti è in sala ad ascoltare e non disperso magari a chiacchierare e far casino. Un pubblico molto trasversale, dai 18 ai 60 anni, ed educato. Al Biko, ad esempio, non abbiamo sicurezza, non l’abbiamo mai avuta perché non succede mai niente, non c’è mai stata una rissa o problemi minori. E questo nonostante il nostro palco sia totalmente adiacente al pubblico, gli artisti sono appiccicati alle persone e non abbiamo mai avuto problemi. Ricordo che quando ha suonato Pharoahe Monch, nel 2013, erano abbastanza preoccupati dal fatto che non ci fosse una separazione tra palco e pubblico, che non ci fosse un ingresso riservato per i musicisti verso il backstage: al Biko tutto avviene nella sala, gli artisti passano in mezzo al pubblico per entrare e uscire e questa vicinanza secondo me genera un rispetto automatico, nessuno fa cazzate, nessuno invade gli spazi, il pubblico del Biko è molto bravo e di facile gestione. E infatti io direi che il 60% del nostro pubblico è femminile e questo la dice lunga: le donne vanno dove si sentono al sicuro, dove non hanno rotture di palle.

Dieci anni di Biko: quali sono stati i concerti indimenticabili che avete ospitato dal 2007 a oggi?
Qui serve una premessa. Gli artisti che vengono a suonare al Biko mangiano sempre qua, è Alem che cucina quindi tra soundcheck e cena passiamo una giornata intera con i musicisti che vengono a suonare. Questo crea un contatto vero con tutti loro come persone, li mette molto a loro agio e secondo me porta anche a un’esperienza del live che per noi è sempre particolarmente intensa, stupenda. Si genera un’energia bellissima fin da quando arrivano, attraverso il pomeriggio: anche per questo mi affeziono un sacco a tutti gli artisti che ospitiamo e sento molto quello che succede qua dentro. Pensa che spesso a fine concerto ci si ritrova in cucina a chiacchierare e delle volte è successo di trovare qualche artista ai fornelli che si scaldava un avanzo di pasta, come se fosse la cucina di casa sua! Mi ricordo ancora i Jungle Brothers litigarsi le cotolette e le lasagne nella cucina del Biko! E poi si entra anche molto in confidenza con i musicisti, ti rendi conto che le persone che vengono ai concerti perdono anche un po’ la percezione del fatto che chi sta sul palco è un artista ma anche un uomo, un lavoratore, una persona come noi con la sua stanchezza, la famiglia a casa e la sua normalità. Se devo fare qualche nome, Bilal è stato un live memorabile ed emozionante, lungo più di 2 ore; Oddisee ha suonato qui due volte nel giro di pochi mesi, fantastica la persona e anche i suoi musicisti, con live sempre lunghi in cui si spendono moltissimo e lo vedi che si divertono anche parecchio.

Otta & Mulatu Astatke
Otta & Mulatu Astatke

E poi Pharoahe Monch, Orlando Julius, Mulatu Astatke, pochi giorni fa abbiamo ospitato Marta High: lei è una regina, una donna stupenda con una voce ancora bellissima accompagnata dagli Osaka Monaurail, un gruppo funk della madonna. E poi sono passati qui con gran concerti The Internet, Apollo Brown e una delle mie preferite in assoluto, Georgia Muldrow: una jazzista – anche qui termine riduttivo, va dall’hip hop al jazz – di Los Angeles che fa una musica anche un po’ sbilenca, che ho sempre immaginato come colonna sonora del Biko perché questo posto è bello ma ha anche dei difetti, è un luogo molto vero, fatto dalle persone, che non hanno una tecnica perfetta. Il suono è perfetto, ma noi siamo noi!

E un concerto che hai visto altrove e ti è rimasto particolarmente impresso?
Tendenzialmente preferisco concerti in spazi piccoli, ma c’è stato un concerto “grosso” in tempi relativamente recenti che ho adorato e per cui sarò eternamente grata a DNA Concerti: D’Angelo, all’Estathé Market Sound un paio di anni fa. Aggiungo che per me andare a un concerto è come andare al cinema. Se qualcuno parla mi fa incazzare.

A proposito di incazzature: c’è qualcosa che manca a Milano per quanto riguarda la musica live?
Un difetto molto milanese che ancora mi fa arrabbiare, anche se col passare degli anni mi arrabbio meno rispetto alle cose che non mi piacciono, è l’idea che tante volte viene promossa una scena, più che un artista o un concerto. Il milanese è abbastanza ossessionato dalla “coolness”, quindi tante volte eventi che dovrebbero essere più frequentati lo sono poco e altri che boooh, si riempiono di gente… E questa è una cosa su cui, secondo me, Milano deve un po’ lavorare. D’altra parte, una cosa molto bella è che, soprattutto negli ultimi anni, si sono messe in moto un sacco di cose, rispetto agli anni bui del passato. Non serve parlare di destra e sinistra, anche se credo sia evidente che da Pisapia in poi qui la musica abbia smesso di essere “il disagio” per i cittadini. Penso anche all’iniziativa della Milano Music Week di quest’anno: il Comune si è accorto che c’è anche un bell’indotto dalla musica e hanno fatto un buon lavoro, perché non si vedeva da tempo che le istituzioni entrassero così in prima persona nella promozione degli eventi musicali. Io sono molto contenta, è vero che Milano sta rinascendo e credo che questo sia avvenuto dopo l’Expo. La città è un po’ cambiata, ci sono più turisti – prima chi ci veniva in vacanza a Milano? – e sta diventando interessante anche per la provincia intorno: noi abbiamo tante persone che frequentano settimanalmente il Biko che arrivano da Brescia o Bergamo, e questo non accadeva da un po’. Prima c’era molta meno roba, adesso le persone stanno tornando perché Milano è tornata a essere interessante.

Alfa Mist al Biko (foto di Federica Cicuttini http://federicacicuttini.com/it/)
Alfa Mist al Biko (foto di Federica Cicuttini http://federicacicuttini.com/it/)

 

Forse anche un po’ per il tipo di percorso che avete alle spalle tu ed Alem, potremmo dire che per certi versi l’attività del Biko non è solo culturale, ma anche un po’ sociale, politica?
Come Biko abbiamo partecipato alla campagna politica quando c’è stata l’elezione di Pisapia, io ero candidata al Consiglio Comunale – attraverso l’Arci, ma in maniera indipendente, non sono mai stata iscritta a partiti e non ho mai fatto politica all’interno di partiti. È stata un’esperienza molto strana, ma credo di poter dire che quotidianamente il Biko fa un’azione politica, che è quella di portare cultura: è un aspetto a cui tengo molto, fondamentale, perché spesso si dice che far parte di un’associazione è un po’ lo sgamo per fare i soldi senza pagare tasse, sai tutte quelle stronzate – che poi facendo musica non è che fai tutti ‘sti soldi, anzi magari ne perdi anche. La nostra idea è invece che la cultura sia una forma di azione politica: ti porto delle cose interessanti, del mondo, le porto in una zona periferica con una sua storia “sfigata” di quartiere anonimo per farti vivere una bella esperienza e avvicinarti al mondo. Abbiamo un progetto di base che non perdiamo mai di vista, che è quello di fare un’azione: culturale, difendibile.

La nostra idea è che la cultura sia una forma di azione politica: ti porto delle cose interessanti per farti vivere una bella esperienza e avvicinarti al mondo

Il Biko che progetti ha per il futuro?
L’idea di base è sempre stata quella di sviluppare più progetti, ma siamo sempre in corsa e l’economia è così stretta che è anche faticoso avere tante persone che lavorano qui. Quindi per tanti versi siamo lenti ma c’è l’intenzione di allargarci ad altri ambiti: una cosa assurda è che il Biko chiude 3 mesi e mezzo da giugno a settembre, e resta uno spazio vuoto inutilizzato. In estate ci piacerebbe fare attività per gli studenti, negli ultimi anni quello che abbiamo fatto è stato chiudere la serranda e catapultarci al Carroponte, dove ci occupiamo della cucina, altrimenti sarebbe impossibile sopravvivere. Ci piacerebbe aprire la cucina anche qua, ma non siamo mai riusciti a organizzarci: non sarebbe neanche così complesso, ci siamo quasi, l’idea è fare una cucina espressa, perché siam bravi ai fornelli, soprattutto Alem. I musicisti si ricordano sempre le cene del Biko!